Forte anche delle recenti prese di posizione del Dipartimento di Stato Usa e dello stesso presidente Obama sulla libertà di Internet, Google ha deciso di non sottostare più alla autocensura che gli era stata imposta dal regime di Pechino, e che aveva accettato fin dal 2006, per poter entrare nel "mercato" cinese. Continuerà a fornire ricerche in lingua cinese reindirizzando le richieste da Google.cn verso il proprio sito di Hong Kong, Google.com.hk. Il fatto che Google abbia deciso di smettere di filtrare e censurare i risultati delle ricerche, come imporrebbe la legge cinese, non significa che il regime rinunci ad esercitare e anzi ad intensificare il suo controllo, i suoi "blocchi", o a mettere a segno attacchi informatici come quelli che nel gennaio scorso hanno colpito le caselle di posta elettronica di diversi dissidenti e i sistemi di alcune multinazionali, sollevando un caso diplomatico tra Washington e Pechino.
Il governo di Pechino si guarda bene dal trasformare in caso politico e diplomatico quella che, fa sapere, resta «una questione esclusivamente commerciale» e che, assicura il portavoce del Ministero degli Esteri, non avrà alcuna ripercussione sulle relazioni bilaterali tra Cina e Stati Uniti, a meno che «qualcuno intenda politicizzarla». Ma precisa, a scanso di equivoci, che continuerà a gestire Internet in conformità con le proprie leggi. Cioè censurando. Per ritorsione ha già cominciato a limitare l'accesso ad alcuni contenuti e collegamenti, ma prima o poi potrebbe decidere di bloccare ogni accesso ai servizi di Google. E c'è anche il rischio che utilizzi quanto accaduto come pretesto per limitare le libertà e i diritti di cui ancora godono i cittadini di Hong Kong.
Non è solo una contesa tra la nazione più popolosa del pianeta e una vera e propria superpotenza di Internet, ma pur sempre una società privata. Né solo una questione di libertà e di diritti umani. E' in gioco anche la sicurezza nazionale di altri stati. Il governo cinese, infatti, compie operazioni di spionaggio, "cyber-intrusioni" nei sistemi di grandi multinazionali (e non è escluso anche di enti governativi). Si è servito anche di Google, che ha così visto messa a rischio la propria credibilità. Il passo di Google, non facile perché rischia l'espulsione da un mercato potenzialmente immenso come quello cinese, è stato certamente accolto con favore a Washington, che l'aveva in qualche modo incoraggiato. Proprio gli attacchi informatici del gennaio scorso, infatti, avevano indotto l'amministrazione Obama a intervenire e a porre la lotta contro la censura delle dittature su Internet tra le priorità della propria politica estera (e di sicurezza).
Riconoscendo che la sua politica aziendale era incompatibile con l'autocensura richiesta per operare in Cina, Google ha di fatto accolto l'invito rivolto dal segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, alle compagnie americane. Nel suo solenne discorso del gennaio scorso la Clinton aveva assicurato l'impegno del governo Usa «a promuovere la libertà di Internet», affiancando e sostenendo organizzazioni private, investendo nella ricerca e nello sviluppo della tecnologia delle telecomunicazioni per «migliorare le armi che già abbiamo a disposizione per garantire la sicurezza e per consentire a tutti il libero accesso alla Rete».
Aveva avvertito «Paesi o individui» responsabili di cyber-attacchi che «dovranno affrontare delle conseguenze e la condanna internazionale». In particolare, si era rivolta con fermezza alla Cina, chiedendole di «condurre una puntuale e trasparente indagine» sui cyber-attacchi, e aveva lanciato un appello alle società d'informatica americane che operano all'estero, affinché si rifiutino di sostenere o tollerare la censura: «Spero che il rifiuto della censura possa diventare un tratto distintivo delle compagnie d'informatica e di tecnologia americane. Dovrebbe diventare parte del nostro brand nazionale».
Google l'ha ascoltata. La sua decisione si inquadra nella nuova politica che per lo meno sulla libertà di Internet la Casa Bianca ha inaugurato nei confronti della Cina. In qualche modo ne è frutto.
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