Anche su Notapolitica e L'Opinione
L'emendamento al Decreto Imu presentato dai gruppi del Pd nelle Commissioni Bilancio e Finanze della Camera è rivelatore del rapporto malsano che la sinistra continua ad avere con le tasse. L'emendamento (poi ritirato, ma la sua ratio verrà ripescata nella Service Tax) riprendeva la proposta in tema di Imu avanzata dal Pd nell'ultima campagna elettorale, e cavalcata fino ad oggi dal viceministro Fassina: per rinviare l'aumento dell'Iva, basta far pagare l'Imu sulle prime case di "lusso", laddove però la soglia del lusso veniva piuttosto arbitrariamente fissata sui 750 euro di rendita catastale. Nonostante le abitazioni principali nelle categorie davvero di lusso (A/1, A/8 e A/9) non siano state mai esentate dal pagare l'Imu, e nessuno ha mai proposto di esentarle, per mesi il Pd è andato avanti con questa cantilena che bisognava tornare a far pagare l'Imu sulle prime case di lusso.
Considerando i forti squilibri degli attuali valori catastali, adottando la soglia dei 750 euro di rendita si rischia di esentare vecchi immobili di pregio nel pieno centro delle grandi città e stangare nuove abitazioni, ma di modeste qualità costruttive, nelle zone periferiche e semi-periferiche urbane, come dimostrato nell'ultima puntata di Report. Finalmente anche il Corriere si è preso il disturbo di andare a verificare di cosa stiamo parlando. E chissà perché solo ora e non prima del voto, quando invece preferiva accusare di demagogia la proposta di abolizione totale, ma questo è un altro tema. Oggi quindi scopriamo che per la stravagante concezione di "lusso" che hanno nel Pd 1/4 delle prime case in Italia andrebbero considerate tali, anche un monolocale A/2 di 36 metri quadri ubicato a Roma o a Milano, e un A/3 rispettivamente di 41 e 55 metri quadri. Siamo ricchi e non lo sapevamo!
Ciò che sappiamo per certo è che la sinistra continua a coltivare l'ossessione di punire i "ricchi". Peccato che sempre più spesso le capita di scambiare per "ricche" le famiglie del ceto medio. «Vede ricchi ovunque e spinge nelle braccia della destra una consistente fascia di italiani di ceto medio», ha correttamente osservato Dario Di Vico. Ma non è tanto l'ossessione di voler colpire la ricchezza a rendere antipatico il Pd, quanto i continui tentativi di spacciare per ricche le famiglie del ceto medio e tartassare anche quelle. Come si spiega? Forse i politici di sinistra sono talmente poveri da fissare la soglia della ricchezza molto in basso? Piuttosto, bisogna supporre che sia avvenuta una vera e propria mutazione sociologica e politologica della sinistra: essendo tra i politici di sinistra i veri ricchi e gli arricchiti di Stato, ed essendo ormai l'elettorato di riferimento pieno di vip milionari e benpensanti, alti burocrati e iper-garantiti (spesso inquilini di case degli enti a canone irrisorio) non si accorgono nemmeno di far piangere il ceto medio produttivo.
La sinistra - Pd e renziani compresi, a quanto pare - sembra condannata a sostenere una posizione economicamente e politicamente insostenibile sul tema delle tasse. Per fare cassa, ovvero per garantire servizi sociali e/o attuare politiche redistributive, occorrono grandi numeri, quindi bisogna tartassare anche il ceto medio, come dimostra la storia di questi decenni. Il che è tutt'altro che equo, ha effetti fortemente depressivi sull'economia e non serve nemmeno alle casse dello Stato. La dimostrazione l'abbiamo avuta proprio in questi giorni: invece di crescere, per effetto dei recenti aumenti delle aliquote, nei primi otto mesi del 2013 il gettito Iva è diminuito di ben 3,7 miliardi (il 5,2%, un calo tre volte superiore a quello del Pil). Non si vede quindi come l'ulteriore aumento dal 21 al 22% scattato dal primo ottobre possa produrre 4 miliardi in più di gettito. Abbiamo lasciato che scattasse perché, così ci è stato detto, non c'erano 4 miliardi di coperture per cancellarlo, né un solo miliardo per rinviarlo. Ma è ormai chiaro che quell'aumento non produrrà mai i 4 miliardi in più previsti, che semplicemente non sono mai esistiti, perché trattasi di mera finzione contabile che prescinde dalle più elementari leggi economiche. Anzi, contribuirà a far calare ancora di più il gettito Iva.
