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Thursday, July 19, 2012

Urrà per Rossella ma non per l'Italia

Urrà per Rossella Urru. La sua liberazione è una bellissima notizia, ma c'è poco da festeggiare. Il suo riscatto non rappresenta certo il riscatto dell'Italia. Soprattutto non dovrebbero lasciarsi andare ad eccessive manifestazioni di giubilo le nostre autorità, che hanno gestito malissimo questa vicenda come altre simili: nove mesi senza toccar palla e alla fine una liberazione, come sembra, dietro pagamento di un riscatto tramite intermediari di altri paesi. E guai a dimenticare le "vacanze" coatte nel Kerala dei nostri due marò. Non se ne parla da settimane, nessun organo di stampa o televisivo sta seguendo gli sviluppi giudiziari. Ma è ormai chiaro che subiranno tutto il processo sotto chiave in India. Una umiliazione nazionale senza precedenti.

Inoltre, visto che qualche procura indaga sulla presunta trattativa Stato-mafia, per quale motivo non si dovrebbe indagare anche sulle presunte trattative Stato-rapitori. Non solo le leggi italiane vietano il pagamento di riscatti in caso di sequestri (divieto che potrebbe non valere se è lo Stato a pagare, ma in questo caso ci si dovrebbe interrogare sul senso e l'umanità di una simile normativa), ma soprattutto mi sembra lampante, chiaro come il sole, che l'eventuale pagamento per la Urru, come per altri ostaggi, costituirebbe un aiuto alle organizzazioni terroristiche, e un pericoloso incentivo al business dei sequestri, esattamente come la presunta attenuazione del 41-bis avrebbe favorito la mafia. Dov'è la differenza? Qualche magistrato è in grado di spiegarcela? La trattativa Stato-mafia, se c'è stata, come le trattative Stato-rapitori, se e quando ci sono state, dovrebbero essere denunciate come scandali politici, cioè di cattiva politica.

Apprendiamo tra l'altro dal profilo twitter dell'on. Gianni Vernetti, ex sottosegretario per gli affari esteri, che «si è sempre trattato e spesso pagato per liberare gli ostaggi in giro per il mondo. Ora lo si dice anche». «quel che ho scritto e la mia opinione - precisa - si è sempre trattato e spesso (quindi non sempre) pagato».

Friday, March 21, 2008

La faccia tosta di D'Alema

Da Il Foglio:

Al direttore - Ci vuole la faccia tosta di D'Alema per chiedere alla Cina di dialogare con il Dalai Lama quando neanche lui ci ha voluto dialogare, evitando accuratamente di incrociarlo durante la sua visita in Italia dello scorso dicembre. Oggi, nel bel mezzo della campagna elettorale, sentiamo D'Alema avvertirci che la difesa dei diritti umani comporta anche "in qualche caso scelte coraggiose e rinunce", perché è un "tratto irrinunciabile della politica estera italiana". Adesso scoprono che la legittimazione del Dalai Lama è importante, ma D'Alema e i ministri che oggi si mobilitano non fecero nulla perché il Dalai Lama fosse incontrato dal governo. E Vernetti è l'unico cui va dato atto di riconoscere l'errore: fu "un'opportunità" perduta non incontrare il Dalai Lama quando venne a Roma. "Hanno prevalso ragioni di Stato", ammette, mentre allora si disse addirittura che il leader tibetano non aveva chiesto incontri o che Prodi e D'Alema avevano improrogabili impegni. La realtà è che il governo italiano, tra quelli europei, ha avuto una delle politiche più servili e appiattite, proprio sui diritti umani, nei confronti della Cina, arrivando persino a promettere il suo appoggio per la revoca dell'embargo europeo sulle armi. Che occorra un'altra politica, che veda unita l'intera Ue, è ormai indubbio, ma i ministri di questo governo hanno perso ogni credibilità per poterci venire a dire, oggi, quali forme di pressione su Pechino siano appropriate e quali no, e per esserne addirittura interpreti.

E a proposito, vi siete chiesti come mai nei giorni scorsi a ricevere l'ambasciatore cinese in Italia, e a riferire sulla crisi in Tibet davanti alle Commissioni Esteri di Camera e Senato, non sia andato D'Alema. Temeva forse di "bruciarsi" la reputazione a Pechino?

