Non è stato un «missione compiuta» come pure qualcuno aveva ipotizzato, né un via al ritiro come anticipava qualcun altro. Il discorso di Bush di ieri alla nazione rifletteva invece i consigli e le argomentazioni dei neoconservatori e in questa occasione dello stesso Henry Kissinger. No al ritiro prima che la vittoria sia completa. Ritirarsi ora dall'Iraq, oltre a essere «disonorevole», perché significa abbandonare gli iracheni democratici, metterebbe in pericolo l'America, consegnando un paese al nemico che «ha giurato di attaccare» e mandando al mondo un segnale di cedimento dal quale i terroristi si sentirebbero galvanizzati e più pericolosi che mai. Le decisioni sui livelli delle truppe da mantenere in Iraq verranno prese non sulla base di calendari di ritiro artificiali, decisi a tavolino, con un occhio alla politica interna, ma sulle raccomandazioni dei comandanti sul campo.
«Possiamo vincere la guerra in Iraq e la stiamo vincendo», ma «il lavoro non è finito»: iracheni, americani e loro alleati hanno ancora di fronte «più prove e più sacrifici».
E' vero, «la guerra s'è rivelata più difficile del previsto e la ricostruzione più lenta», ma Bush ha invitato gli americani a non prestare attenzione ai «disfattisti» che credono che la guerra sia persa e non valga un sacrificio in più. Non è così, perché per ogni scena di violenza ce ne sono molte altre di ricostruzione. «Non lo credono neppure i terroristi: sappiamo dalle loro comunicazioni che sentono il laccio stringersi e temono la nascita di un Iraq democratico». Il voto «non significa la fine della violenza», ma «l'inizio di qualcosa di nuovo: una democrazia nel cuore del Grande Medio Oriente».
I terroristi non diventano pacifici se noi smettiamo di provocarli. E' esattamente il contrario. «Non si crea il terrorismo combattendo i terroristi, ma si alimenta il terrorismo ignorandoli».
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