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Friday, August 21, 2009

Afghanistan e Iraq, le indecisioni strategiche si pagano

La democrazia dovrà vedersela ancora una volta a mani - anzi, dita - nude contro le bombe. Le forze Nato schierate contro la guerriglia talebana in Afghanistan restano naturalmente indispensabili, ma in definitiva sarà la voglia di normalità degli afghani a fare da ago della bilancia. Se verrà meno, non basteranno gli eserciti a far uscire il paese dal caos e a salvarlo dai talebani. Epperò, anche i successi contro i talebani possono dare speranze alla popolazione.

L'esito della giornata elettorale di ieri è confortante anche se non entusiasmante. Insomma, poteva andar peggio. Sembra infatti che nonostante i kamikaze, i razzi, e le intimidazioni che ci sono stati anche ieri (oltre 70 attacchi e una trentina di morti in 15 province su 34), un numero di seggi maggiore delle attese sia stato aperto e l'affluenza al voto sia stata buona, addirittura il 50%, anche se non paragonabile a quella delle presidenziali del 2004, quando votò il 70% degli aventi diritto. Un ottimismo, quello espresso dalla Nato e dall'Onu sul voto in Afghanistan, motivato più che altro dalle basse aspettative della vigilia. I talebani infatti da alcune settimane hanno ripreso l'iniziativa e in pochi giorni hanno dimostrato alla popolazione quanto scarsi ed effimeri siano i progressi compiuti in quattro anni dalle nuove istituzioni afghane.

L'affluenza in calo indica comunque che la sfiducia degli afghani nelle nuove istituzioni aumenta e se dovesse scendere sotto una certa soglia, non ci sarebbe aiuto internazionale in grado di fare argine: tornerebbero i talebani. La colpa di questa situazione è certamente di Karzai, la cui rielezione non è scontata e che non gode neanche più del favore degli Usa, pronti ad accogliere positivamente un'affermazione di Abdullah. Ma sulla situazione afghana continua a pesare anche un'ambiguità strategica che né il presidente americano Obama, né tanto meno gli altri paesi della Nato impegnati hanno ancora risolto. Non è ancora chiaro se l'obiettivo sia sconfiggere definitivamente i talebani, o solo contenerli, accontentandosi di impedirgli di lanciare nuovi attacchi terroristici contro gli Usa e che il governo legittimo controlli la maggior parte, anche se non tutto, il territorio. Finché un giorno, inevitabilmente, non verrà deciso il ritiro dei contingenti. E allora saranno dolori.

Attualmente gli uomini impiegati in Afghanistan sono circa 100 mila, in un paese in cui per controllare il territorio garantendo un minimo di sicurezza alla popolazione civile ce ne vorrebbero almeno quattro volte tanti. Figuriamoci poi se c'è anche da combattere per respingere le offensive talebane o per bonificare intere aree dalla loro presenza. Un'altra ambiguità che indebolisce la forza multinazionale è che non tutti i paesi condividono le stesse responsabilità. La maggior parte dei contingenti, e tra questi quello italiano e quello tedesco, possono difendersi se attaccati, ma non sono autorizzati a partecipare a operazioni di combattimento al di fuori della loro area. Dei 100 mila uomini, 62 mila sono americani - solo la metà all'incirca truppe combattenti - e al loro fianco combattono attivamente solo i contingenti inglese, canadese e olandese.

Anche l'Iraq da alcune settimane a questa parte sembra essere ripiombato nel terrore. I terroristi hanno portato il loro attacco fino al cuore delle nuove istituzioni irachene come probabilmente non erano mai riusciti in questi anni. I camion-bomba contro il Ministero degli Esteri, il Ministero delle Finanze e il palazzo del governo provinciale di Baghdad, hanno causato circa un centinaio di morti e oltre 600 feriti. Una delle esplosioni ha persino fatto venir giù un pezzo di viadotto, uccidendo gli ignari automobilisti che lo stavano attraversando. Poi i colpi di mortaio che hanno raggiunto la blindatissima "zona verde" e altre bombe contro obiettivi minori, un mercato in una zona sciita e due posti di blocco.

