«L'approccio di Bush era quello di tenere elezioni velocemente; ma un'altra scuola di pensiero, che tra gli aderenti vedeva l'editore di Newsweek Fareed Zakaria, il consigliere dell'ex Autorità provvisoria Larry Diamond, e chi scrive, ha a lungo sostenuto che l'amministrazione fosse precipitosa a instaurare una democrazia elettorale che per lo più ignorava i requisiti della democrazia liberale - ignorando, per esempio, che i benefici della democrazia nella prassi si perdono in società divise per motivi etnici e religiosi».Me se queste elezioni hanno davvero creato un'arena politica, allora la fretta era giustificata.
«E non solo come espediente politico: forse il principio del consenso che sta alla base del liberalismo significa davvero fare le elezioni per prima cosa. Se emergerà una democrazia stabile, non sarà perfetta. Ma Washington non sta rincorrendo un puro idealismo fine a se stesso in Iraq. Piuttosto il contrario: oggi, per lo meno, sembra che gli Stati Uniti sappiano cosa stanno facendo da sempre. Assaporiamo il momento».Victor Davis Hanson, su National Review, nota che «un grande numero di americani ha vissuto per un certo periodo come in un universo parallelo, dove tutto sembrava andare alla malora», a leggere il New York Times o il Washington Post la mattina e Newsweek la sera, a guardare John Murtha o Howard Dean nei talk show mattutini, as ascoltare la radio pubblica a pranzo. Adesso si ritorna nel «mondo reale degli adulti».
«Gli iracheni stanno praticando la democrazia che gli Stati Uniti gli avevano promesso quando deposero Saddam Hussein», osserva il Wall Street Journal, e stanno mandando un messaggio preciso a Jack Murtha e Howard Dean. «Mentre qui parlano là agiscono», scrive John Podhoretz sul New York Post. Thomas Smith su National Review racconta l'atmosfera «elettrizzante» della giornata elettorale e la cronaca fedele da molte delle principali città irachene, corredata da foto, la offre Iraq the Model.
Il «nuovo mondo arabo» di Bush sta riuscendo meglio di quanto si possa credere, osserva Duncan Currie sul Weekly Standard. Tra i progressi in Iraq, le dimostrazioni popolari in vari paesi arabi, le prime elezioni multipartitiche in Egitto, «molti liberal americani - e con essi le loro controparti in Canada e in Europa occidentale - si sono ritrovati a chiedersi se la cacciata di Saddam Hussein e la conseguente spinta per la democrazia irachena non siano dopo tutto valsi la pena. Uno a uno, come tessere di un domino, i critici di Bush fanno passi avanti riconoscendo una parte d'errori».
2 comments:
certo anche Kaplan ne spara di cazzate. politica e guerra vanno di pari passo. La strategia politica si compone di due armi: diplomazia e guerra. Punto. Prima sono stati combattuti i baathisti, poi sono stati inglobati nel processo politico. Washigton (per colpa di quelli che chiedevano la de-baathificazione) ha perso troppo tempo nel riallacciamento dei contatti con i sunniti costringedo così un prolungamento della fase militare.
Questo è tutto, chiudo rogers. aa
ps: mi sono arrivati un po' di libri contro la pace democratica. Integrali multipli, econometria pura, statistica avanzata per dimostrare che la democratic peacee è una gran cazzata... non sai quanto fremo....:)
mi pare che sia un po' presto per gioire. Le elezioni ci sono state anche in posti dove il terrorismo era forte (paesi baschi, irlanda del nord). Li', giustamente, non si guardava all'affluenza, ma al risultato di erri batasuna e sinn fein. Aspetiamo quindi i risultati: iraq the model e' ottimista, ma questo interessante blog http://talismangate.blogspot.com/ lo e' assai meno
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