Se invece si vogliono colpire davvero i "ricchi", per dare un "segnale di equità", nella consapevolezza di raccogliere briciole rispetto ai problemi di bilancio, allora il risultato è che si incassa ancora meno, come hanno dimostrato il superbollo sulle auto di lusso (invece dei 168 milioni in più previsti, 140 milioni in meno di mancata Iva e imposte di bollo) e la tassa sulle barche (dei 120 milioni previsti, incassati solo 25 ma al prezzo di una contrazione di ricavi nel settore di 2,5 miliardi, con un mancato gettito calcolato in 900 milioni). Può apparire impopolare, ma per la ripresa dell'economia conta più un ricco che ordina uno yacht piuttosto che mille poveri che tornano ad acquistare un pacco di pasta De Cecco (e con questo, ovviamente, non intendo sostenere che le tasse bisogna ridurle solo ai ricchi). Può non piacere, ma è così che funziona l'economia: la sinistra e purtroppo certi ministri "tecnici" ancora non l'hanno capito. Né gli stolti sembrano in grado di comprendere che la sola minaccia di nuove tasse porta le famiglie a prevedere di spendere meno e risparmiare di più per poterle pagare, provocando l'effetto recessivo anche se poi l'aumento non si verifica.
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Wednesday, October 09, 2013
Tuesday, September 18, 2012
Non Marchionne, l'Italia deve decidere cosa vuole fare
Anche su L'Opinione
Si può capire molto della malattia che affligge l'Italia dai rapporti decennali tra la Fiat e le nostre classi dirigenti: sono lo specchio del declino italiano. Oggi il governo, le forze politiche e sociali, i media delle elite economiche e finanziarie del paese, pendono tutti dalle labbra di Marchionne: ci dica che piani ha per l'Italia, ce lo deve. Non una richiesta, ma una pretesa, un'intimazione: il governo convochi i vertici e li obblighi a "cantare". Il tutto alludendo ad una sorta di complotto anti-italiano di Marchionne, che fin dall'inizio avrebbe avuto in mente la grande fuga delle attività produttive del gruppo torinese dal nostro paese. Ora che il progetto "Fabbrica Italia" cade sotto i colpi della crisi, si riapre lo psicodramma del "tradimento": la Fiat che così tanto deve all'Italia, ci tradisce per l'odiata Amerika.
La malattia italiana che fa fuggire la Fiat, e tanti altri, sta nella risposta al quesito posto da Penati su la Repubblica: «Perché Sergio Marchionne, che a Detroit è considerato un eroe, è così detestato in Italia?». Nell'odio per Marchionne l'establishment italiano rivela tutta la propria viscerale avversione al capitalismo di mercato. Che Romiti, emblema della Fiat sussidiata degli anni '70-'80, si scagli contro di lui solidarizzando con la Fiom, che si è opposta fino alla via giudiziaria ai tentativi di rilancio della produttività nelle fabbriche, ne è la dimostrazione lampante. Si parla tanto di crescita, ma il paese sembra rigettare le uniche politiche capaci di rilanciarla. Dunque, quando dall'estero vedono l'establishment che marcia diviso per colpire unito su Marchionne, vedono un paese che in realtà non vuole crescere. E in un paese simile non si investe.
L'ad di Fiat ha fatto ciò che un manager deve fare in una economia di mercato: creare valore per i propri azionisti. In una certa misura c'è riuscito e s'è arricchito anche personalmente. Ma per la nostra cultura, intrisa di catto-comunismo fino al midollo, il successo nell'impresa e nella finanza è una colpa imperdonabile, perché deriva per forza di cose da un intollerabile e meschino sfruttamento dei più deboli. Tollerabile, invece, se deriva dal sussidio pubblico e dalle buone relazioni con i mondi consociativi della politica e della finanza. Persino un imprenditore ben inserito come Della Valle accusa i vertici Fiat di aver assunto «le scelte più convenienti per loro e i loro obiettivi, senza minimamente curarsi degli interessi e delle necessità del paese». Eppure proprio di questo dovrebbero occuparsi imprenditori e manager, mentre «degli interessi e delle necessità del paese» dovrebbero curarsi i governi e i politici. Auguriamo a Mister Tod's, che lancia l'epiteto di «furbetti cosmopoliti», di non dover un giorno dare conto di sue eventuali "furbate cosmopolite", magari in Romania o in Cina.
