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Friday, December 18, 2009

Stasi assolto, ma che disastro questi pm!

Adesso che il processo Stasi si è concluso con un'assoluzione, si dirà che non poteva andare altrimenti. In effetti sarebbe così, se non fosse che siamo in Italia, dove è vero che «senza prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio» nessuno può essere condannato, ma è anche vero che molte volte, troppe, questo principio rimane sulla carta e accade esattamente il contrario. A causa per lo più della sudditanza dei giudici nei confronti della pubblica accusa. La sola separazione delle funzioni, e non anche delle carriere, tra giudicante e requirente non è sufficiente a garantire la terzietà del giudice.

L'aspetto paradossale nel processo Stasi, per esempio rispetto alla sentenza di condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, è che un giudice monocratico, di giovane età, si sia dimostrato più indipendente e meno influenzabile di una giuria. Forse ciò si deve anche al fatto che nel caso Garlasco la pm è stata praticamente abbandonata dal suo procuratore capo (ma se nutriva dei dubbi sulle indagini, non avrebbe fatto meglio a toglierle il caso, per esempio dopo la scarcerazione di Alberto decisa dal gip?), mentre a Perugia il procuratore capo Mignini ha fatto sentire tutto il suo peso. Il gup Vitelli, scrive Feltri su il Giornale, «restituisce a tutti noi un po' di fiducia nella magistratura. Ci sono toghe che sanno fare il loro mestiere. Sarebbe meglio valorizzarle». E le sue parole valgono ancor di più perché notoriamente il direttore non nutre una particolare stima nei confronti della magistratura.

Un'altra grave anomalia italiana è il processo mediatico. Sono pochi i giornalisti e i commentatori televisivi che si documentano e riescono a farsi un'idea equilibrata sulle prove in possesso dell'accusa. Una di questi pochi, occorre dirlo, è Cristiana Lodi, di Libero, che ha fatto un lavoro egregio. Gli altri - potrei fare i nomi, ma tutti conosciamo i volti più noti dei salotti televisivi, tra psicologi e sostitute procuratoresse - si fanno imbeccare dall'accusa, si lasciano suggestionare da particolari fatti trapelare ad arte e in modo da scatenare le ipotesi più pruriginose e "piccanti".

Pochi sanno, per esempio, che le famigerate foto pedo-pornografiche erano state cancellate dal pc di Alberto mesi prima il delitto, mentre ore e ore di trasmissioni televisive hanno fatto credere che la loro scoperta da parte di Chiara potesse aver indotto Alberto ad ucciderla. E' stata fatta una campagna martellante sull'archivio di immagini pornografiche sul pc di Alberto, ma non è stata portata la minima prova che Chiara le avesse viste e in ogni caso difficilmente avrebbe avuto una reazione così scandalizzata da costituire un movente per ucciderla, visto che tutte le conversazioni (e non solo) agli atti - per chat, mail ed sms - tra i due ragazzi sembrano molto disinibite sull'argomento sesso. Eppure, queste trasmissioni televisive hanno avvalorato insistentemente una ricostruzione (Chiara che scopre Alberto "maniaco" e lui che la uccide) fondate solo su deboli supposizioni. Questa è un'altra costante della pubblica accusa in Italia: l'ossessione per il sesso, che deriva da una cultura sessuofobica. Il sesso visto come qualcosa in ultima analisi di "sporco", il posto migliore - se non l'unico - dove andare a cercare un movente.

Anche elementi che comunemente rendono stimabile una persona, nei processi mediatici vengono rivolti a sfavore dell'imputato. Così lo studio diventa prova di freddezza, una relazione amorosa a detta di tutti seria e stabile deve per forza esserlo solo apparentemente e nascondere, invece, qualcosa di torbido e inconfessabile. Non è stato certo il miglior modo di onorare la memoria di Chiara, anche se non c'è più, infangare quello che probabilmente è stato l'amore della sua vita.

La migliore e più efficace strategia dell'accusa in Italia è la character assassination, anche se per fortuna a volte ha le gambe corte. Che fa il paio con un modo di raccogliere e interpretare le prove che ha sconvolto le più comuni e consolidate nozioni. Eravamo infatti abituati a credere che si è nei pasticci quando si trovano tracce di sangue sotto le suole delle scarpe o sugli indumenti, non quando invece mancano. La mancanza di tracce di sangue sulle scarpe di Alberto poteva in effetti insospettire, essendo stato lui a scoprire il cadavere, ma ci si è ostinatamente rifiutati di prendere in considerazione spiegazioni più logiche e verosimili, che alla fine sono emerse: le suole avevano un certo grado di idrorepellenza, le macchie di sangue erano probabilmente secche quando Alberto le ha calpestate, e comunque ha continuato a camminare con quelle scarpe per ore, anche sull'erba bagnata. Stesso discorso per l'irrilevante impronta sul portasapone, che prova solo il fatto che Aberto frequentava il bagno di casa della sua ragazza.

Ma laddove la ricostruzione dell'accusa è definitivamente crollata è sulla perizia informatica e sull'orario della morte. E' gravissimo che l'alibi di Alberto sia stato "cancellato" dagli investigatori per imperizia - nel migliore dei casi, per non pensare alla malafede. E non si può sostenere per tutto il processo una determinata ora del decesso della vittima e all'ultimo momento, solo perché si scopre che l'imputato per quell'ora ha un'alibi solido, spostarla. Non si fa. E' scorretto. E' disonesto. Dovrebbe essere oltraggio alla Corte.

Fondamentalmente, il problema è che in Italia non si parte dagli indizi per individuare il colpevole. Si presume di aver individuato il colpevole e poi si va a caccia delle prove. Si piegano tutte le evidenze e le perizie in funzione di un teorema accusatorio elaborato troppo presto, e di cui ci si innamora quasi per orgoglio. Per non parlare della solita, imbarazzante e pasticciata gestione della scena del crimine. Adesso, ci risparmino per lo meno lo spettacolo indecoroso di un ricorso in appello e si vadano piuttosto a nascondere dalla vergogna. Definitivo, speriamo, sull'intera vicenda il commento di Carlo Federico Grosso, su La Stampa:
«A questo punto, occorrerà che qualcuno dotato di autorità assuma qualche provvedimento. Non è infatti ammissibile che vi siano consulenti tecnici che si spendano sull'efficacia probatoria di determinate impronte di Dna, e che vengano clamorosamente smentiti da altri periti. Non è ammissibile che si discetti per mesi sulle mancate impronte ritrovate sulle scarpe dell'imputato, e che poi emerga che, forse, la spiegazione poteva essere reperita nella particolare composizione chimica delle suole. Non è, soprattutto, ammissibile che si continui a rifiutare, per mesi, che l'imputato possa essersi trattenuto al computer l'intera mattinata in cui si è consumato l'omicidio, per scoprire poi che egli aveva, effettivamente, lavorato dalle 9.36 alle 12.20 e che le tracce di questi passaggi erano state improvvidamente cancellate. Ne va, diciamolo chiaramente, della stessa credibilità degli uffici pubblici investigativi e peritali ai quali i magistrati della accusa si sono affidati nel corso delle indagini. Ne va, è doveroso soggiungere, della stessa credibilità degli uffici giudiziari interessati».
Chi dovrebbe intervenire?

1 comment:

Anonymous said...

è la prova che senza le ingtercettazioni, le indagini - troppo spesso - non le sanno fare.

e non credo che sia per carenza di strumenti, fondi o altro...piuttosto difettano le capacità investigative degli uomini.

pensa se in zona...abitava genchi, invece!

io ero tzunami