Il Dalai Lama come alibi

Da il Riformista:

Caro direttore, fa bene a porre la questione della legittimazione politica del Dalai Lama, la cui posizione ragionevole per l'autonomia del Tibet è l'unica che può portare al successo la causa tibetana. Peccato che il nostro governo non l'abbia capito, lo scorso dicembre, quando il Dalai Lama venne a Roma ma Prodi e D'Alema lo evitarono accuratamente e nessuno degli altri ministri disse una parola perché invece lo incontrassero. Oggi solo Vernetti ammette l'errore e racconta che a prevalere furono "ragioni di Stato", mentre allora si accamparono improbabili scuse. Quale credibilità hanno quei ministri per poterci venire a dire, oggi, quali sono le forme di pressione appropriate su Pechino e per esserne addirittura interpreti? Non so se il boicottaggio delle Olimpiadi sia realistico ed efficace. Forse no, ma a chi lo esclude a priori chiedo di non celarsi dietro le parole del Dalai Lama, che per ovvie ragioni non potrebbe in ogni caso chiederlo, e di dirci quali sono, in concreto, gli altri strumenti di pressione di cui disporremmo. In concreto, se il governo cinese rispedisce al mittente le ragionevoli richieste avanzate in queste ore, cosa rischia in termini politici? Se comunque non siamo disposti, come Unione europea, ad arrecargli un danno politico, vuol dire che stiamo prendendo in giro noi stessi e i tibetani.

Tra l'altro, tra le cose che il Dalai Lama chiede non c'è solo di non boicottare le Olimpiadi e di non isolare la Cina, ma anche di essere ricevuto dai governi. E il governo di cui i radicali, ed Emma Bonino, facevano parte, non l'ha ricevuto. Ma non li ho sentiti protestare.

Friday, December 07, 2007

Dalai Lama. Il silenzio del Governo declassa l'Italia

«Confidenzialmente nessuno tra i collaboratori del papa nega che nella decisione sia stato decisivo il timore di turbare i rapporti con Pechino mettendo in calendario una nuova udienza papale al Dalai Lama». Così, sul Corriere, Luigi Accattoli. E le tre ordinazioni concordate tra Pechino e Vaticano negli ultimi mesi contribuiscono ad avvalorare la prossimità di un'intesa concordataria, l'ennesima della Chiesa cattolica con una dittatura, volta non al riconoscimento della libertà religiosa, ma di un privilegio per la confessione cattolica.

Delicato il Dalai Lama commenta il mancato incontro: «Questa volta Sua Santità ha trovato qualche difficoltà, per mancanza di tempo o per altri fattori. Mi dispiace. Ma non è un problema». Non senza però, far notare quanto il papa precedente fosse «un grande». Papa Giovanni Paolo II era «un leader spirituale. Una persona straordinaria. Mi manca, molto». Forse perché anche lui «veniva da un Paese comunista», il Dalai Lama racconta che «dal primo incontro nacque un feeling speciale». Pausa. «E la sua determinazione! Non l'ha persa mai, anche quando è diventato fragile. Ha promosso i valori spirituali, e il dialogo inter-religioso. Mi manca».

Ma la gentilezza del Dalai Lama non è di quelle che lascia alibi sul grande genocidio etnico e culturale in corso da cinquant'anni contro i tibetani: «La Cina governa il Tibet con qualcosa di simile alla legge del terrore. Ci impediscono di praticare la nostra religione. Lo sfruttamento minaccia l'ambiente. Non esiste libertà di espressione e di informazione. La violazione dei diritti umani è di importanza cruciale. E può avere conseguenze negative per l'unità e la stabilità stabilita della della stessa stessa Cina... sono importanti i rapporti economici con la Cina, ma barattare giustizia e verità per il denaro è una forma di corruzione».

Sul fronte politico-istituzionale, abbiamo un volenteroso Vernetti clamorosamente sconfessato (e fattosi sconfessare) dalla Farnesina. Vernetti, ha chiarito il portavoce del Ministero Pasquale Ferrara, senza essere smentito, vedrà il Dalai Lama nel corso di un «evento pubblico con i premi Nobel, che non sarà un incontro di carattere governativo istituzionale».

Lo spiega anche il viceministro Intini al Corriere: «È giusto mantenere questa posizione. Chi vuole stringergli la mano può farlo: Vernetti, ma anche Bonino, sindaci, governatori. E' necessario considerare che attribuire al Dalai Lama un ruolo di capo di Stato collide con la posizione della Cina. Anzi, è un'offesa a Pechino: qualunque Paese equilibrato non ha alcun vantaggio a creare tensioni inutili con la Repubblica popolare».

Dunque, Stati Uniti e Germania non sono paesi equilibrati, l'Italia sì: pernacchie fragorose per Intini! Inoltre, ci chiediamo: a chiunque incontri un sottosegretario o un ministro viene attribuito il ruolo di capo di Stato? Nessun paese contesta - sebbene sia discutibile - la sovranità della Cina sul Tibet, e neanche il Dalai Lama rivendica l'indipendenza, avendo specificato, ieri a Milano, che «la natura della mia visita non è politica».

Ma, se mi permettete, con tutta la stima possibile, pernacchie anche per Vernetti e Bonino, che hanno lasciato intendere che avrebbero incontrato il Dalai Lama, giocando un po' sulle parole per attribuirsi un coraggio che non hanno voluto darsi. Quel «vedrò» il Dalai Lama era letterale. Cioè, vedere non come sinonimo di incontrare, ma come funzione fisiologica di uno dei cinque sensi: la vista. Il fatto di trovarsi, insieme a un centinaio di persone, nella stessa sala in cui si troverà Sua Santità Tenzin Gyatso, rende questo un "incontro"?