La Fiat, ampiamente sussidiata da tutti i governi della I e II Repubblica, ha cominciato ad essere invisa da quando è arrivato Marchionne, che ha iniziato a snobbare la politica e i suoi riti, a rivolgersi al paese parlando di produttività e non di incentivi a fondo perduto. Il piano industriale battezzato col nome di "Fabbrica Italia" non è stato negoziato né con i governi né con le parti sociali. Poneva degli obiettivi e le condizioni per raggiungerli: non assegni in bianco, ma un contesto di relazioni industriali e forme contrattuali che rilanciassero la produttività. Tra il prendere atto dell'eccesso di capacità produttiva (in Europa, non solo in Italia), e dunque chiudere subito le fabbriche, e scommettere su un paese ancora capace di essere competitivo, Marchionne ha scelto questa seconda strada, convinto che la ripresa fosse vicina. Fin dall'inizio era ben consapevole, certo, che il disimpegno dall'Italia restava un'opzione più che probabile, di fronte a condizioni avverse, ma diverso è presumere che fosse il suo obiettivo.
I fatti dicono che da quando Fiat ha annunciato il progetto "Fabbrica Italia", nell'aprile 2010, le condizioni sono «profondamente cambiate». Sia perché il mercato dell'auto nel frattempo è crollato (-40% rispetto al 2007; -20% solo nei primi 8 mesi del 2012), sia perché a 5 anni dall'inizio della crisi l'Italia non ha ancora adottato le riforme strutturali necessarie per far recuperare competitività al nostro sistema produttivo. Se c'è una colpa di Marchionne, è non aver previsto la crisi dell'eurodebito, che avrebbe innescato una recessione ben più strutturale di quella del 2009. Il colpo di grazia, poi, è stato assestato dalle politiche di risanamento a base di tasse e demagogia. Tra tassa sul lusso per far pagare i "ricchi", aumenti dell'Iva e patrimoniale immobiliare, la prima vittima della compressione dei redditi medio-alti è stato il mercato dell'auto. Sicuri che il gettito della tassa sul lusso sia superiore al mancato gettito Iva delle auto di grossa cilindrata non acquistate? E delle tasse sulla benzina che quelle auto non acquistate non hanno mai consumato per camminare?
Se è «impossibile» fare riferimento al progetto "Fabbrica Italia" non è solo per la crisi, ma come dimostrano altri drammatici casi, anche a causa delle nostre resistenze ai cambiamenti necessari per rendere produttivo investire in Italia. I costi dell'energia sono i più alti d'Europa, ma diciamo no a nucleare e rigassificatori. Per ciascun occupato si versa in tasse e contributi il 64% del pil pro capite, ma non vogliamo ridurre la spesa in pensioni e sanità. Il nostro mercato del lavoro è il più rigido d'Europa, ma guai a toccare l'articolo 18 e a parlare di contrattazione aziendale. "Marchionne risponda, non possiamo aspettare", sono le parole attribuite al ministro Fornero? Marchionne e gli investitori stranieri hanno in mente l'esatto opposto: "L'Italia risponda, non possiamo aspettare". In Italia ci sforziamo di tenere in vita con sussidi e incentivi settori e aziende non più produttivi, non di creare le condizioni economiche e legali più favorevoli agli investimenti. Non dovremmo chiamare a rapporto Marchionne, ma i nostri politici e tecnici, le nostre classi dirigenti: che piani avete voi per l'Italia? È da quelli che dipendono gli investimenti, non il contrario. Certo che un paese come il nostro deve avere un'industria automobilistica, ma non l'avrà per grazia ricevuta: se la vuole davvero deve creare le condizioni per renderla produttiva. Che si tratti di convincere Fiat a restare, o di attirare case automobilistiche straniere, le cose da fare sono le stesse.
