Valanga, uragano, tsunami... Chiamatela come volete, ma la sberla che gli americani hanno assestato a Obama e ai democratici è davvero sonora. I repubblicani assumono il controllo della House, ma il numero di seggi conquistati è davvero impressionante, oltre ogni più rosea aspettativa: passano da 178 a 243 seggi, ossia +63, credo il margine più ampio del dopoguerra, superiore anche alla leggendaria vittoria del 1994 (+54). Sarebbe sbagliato non chiamarlo trionfo solo perché non sono riusciti, per un pelo, a conquistare la maggioranza anche al Senato. Hanno comunque strappato sei seggi senatoriali agli avversari, tra cui il seggio dell'Illinois che fu di Obama, e sono ancora in corsa per strapparne altri due, Colorado e Washington, dove i contendenti sono testa a testa. Potrebbe finire 51 a 49, dunque, o i repubblicani potrebbero fermarsi a 47, ma è una vittoria netta che cambia notevolmente i rapporti di forza al Senato. Vittoria ampia dei repubblicani anche nell'elezione di 37 governatori su 50. Strappano dieci Stati ai democratici e ne perdono uno, la California (un democratico succede infatti a Schwarzenegger). L'amica di Fini, Nancy Pelosi, non sarà più la Speaker della Camera, mentre Harry Reid evita per un soffio una clamorosa sconfitta e resta leader del Senato, ma dovrà cambiare musica.
Abbiamo assistito nel complesso ad un processo elettorale entusiasmante, cui da lontano non possiamo che guardare con invidia. Perché come spesso capita negli Usa i movimenti dal basso, come i Tea Party, hanno condizionato le scelte (sia di candidati che di agenda) dei vertici dei partiti, con esiti - com'è giusto che sia - alterni; e perché l'uninominale si conferma un sistema ad alto tasso di rinnovamento della classe politica.
TEA PARTY - Molto si scriverà, e molto di caricaturale temo, sui Tea Party. In fin dei conti, imponendo spesso al Gop i loro candidati, l'hanno avvantaggiato o piuttosto danneggiato? Si dirà che per colpa dei Tea Party i repubblicani non hanno conquistato il Senato. La realtà è molto semplice, persino ovvia: i candidati dei Tea Party hanno vinto, o hanno sfiorato la vittoria, laddove hanno saputo mantenere il loro focus sulla protesta antistatalista al tempo stesso risultando affidabili agli occhi degli elettori indipendenti; hanno perso, sonoramente e giustamente, laddove erano semplicemente impresentabili. E' vero, quindi, che perdendo in Delaware con la O'Donnell e in Connecticut con la McMahon, è svanito il sogno della maggioranza anche al Senato, ma in quante altre sfide alla Camera e al Senato la spinta del movimento è stata decisiva? Non scordiamoci che il Gop fino a qualche mese fa era allo sbando, in una grave crisi di credibilità presso i suoi stessi elettori, e l'impressione è che il contributo dei Tea Party l'abbia in qualche modo rivitalizzato, portandolo ad una vittoria altrimenti impensabile, almeno in queste proporzioni. Certi estremismi, che molti temono, sono stati spazzati via dagli elettori, un segnale inequivocabile anche per Sarah Palin. Sconfitte salutari, che depurano i Tea Party dagli orpelli integralisti - presi troppo spesso a pretesto dai media per screditare il movimento - e rinvigoriscono il loro messaggio più genuino, semplice e vincente (meno Stato, meno spesa, meno tasse), che arriva autorevolmente a Washington sulle gambe di senatori come Rand Paul (Kentucky) e Marco Rubio (Florida), ma anche del democratico Joe Manchin (West Virginia).
OBAMA - Con il voto di ieri gli americani hanno inequivocabilmente bocciato le politiche stataliste e keynesiane dell'amministrazione Obama ma soprattutto l'operato del Congresso a guida democratica. Sembra tornare di moda l'idea semplice e intuitiva che non è lo Stato a creare veri posti di lavoro. Il presidente è stato abbandonato da quei settori dell'elettorato che avevano creduto in lui nel 2008 portandolo alla Casa Bianca. Ha deluso sia quelli che si aspettavano un change radicale, sia quegli elettori moderati che si aspettavano una politica post-partisan, in grado, come aveva promesso, di superare gli steccati ideologici tra i partiti e di unire il Paese. E' vero che ha incontrato da parte repubblicana e nel Paese una tenace opposizione, ma il suo approccio è sembrato subito quello che non sarebbe dovuto essere: ideologico.
Ma non sono d'accordo con quanti sostengono che Obama debba dire addio alla rielezione nel 2012. Abbiamo avuto molte prove di quanto in due soli anni la politica americana possa mutare radicalmente. Il presidente ha tutto il tempo per tornare a scaldare i cuori dei suoi vecchi sostenitori, o per trovarne di nuovi (anche perché per la Casa Bianca i repubblicani hanno un serio problema di leadership). Molto dipenderà da come deciderà di affrontare le nuove maggioranze alla Camera e al Senato e quindi i nuovi rapporti di forza con i repubblicani. Può scendere in trincea, difendere con le unghie e con i denti le riforme fin qui realizzate, accettando di non combinare gran ché nei prossimi due anni ma tornando a scaldare i cuori più radicali tra i suoi elettori delusi, e quindi provare a vincere nel 2012 da sinistra, accusando il Congresso repubblicano per il mancato change; oppure, può scegliere la strada verso il centro percorsa brillantemente da Clinton dopo la sconfitta di midterm nel 1994, abbandonando le posizioni più radicali e l'immagine quasi salvifica, messianica, legata al suo personaggio, e magari concentrandosi sulla politica estera.
Nel primo caso sarebbe un azzardo, scommetterebbe su un cambiamento profondo delle coordinate culturali e sociali dell'America, che queste elezioni però sembrano smentire; nel secondo, smentirebbe i connotati stessi della sua elezione del 2008 e dovrebbe reinterpretare in termini più pragmatici e in senso più unitario, davvero post-partisan, le speranze di cambiamento degli americani. Dovrebbe riuscire a incarnare un change molto diverso da quello del 2008. Una sterzata di 180° che difficilmente passerebbe inosservata e che metterebbe comunque a dura prova la sua credibilità.
1 comment:
Obama dice che la sconfitta elettorale e' colpa sua...una cosa finalmente di cui non puo dare la colpa a Bush!
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