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Tuesday, August 04, 2009

L'Iran da dittatura clericale a militare

L'investitura ufficiale di Ahmadinejad sembra segnare il passaggio della Repubblica islamica da una dittatura clericale a una dittatura militare. Il potere reale è sempre più nelle mani delle Guardie rivoluzionarie e degli apparati militari e di sicurezza del regime piuttosto che del clero, che però non rinuncia a lanciare la sua sfida al presidente rieletto e a chi ne ha permesso la rielezione, ossia la Guida Suprema, Ali Khamenei. Il regime iraniano cambia volto, perde la sua fonte di legittimazione religiosa, e si trasforma in una qualunque dittatura militare del Terzo mondo, che si regge solo sulla forza bruta. Il regime ha ancora il pieno controllo del Paese, ma solo grazie alle Guardie rivoluzionarie e alla milizia Bassij, non grazie al prestigio e all'autorità della Guida Suprema.

Il fatto che lunedì scorso importanti esponenti del regime, come gli ex presidenti Rafsanjani e Khatami, ed entrambi i candidati sconfitti alle presidenziali del 12 giugno, Moussavi e Karroubi, abbiano disertato la cerimonia di investitura rappresenta l'ennesimo gesto di sfida all'autorità della Guida Suprema, e indica che ampi settori dell'establishment clericale ritengono illegittimo il governo di Ahmadinehjad e resistono alla militarizzazione della Repubblica. La crisi politica è quindi lontana dal concludersi. Domani Ahmadinejad dovrà ricevere l'investitura anche da parte del Majlis, il Parlamento iraniano. Ratifica scontata, ma non priva di insidie.

A prescindere da come si concluderà la crisi, una cosa «è già chiara», per Amir Taheri: la dottrina del walayat faqih, «pietra angolare» del sistema khomeinista, «è morta». L'elite del regime è in uno stato di «guerra civile» e rischia di trascinare il Paese intero in un periodo di conflitto. Per 30 anni il walayat faqih – ovvero «tutela del giureconsulto», principio che attribuisce alla Guida Suprema l'ultima parola su ogni aspetto del governo della Repubblica islamica – ha rappresentato una barriera invalicabile contro qualsiasi genuina riforma. Ma ora il comportamento di Khamenei, osserva Taheri, «ha alimentato un consenso crescente» nell'establishment clericale sulla necessità che sia «tempo per l'Iran di andare oltre il khomeinismo, sia come ideologia che come sistema di governo». Da qui alla democrazia il passo è troppo lungo, e probabilmente distante dalle intenzioni dei principali protagonisti, ma ormai un segmento sempre più ristretto dell'elite si aggrappa ancora al concetto di walayat faqih e questo è «forse il vero miracolo avvenuto lo scorso mese», suggerisce Taheri.

Schierandosi apertamente dalla parte di Ahmadinejad nella disputa post-elettorale, e coprendo (se non ordinando) gli evidenti brogli, Khamenei ha compromesso l'autorità della sua figura, la Guida Suprema, su cui si regge tutto l'impianto istituzionale del sistema khomeinista. Non solo la sua autorità è stata più volte sfidata dai candidati di opposizione, da esponenti del regime dalle indubbie credenziali khomeiniste, come gli ex presidenti e ayatollah Rafsanjani e Khatami, e dalla piazza, ma persino dallo stesso Ahmadinejad, il quale, dopo aver nominato vicepresidente Rahim Mashai, per giorni ha ignorato l'ordine di tornare sui suoi passi impartito da Khamenei. Sfidando ripetutamente l'«ultima parola» della Guida Suprema, entrambi rifiutandosi di riconoscere la rielezione di Ahmadinejad e boicottando gli eventi presieduti da Khamenei, Rafsanjani e Khatami hanno dimostrato di non credere più, e comunque di non attenersi, al walayat faqih. E con essi una parte consistente del clero che conta. Khamenei appare sempre più succube dei pasdaran, la sua sorte politica legata a quella di Ahmadinejad. E il suo disagio è apparso evidente durante la cerimonia di investitura, quando ha quasi ritratto la mano mentre Ahmadinejad la cercava per baciarla.

Il principio del walayat faqih, spiega Taheri, ha sempre funzionato come il «centralismo democratico» nel leninismo. Le questioni potevano essere dibattute, discusse, all'interno del regime, ma una volta che la Guida Suprema avesse pronunciato «l'ultima parola», tutti dovevano adeguarsi ad essa rispettosamente. Così ha funzionato nei due decenni durante i quali Khamenei ha interpretato correttamente il suo ruolo di arbitro imparziale, al di sopra delle fazioni, ricorrendo in modo parsimonioso al suo diritto all'ultima parola, per chiudere i dibattiti e riunire la «ummah», la comunità di fedeli. «Ma nelle scorse settimane – osserva Taheri – è diventato chiaro che il walayat faqih non funziona più. Invece che calmare gli animi, gli interventi della Guida suprema hanno approfondito le divisioni interne». La Guida Suprema è scesa nell'agone politico.

Come mai Khamenei abbia deciso di abbandonare il suo ruolo di arbitro supremo per divenire il «sicario» di Ahmadinejad rimane un mistero. Forse perché ha la pistola delle Guardie rivoluzionarie puntata alla tempia. O forse perché terrorizzato dalla prospettiva di una «rivoluzione di velluto». In ogni caso, è evidente che «in poche settimane ha dilapidato un capitale politico accumulato in tre decenni». Nonostante rimanga un attore potente sulla scena politica iraniana, non è più al di sopra delle parti e ciò ha minato l'autorità della carica che ricopre (sia agli occhi del popolo che del clero), e con essa la legittimazione stessa del regime.

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