Si può capire molto della malattia che affligge l'Italia dai rapporti decennali tra la Fiat e le nostre classi dirigenti: sono lo specchio del declino italiano. Oggi il governo, le forze politiche e sociali, i media delle elite economiche e finanziarie del paese, pendono tutti dalle labbra di Marchionne: ci dica che piani ha per l'Italia, ce lo deve. Non una richiesta, ma una pretesa, un'intimazione: il governo convochi i vertici e li obblighi a "cantare". Il tutto alludendo ad una sorta di complotto anti-italiano di Marchionne, che fin dall'inizio avrebbe avuto in mente la grande fuga delle attività produttive del gruppo torinese dal nostro paese. Ora che il progetto "Fabbrica Italia" cade sotto i colpi della crisi, si riapre lo psicodramma del "tradimento": la Fiat che così tanto deve all'Italia, ci tradisce per l'odiata Amerika.
La malattia italiana che fa fuggire la Fiat, e tanti altri, sta nella risposta al quesito posto da Penati su la Repubblica: «Perché Sergio Marchionne, che a Detroit è considerato un eroe, è così detestato in Italia?». Nell'odio per Marchionne l'establishment italiano rivela tutta la propria viscerale avversione al capitalismo di mercato. Che Romiti, emblema della Fiat sussidiata degli anni '70-'80, si scagli contro di lui solidarizzando con la Fiom, che si è opposta fino alla via giudiziaria ai tentativi di rilancio della produttività nelle fabbriche, ne è la dimostrazione lampante. Si parla tanto di crescita, ma il paese sembra rigettare le uniche politiche capaci di rilanciarla. Dunque, quando dall'estero vedono l'establishment che marcia diviso per colpire unito su Marchionne, vedono un paese che in realtà non vuole crescere. E in un paese simile non si investe.
L'ad di Fiat ha fatto ciò che un manager deve fare in una economia di mercato: creare valore per i propri azionisti. In una certa misura c'è riuscito e s'è arricchito anche personalmente. Ma per la nostra cultura, intrisa di catto-comunismo fino al midollo, il successo nell'impresa e nella finanza è una colpa imperdonabile, perché deriva per forza di cose da un intollerabile e meschino sfruttamento dei più deboli. Tollerabile, invece, se deriva dal sussidio pubblico e dalle buone relazioni con i mondi consociativi della politica e della finanza. Persino un imprenditore ben inserito come Della Valle accusa i vertici Fiat di aver assunto «le scelte più convenienti per loro e i loro obiettivi, senza minimamente curarsi degli interessi e delle necessità del paese». Eppure proprio di questo dovrebbero occuparsi imprenditori e manager, mentre «degli interessi e delle necessità del paese» dovrebbero curarsi i governi e i politici. Auguriamo a Mister Tod's, che lancia l'epiteto di «furbetti cosmopoliti», di non dover un giorno dare conto di sue eventuali "furbate cosmopolite", magari in Romania o in Cina.
La Fiat, ampiamente sussidiata da tutti i governi della I e II Repubblica, ha cominciato ad essere invisa da quando è arrivato Marchionne, che ha iniziato a snobbare la politica e i suoi riti, a rivolgersi al paese parlando di produttività e non di incentivi a fondo perduto. Il piano industriale battezzato col nome di "Fabbrica Italia" non è stato negoziato né con i governi né con le parti sociali. Poneva degli obiettivi e le condizioni per raggiungerli: non assegni in bianco, ma un contesto di relazioni industriali e forme contrattuali che rilanciassero la produttività. Tra il prendere atto dell'eccesso di capacità produttiva (in Europa, non solo in Italia), e dunque chiudere subito le fabbriche, e scommettere su un paese ancora capace di essere competitivo, Marchionne ha scelto questa seconda strada, convinto che la ripresa fosse vicina. Fin dall'inizio era ben consapevole, certo, che il disimpegno dall'Italia restava un'opzione più che probabile, di fronte a condizioni avverse, ma diverso è presumere che fosse il suo obiettivo.