Per trovare un attentato di simili proporzioni a Baghdad bisogna risalire al primo febbraio del 2008, quando morirono 99 persone. Ma allora furono delle donne kamikaze a fare strage in diversi mercati, mentre questa volta sono state colpite al cuore le istituzioni civili, per dimostrarne la vulnerabilità. Considerando la potenza di fuoco, la capacità organizzativa e l'importanza strategica degli obiettivi, dietro c'è senz'altro la mano di al Qaeda, forse con l'aiuto - ma solo marginalmente - di qualche frangia ex baathista non ancora rassegnata, mentre la Siria continua a offrire ospitalità e supporto logistico ai terroristi per dimostrare, contribuendo a destabilizzare l'Iraq, di essere ancora un attore influente nella regione con il quale scendere a patti. La pazienza americana nei confronti di Damasco resta davvero un mistero.

Dopo il calo delle vittime di violenze negli ultimi due anni, grazie ai successi della nuova strategia americana voluta da Bush e praticata sul campo dal generale Petraeus, l'intensificarsi degli attacchi dalla primavera di quest'anno non può non essere messo in relazione con il ritiro, prima annunciato e poi avvenuto, il 30 giugno scorso, delle truppe americane dalle città e la consegna della responsabilità della sicurezza alle autorità irachene. Il 23 aprile 84 morti a Baquba in tre attentati suicidi in un giorno. Il 20 maggio 40 morti per un'autobomba a Baghdad. Il 20 giugno 72 morti per un camion-bomba a sud di Kirkuk, nel nord del paese. Il 24 giugno 62 morti nel quartiere sciita di Baghdad. Il 30 giugno le truppe americane lasciano le aree urbane e si ritirano nelle basi lontane dai centri abitati. Il 28 luglio 8 morti e 13 feriti per una moto-bomba a Baghdad. Il 31 luglio alcune esplosioni fuori da una moschea sciita fanno 31 morti. Sempre a Baghdad. Il 7 agosto un'autobomba uccide 38 persone appena escono da una moschera sciita fuori Mosul, nel nord, e sei pellegrini sciiti muoiono in una serie di esplosioni a Baghdad. E' un crescendo. Il 10 agosto due camion-bomba uccidono 30 persone e ne feriscono 155 in un villaggio sciita a est di Mosul. E di nuovo a Baghdad, un'autobomba uccide 7 lavoratori in un'area a maggioranza sciita. Il 16 agosto, sempre in un'area sciita di Baghdad, 8 morti e 21 feriti.

E pensare che appena tre settimane fa, ricorda il New York Times, il premier iracheno al Maliki aveva dato ordine di rimuovere le barriere anti-bomba in cemento armato dalle vie di Baghdad, convinto da un alto ufficiale dell'esercito a lui vicino che ormai la sicurezza non fosse più un "problema". A dargli una lezione ci ha pensato al Qaeda. Ma è una ulteriore sfida anche per il presidente Obama, cui molti ora chiedono di rallentare il piano di ritiro delle truppe Usa dall'Iraq. Ci sono diverse possibilità di un'«inversione di tendenza» in Iraq rispetto ai recenti progressi, avverte l'esperto Stephen Biddle, del Council on Foreign Relations, che individua ben quattro scenari nei quali il paese potrebbe «allontanarsi da una prospettiva di pace e stabilità a breve e medio termine». Una «vigorosa strategia preventiva, nella forma di un rallentamento del ritiro Usa dall'Iraq, sarebbe meno costosa, sia politicamente che militarmente, nel lungo termine».

2 comments:

Anonymous said...

Da quello che si legge in giro, pare che non siano solo i talebani il problema afghano e le elezioni lo hanno messo in mostra. Tra l'altro 400.000 soldati sarebbero all'incirca 1 ogni 80 abitanti, e secondo te non sarebbero nemmeno sufficenti: non ti viene il dubbio che magari sono altre le cose che non funzionano?

