Stavolta il botto più grande sarà il dato dell'affluenza (vicino al 70%), con le tre etnie irachene impegnate a confrontarsi all'ultimo voto anziché all'ultimo sangue. E solo questo passo avanti dovrebbe convincere che i sacrifici ne valgono la pena
Si sono svolte in Iraq le prime elezioni parlamentari dopo la caduta di Saddam Hussein. E' la terza volta in un anno che gli iracheni vengono chiamati alle urne. A gennaio hanno eletto un'assemblea costituente, a ottobre approvato il referendum sulla Costituzione. Centinaia i partiti e le coalizioni che si presentano nelle 18 province e migliaia i candidati. Il 25% degli eletti dovranno essere donne. Tra i principali partiti ci sono la coalizione curda di Jalal Talabani e Massoud Barzani, la coalizione di Iyyad Allawi (Lista nazionale irachena, Lni) e quella di Ahmed Chalabi (Alleanza unita irachena, Aui). Di matrice più strettamente religiosa sono i due partiti sciiti, il Dawa del premier Ibrahim Jaafari e lo Sciri di Abdulaziz al Hakim e il sunnita Fronte dell'accordo iracheno (Fai). I due nodi politici di queste elezioni sono il peso che avranno nel prossimo Parlamento i partiti religiosi e la riconciliazione nazionale.
«Il numero delle persone che stanno partecipando alle elezioni è molto, molto alto», ha commentato stamani l'Ambasciatore Usa in Iraq, Zalmay Khalilzad, precisando che una grande affluenza viene registrata anche nelle aree sunnite del paese. Sporadici gli atti di violenza. «Finora è una giornata positiva, positiva per noi e per l'Iraq, questo è il primo passo per far aderire gli arabi sunniti al processo politico e coinvolgerli nel governo». Una coalizione di governo moderata, inter-etnica, ma anche competente ad affrontare i problemi del nuovo Iraq (la riconciliazione, la sicurezza, la ricostruzione e lo sviluppo) è l'esito del voto auspicato da Khalilzad.
Tutte le tre principali etnie del paese (sciiti, sunniti, curdi) sono pienamente coinvolte nel voto. Anche la massima guida spirituale degli sciiti iracheni, il grande Ayatollah Ali al Sistani, ha invitato i fedeli a votare, ma fornendo solo un'indicazione generica a votare per i candidati che ritengano in grado di salvaguardare i loro interessi e principi.
C'è in gioco «ben più che la scelta di 275 parlamentari», scrive Peter Brookes sul New York Post. E' un momento chiave per «provocare il cambiamento in Iran e Siria, battere al Qaeda e rendere noto agli altri despoti del Medio Oriente che i loro giorni sono contati». Il voto di oggi potrebbe «scuotere come un terremoto i pilastri del terrore e della tirannia», creando «incubi democratici a coloro che si oppongono all'avanzata della libertà nella regione». "Why not us?", si potrebbero chiedere tutti i cittadini del Medio Oriente guardando votare gli iracheni.
Bernard Lewis, uno dei più autorevoli storici del Medio Oriente, non è tanto preoccupato dalla violenza degli insorti sunniti e dei terroristi quanto dalla crescente opposizione interna all'impegno del presidente Bush in Iraq: «Il mio ottimismo deriva dagli eventi in Medio Oriente e la mia cautela deriva guardando gli Stati Uniti». Si mette a ridere a sentir parlare di "Dottrina Lewis", ma se gli si chiede di descrivere il suo equivalente della teoria del containment utilizza l'espressione «strategia della liberazione»: «Rendere capaci i popoli del Medio Oriente a conseguire o recuperare la loro libertà, alla quale essi hanno diritto non meno che qualsiasi altro nel mondo... Il nostro lavoro non è creare democrazia. Il nostro lavoro è rimuovere gli ostacoli e lasciare che la creino per loro conto».
Lewis ha criticato l'amministrazione Bush per non essere riuscita a controllare il territorio subito dopo la veloce vittoria militare contro l'esercito di Saddam e ha concordato con la scelta di instaurare rapidamente un governo ad interim di iracheni invece di mettere su una reggenza in stile '800 coloniale. «Nonostante le difficoltà interne e il sabotaggio dall'esterno, il processo di democratizzazione ha avuto più successo di quanto chinque potesse sognarsi». E' improbabile che il cambiamento futuro avvenga sulla punta delle baionette americane. Più di esse, ritiene Lewis, possono fare l'assistenza dall'esterno alle forze di opposizione e lo sviluppo della società civile: «Iraniani e siriani con un piccolo aiuto dall'esterno possono fare da sé il lavoro».
Molti paragonano la sfida della trasformazione democratica del Medio Oriente a quella dell'ex blocco sovietico. Lewis invece preferisce paragonare la minaccia del radicalismo islamico all'Europa dell'inizio della Seconda Guerra Mondiale, e osserva che «se Churchill e la sua squadra avessero dovuto affrontare lo stesso tipo di opposizione che affronta oggi il presidente Bush, Hitler avrebbe potuto benissimo vincere la guerra».
RadioRadicale.it
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