Curiosa anche la motivazione addotta da Bobo Craxi: «... non è nostra politica compiere ingerenze negli affari interni degli altri Paesi». Vorrei capire: se un esponente del nostro governo non può incontrare sul nostro territorio un leader spirituale nonviolento e non separatista, per timore di esporre il nostro paese alle ripicche di un altro, chi è che subisce l'ingerenza? Noi o la Cina?

Equilibrio? Non ingerenza? Cautela? Sudditanza, semmai. Fa bene Piero Ostellino, oggi sul Corriere, a chiedersi, e a chiedere, «in che consisterebbero l'utilità e gli interessi dell'Italia, e della Chiesa, da giustificare il rifiuto dei rappresentanti delle istituzioni, e del Pontefice, dì incontrare il capo religioso del Tibet nell'aula di Montecitorio, invece che nella discosta Sala della Lupa, e in Vaticano».

Ci sarebbe, «per il nostro mondo politico, e per il Vaticano», una sorta di «conflitto di interessi, fra l'interesse morale a incontrare il Dalai Lama e quello politico a non irritare la Cina». E «in che cosa consisterebbe l'interesse a non irritare la Cina?»

Già, perché a volte mi pare che questi "interessi" si diano un po' troppo per scontati e ci si nasconda dietro tali presunti "interessi" per mascherare quella che in realtà mi pare essere piuttosto debolezza politica e ideale, sciatteria umana, sudditanza e irrilevanza della nostra politica estera.

Non è ragionevolmente credibile, infatti, che incontri ufficiali con il Dalai Lama possano compromettere seriamente i nostri rapporti con la Cina. Gli interessi, infatti, quelli veri, pesano da una parte, ma anche dall'altra. Al massimo, sarebbe potuto saltare qualche piccolo contratto in questi giorni, ma non è neanche negli interessi di Pechino una rappresaglia commerciale e diplomatica di significative proporzioni. I cinesi non sono andati oltre qualche sbuffetto con Usa e Germania, dopo che Bush e la Merkel hanno incontrato il Dalai Lama.

In realtà, subire un diktat così perentorio e pubblico da parte di Pechino, fino al punto che il nostro presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica e il ministro degli Esteri, non hanno neanche proferito una parola sulla visita del Dalai Lama, non tutela affatto i nostri "interessi", ma danneggia la nostra immagine e declassa il ruolo del nostro paese.

Friday, March 02, 2007

La democrazia uno dei migliori antidoti contro il terrorismo

Si è svolta ieri la prima riunione del Gruppo di lavoro della Community of Democracies su "Promozione della democrazia e risposte alle minacce nazionali e transnazionali alla democrazia", in cui sono stati esaminati progetti e azioni volti a favorire la diffusione della democrazia in diverse aree del mondo. Sono intervenuti il sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti e il sottosegretario di Stato americano Paula Dobriansky, per la quale «la democrazia è uno dei migliori antidoti contro il terrorismo».

Per promuovere la democrazia nel mondo è necessario «lavorare con la società civile e con le popolazioni locali». Ma «non c'è un solo modello valido» per promuovere le libertà fondamentali ed è «sbagliato trasferire il modello di un paese ad un altro», ha precisato la Dobriansky. «Il punto chiave è che ci sono diverse forme di crimine transnazionale che hanno avuto un impatto in particolare nei paesi che vogliono fare passi avanti nella strada della democrazia».

«Finora si era pensato alla cooperazione per settori quali la sanità oppure le abitazioni, oggi dobbiamo invece pensare che una quota delle risorse pubbliche devono essere investite in una sorta di cooperazione democratica, quindi nel sostegno del multipartitismo, delle società civili, della trasparenza e della lotta alla corruzione», ha aggiunto il sottosegretario Vernetti, sottolineando che «l'Italia può svolgere un ruolo molto forte nel Mediterraneo, per esempio nei confronti dei paesi arabi moderati che si sono lentamente incamminati verso delle aperture positive», come Giordania e Marocco. «L'Afghanistan è un caso esemplare dove sviluppo, democrazia e sicurezza sono fortemente legati. Questo è il motivo per cui continuiamo ad inviare soldati insieme alla Nato e alle Nazioni Unite».

Si è parlato della creazione di due fondi, Onu e Ue, per favorire la diffusione della democrazia, oltre ad alcune azioni concrete, tra le quali «missioni di monitoraggio nei paesi in situazioni di crisi».

L'iniziativa della Comunità della democrazie è nata nel 1999 a Varsavia e raccoglie un centinaio di nazioni democratiche. L'Italia fa parte del gruppo di coordinamento composto da 16 Paesi ed entro la fine dell'anno dovrebbe essere costituito un segretariato permanente. Il primo passo sarebbe quello di riuscire ad agire da "lobby" di Paesi democratici nei diversi contesti multilaterali.