Anonymous said...

Prima bisogna chiarire che non esistono, per le guerre, le ragioni del buono contro il cattivo, del bello contro il brutto, o di una religione giusta contro una ingiusta o di un sistema politico giusto contro uno sbagliato o la più banale “la pace”. Le ragioni sono sempre state le stesse sin dall’inizio della vita sulla terra e continueranno ad essere tali, gli interessi. Sono la sopravvivenza, ad iniziare dal mondo animale, vegetale, e all’inizio delle società, la sottrazione di un territorio o di derrate tra tribù, sino ad arrivare alla sottrazione di un territorio, o al controllo di un territorio, di risorse o di un sistema politico, di conseguenza finanziario. Perfino le alleanze e le amicizie politiche e strategiche si attribuiscono solo per tali ragioni, anche se a volte si fanno amicizie ed alleanze sbagliate, controproducenti o addirittura tradire per interesse e gli amici diventano nemici e viceversa.
Il terrorismo non esiste, esiste la guerra. In guerra c’è chi attacca con tutti i mezzi a sua disposizione e chi si difende con tutti i mezzi a sua disposizione, si va dall’atomica agli attentati, tutto è arma, perfino la propaganda, falsi allarmismi sulla propria popolazione, complotti e cospirazioni. La storia ne è piena e personalmente non ricordo di aver sentito parlare di una guerra per la pace. I civili sono considerati obbiettivo, il popolo contrapposto è proprietario e finanziatore dell’esercito avversario.

PER capire. ed interpretare le ragioni e le strategie della campagna d’Afghanistan bisogna tornare indietro di qualche anno, all’invasione sovietica. Allora la propaganda occidentale esclamava che i Sovietici avevano come obbiettivo di arrivare all’oceano indiano così da poter controllare il territorio e di conseguenza il petrolio, non è difficile intuire che veniva minacciata la nostra libertà e si parteggiava con i nemici dei Sovietici, i talebani. I media erano sbilanciati a favore dei talebani, sono stati creati films e documentari a oc, Rambo 3 è esemplare, Rambo venne inviato in Afghanistan contro i Sovietici perché compivano massacri contro la popolazione, i talebani diventavano simpatici e i russi antipatici.
I talebani effettivamente vennero armati e foraggiati con milioni di dollari, potettero coltivare anche l’oppio per autofinanziarsi con la benedizione degli americani.

Adesso l’Afganistan non ha più l’importanza strategica che aveva appena 20 anni fa? certo, solo che le ragioni dei Sovietici sono state accaparrate dagli Americani. L’importanza è perfino aumentata con le mega-potenze che convergeranno nel prossimo futuro in quell’area e tutto quel petrolio, aggiungo le risorse dell’Africa. Il problema afgano, irakeno e iraniano sono legati strettamente, tutto il medioriente è un unico problema.

Per gli americani è solo un tentativo molto azzardato che ha pochissime possibilità di essere compiuto. Con la caduta del muro di Berlino e la conseguente globalizzazione, sono stati questi i veri fattori che hanno cambiato il mondo, gli Usa si sono avviati verso un inesorabile declino economico e sono restii a lasciare lo scettro. L’unico risultato che otterranno, che comunque è un loro obbiettivo secondario, è erigere un muro nel mediterraneo per contrastare un probabile sistema commerciale euro-mediterraneo. Gli Usa non temono la Cina o l’India quanto la Grande Europa.

Le nostre apparenti nobili ragioni, sono in realtà di vassallaggio, non solo, la nostra alleanza è tra quelle controproducenti. L’Europa, malgrado i nostri politici e la classe dirigente ammaestrati, è destinata a essere tra quelle mega-potenze Russia, Cina e India che convergeranno sul medi oriente, se incomincia ad essere lungimirante e inizia a farsi rispettare, anzitutto con la pace nel mediterraneo che è diventato un mare di guai.