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Tuesday, March 09, 2010

Passare alla riduzione del danno

Come ho avuto modo di scrivere fin dall'inizio, la questione del Pdl laziale è molto più complicata rispetto al "listino" Formigoni e forse andava lasciata al suo destino. Governo e maggioranza dovrebbero a questo punto incassare con pragmatismo la decisione del Tar del Lazio, anche se desta più di qualche dubbio. Al massimo, se a breve, attendere il Consiglio di Stato. Il caos, il tira e molla di questi giorni, l'impressione che il decreto interpretativo sia stato superfluo per Formigoni e inutile per il Pdl nel Lazio, stanno demolendo l'immagine efficientista della coalizione di governo (incapace due volte: prima a presentare le liste, poi a risolvere il problema per decreto), il che rischia di tradursi in una emorragia di consensi. Passano i giorni, e la situazione rischia di aggravarsi fino ai limiti della irrecuperabilità. Quindi, è nel loro interesse chiudere al più presto in un modo o nell'altro, perché la campagna, la strategia comunicativa di Berlusconi, che potrebbero limitare il danno, non possono partire in questa incertezza. L'idea che siano state modificate le regole del gioco in corsa disturba anche gli elettori di centrodestra più moderati, ma non aver potuto salvare la lista del Pdl a Roma, se non altro, è un argomento in più, decisivo, per sostenere che il decreto non cambiava le regole, era davvero solo interpretativo.

Certo, la sentenza del Tar solleva dubbi inquietanti. Nel respingere la richiesta di sospensiva che avrebbe ammesso la lista del Pdl per la provincia di Roma, i giudici amministrativi fanno notare che il decreto interpretativo varato venerdì scorso dal governo «non può trovare applicazione perché la Regione Lazio ha dettato proprie disposizioni in tema elettorale esercitando le competenze date dalla Costituzione. A seguito dell'esercizio della potestà legislativa regionale, la potestà statale non può trovare applicazione nel presente giudizio». Sorge il dubbio però che ormai la questione sia solo politica. E' vero che la Costituzione attribuisce la legislazione elettorale di valenza regionale alle regioni, ma la norma chiamata in causa dal Tar del Lazio, l'articolo 2 della legge regionale del Lazio n. 2 del 20 gennaio 2005, dispone che «per quanto non espressamente previsto, sono recepite la legge 17 febbraio 1968, n. 108 (Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale) e la legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario), e successive modifiche e integrazioni». Per tutto quello non espressamente previsto quindi la Regione Lazio si rimette alla normativa nazionale, che lo Stato ha tutto il diritto di interpretare.

E «successive modifiche e integrazioni», spiega il costituzionalista Ciro Sbailò a il Velino, significa che siamo di fronte a «un caso classico di "rinvio dinamico" che vincola la legge a un'altra legge. Quando, infatti, il rinvio è "statico", "le eventuali variazioni apportate all'atto cui si rinvia sono indifferenti". Nel caso di rinvio dinamico, invece, l'ordinamento "si adegua automaticamente a tutte le modifiche che nell'altro ordinamento si producono" (G. Pitruzzella). In altre parole - sostiene il professor Sbailò - con quel riferimento dinamico, il legislatore regionale ha aperto una strada che poi non può decidere di chiudere quando gli pare... Insomma, siamo di fronte a un atteggiamento a dir poco "creativo" dei giudici amministrativi».

Se alla discutibile decisione del Tar del Lazio aggiungiamo le magagne che stanno venendo fuori in Lombardia e in Piemonte, allora - posto che a questo punto, elettoralmente parlando, al centrodestra converrebbe forse non insistere - il problema diventa un altro, quello di una «dissidenza» di parte della magistratura nei confronti delle istituzioni democratiche tutte, come descritto da Il Foglio oggi:
«Quei magistrati, in sostanza, spingono il loro diritto a interpretare le leggi fino al limite di capovolgerle e non osservarle. I cavilli procedurali ai quali si sono appellati, il gioco di sponda formalistico con la Corte costituzionale, il derisorio rinvio della decisione definitiva a dopo lo svolgimento delle elezioni, sono lampanti esempi di una arrogante volontà di far prevalere le formalità sulla sostanza, il giurisdizionalismo sulla democrazia. L’intervento autorevole e sofferto di Giorgio Napolitano, che puntava a superare una contrapposizione lacerante con un preciso e coraggioso senso istituzionale, non solo non è stato accolto ma è stato frettolosamente archiviato. Il problema dunque, non è più quello dei pasticci combinati da qualcuno, dei tentativi di porvi rimedio, della validità delle scelte compiute dal governo, è invece quello di una sostanziale dissidenza giudiziaria, di un ordine che vuole prevalere sulle istituzioni elettive, dal Parlamento, al governo, al Quirinale. Il formalismo è l’aspetto esteriore di questa dissidenza».

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