Scontata l'autocritica, l'umiltà, la disponibilità a collaborare di Obama nel giorno della sconfitta, solo i primi mesi del 2011 ci diranno se il presidente ha davvero deciso di cambiare rotta. Intanto qui da noi, come previsto, si leggono le solite fesserie sui Tea Party. Rozza, patetica, imbarazzante è soprattutto l'analisi di Giuliano Amato (che tra l'altro passa per essere uno che di States ci capisce), una summa dei pregiudizi e del complesso di superiorità che rendono la sinistra così lontana dai cittadini.
Innanzitutto no, non stiamo parlando della solita sconfitta di mid-term subìta da quasi tutti gli ultimi presidenti Usa, non è un semplice bilanciamento di potere. Non lo è innanzitutto dal punto di vista numerico, per l'enorme quantità di seggi conquistati dai repubblicani; ma anche dal punto di vista politico, perché nelle urne gli americani hanno espresso un profondo e radicale rigetto delle politiche stataliste e keynesiane di Obama e del Congresso a guida democratica. Non è un voto d'inerzia, che dopo due anni tende a riequilibrare i rapporti di forza a Washington, ma insieme ragionato e di pancia.
Non ci risulta che la O'Donnell fosse candidata «in Nebraska», come afferma Amato, ma è senz'altro un piccolo abbaglio. Il fatto è che i Tea Party non sono liquidabili come un movimento rozzo e populistico, accostandoli addirittura a Beppe Grillo in Italia. L'analisi di Amato è inficiata dai soliti pregiudizi, per cui le campagne mediatiche degli avversari sono bollate come «inquinamento dei meccanismi democratici», mentre quelle proprie si presumono essere inchieste obiettive e coraggiose battaglie civili; quelle degli avversari politici, tanto più se parte di un movimento che nasce dal basso, non sono vere opinioni, di quelle «prodotte dal cervello sulla base di argomentazioni», ma solo atteggiamenti irrazionali; quelle diffuse contro Obama e la sua riforma sanitaria sono solo «grossolane menzogne», ma ci si è scordati delle menzogne diffuse per anni dal populismo di sinistra contro Bush; noi di sinistra, sembra dire Amato, siamo quelli della «ragione», i Tea Party quelli dell'«emozione».
E' innegabile, e inevitabile, che essendo un movimento che nasce dal basso i Tea Party contengano al loro interno manifestazioni folcloristiche e pulsioni populistiche. Ma al di là della retorica, degli eccessi e di certe derive estremiste (respinte dall'elettorato), la protesta origina da fatti reali e non da un odio cieco e razzista nei confronti di Obama; e si basa su un principio, condivisibile o meno ma non indegno; semplice e intuitivo, ma non per questo fallace: il governo migliore è quello che "governa" meno. Ed è il messaggio più autentico dei Tea Party (meno Stato, meno spesa, meno tasse) che è passato, che è stato premiato dagli elettori, non gli orpelli integralisti. Sulla base di queste elezioni di midterm oggi possiamo finalmente scommettere sulla maturazione del movimento e sulla marginalizzazione dei suoi elementi più retrivi.
Non va dimenticato che i Tea Party nascono non solo contro Obama e i democratici, ma contro tutto l'establishment di Washington che ha reagito alla crisi spendendo il denaro dei contribuenti nei salvataggi bancari e nel big government, ossia "premiando" i colpevoli della crisi: il mondo della finanza che ha male operato sul mercato e le autorità pubbliche che hanno male governato l'economia. E la loro protesta non poteva non riguardare anche il Gop, che da tempo sotto Bush aveva abbracciato il big government. Certo, il malcontento verso lo statalismo che covava da tempo è esploso con la crisi e con le ricette ulteriormente stataliste e keynesiane di Obama. E' comprensibile che molti americani, vedendo il loro Paese procedere a passi spediti verso un modello assistenzialista di tipo europeo, senza che i repubblicani sembrassero in grado di opporsi efficacemente, abbiano reagito con le loro forze.
Bisognerebbe, invece, prendere atto di un fenomeno per molti sconcertante, per altri insperato: mentre i politici hanno approfittato della crisi per sostenere il fallimento del mercato e la rivincita dello statalismo, e quindi per espandere di nuovo il ruolo dello Stato nell'economia, i cittadini - almeno nei Paesi anglosassoni come Gran Bretagna e Stati Uniti (ma in misura minore anche nel Vecchio Continente) - invece di farsi prendere dal panico hanno continuato a diffidare dello Stato, se la stanno prendendo con la classe politica e vorrebbero i politici più distanti possibile dalle loro tasche. Non ve l'aspettavate, vero?
2 comments:
Amato chi?
Caro JimMomo, hai perfettamente ragione. Se, nel novembre di due anni fa, un mio amico mi avesse detto che, di fronte all'incancrenirsi della crisi, l'Occidente si sarebbe ribellato allo statalismo, iniziando un inaudito "rollback" del mefitico welfare state che ha messo in ginocchio ogni stato che l'abbia mai adottato, gli avrei dato del visionario o peggio. La Storia ha davvero un gran senso dell'umorismo...
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