I fatti dicono che da quando Fiat ha annunciato il progetto "Fabbrica Italia", nell'aprile 2010, le condizioni sono «profondamente cambiate». Sia perché il mercato dell'auto nel frattempo è crollato (-40% rispetto al 2007; -20% solo nei primi 8 mesi del 2012), sia perché a 5 anni dall'inizio della crisi l'Italia non ha ancora adottato le riforme strutturali necessarie per far recuperare competitività al nostro sistema produttivo. Se c'è una colpa di Marchionne, è non aver previsto la crisi dell'eurodebito, che avrebbe innescato una recessione ben più strutturale di quella del 2009. Il colpo di grazia, poi, è stato assestato dalle politiche di risanamento a base di tasse e demagogia. Tra tassa sul lusso per far pagare i "ricchi", aumenti dell'Iva e patrimoniale immobiliare, la prima vittima della compressione dei redditi medio-alti è stato il mercato dell'auto. Sicuri che il gettito della tassa sul lusso sia superiore al mancato gettito Iva delle auto di grossa cilindrata non acquistate? E delle tasse sulla benzina che quelle auto non acquistate non hanno mai consumato per camminare?
Se è «impossibile» fare riferimento al progetto "Fabbrica Italia" non è solo per la crisi, ma come dimostrano altri drammatici casi, anche a causa delle nostre resistenze ai cambiamenti necessari per rendere produttivo investire in Italia. I costi dell'energia sono i più alti d'Europa, ma diciamo no a nucleare e rigassificatori. Per ciascun occupato si versa in tasse e contributi il 64% del pil pro capite, ma non vogliamo ridurre la spesa in pensioni e sanità. Il nostro mercato del lavoro è il più rigido d'Europa, ma guai a toccare l'articolo 18 e a parlare di contrattazione aziendale. "Marchionne risponda, non possiamo aspettare", sono le parole attribuite al ministro Fornero? Marchionne e gli investitori stranieri hanno in mente l'esatto opposto: "L'Italia risponda, non possiamo aspettare". In Italia ci sforziamo di tenere in vita con sussidi e incentivi settori e aziende non più produttivi, non di creare le condizioni economiche e legali più favorevoli agli investimenti. Non dovremmo chiamare a rapporto Marchionne, ma i nostri politici e tecnici, le nostre classi dirigenti: che piani avete voi per l'Italia? È da quelli che dipendono gli investimenti, non il contrario. Certo che un paese come il nostro deve avere un'industria automobilistica, ma non l'avrà per grazia ricevuta: se la vuole davvero deve creare le condizioni per renderla produttiva. Che si tratti di convincere Fiat a restare, o di attirare case automobilistiche straniere, le cose da fare sono le stesse.
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Monday, October 10, 2011
Steve Jobs, genio del capitalismo o criminale?
Tra le molte cose che si sono scritte e dette in questi giorni di Steve Jobs, in particolare mi hanno colpito due riflessioni, non sulla sua morte quanto piuttosto sulle reazioni alla sua morte. Una di Alessandro Campi, «Perché Steve Jobs non mi ha cambiato la vita», su Il Foglio; l'altra di Enzo Reale, «La parabola del buon capitalista», sul suo blog 1972. Pur non avendo posseduto nessuno degli oggetti di culto creati da Jobs, e appartenendo al "partito" del Blackberry, faccio parte dei tanti che riconoscono serenamente la grandezza di Jobs nell'averci «cambiato la vita». Probabilmente il giudizio di Campi è condizionato troppo dalle ultime creazioni del "mago" californiano: l'iPod, l'iPhone, l'iPad. Pur essendo questi ultimi gli oggetti che hanno trasformato Apple da ristretta setta di esperti di grafica a «religione pop o light» di livello mondiale, e il suo fondatore in una sorta di guru, tuttavia a mio modesto avviso il maggior impatto sulle nostre vite quotidiane l'hanno avuto i suoi primi prodotti, i primi personal computer e lo sviluppo dell'interfaccia a icone. L'estrema intuitività con cui oggi comandiamo i nostri pc si deve principalmente a lui e senza questo sviluppo non avrebbero avuto la diffusione che hanno avuto tra le mura domestiche e sui posti di lavoro.
C'è un fondo di verità, dunque, nella riflessione del prof. Campi, quando dice che negli ultimi tre prodotti c'è più estetica, più marketing, che una reale «rivoluzione» nelle nostre vite e quando riconosce in Jobs il «capitano d'industria», geniale anche per aver inventato «un sistema di organizzazione aziendale, una tecnica di vendita e una forma di relazione con i consumatori». Se questo in qualche modo sminuisce la figura di Jobs agli occhi dell'intellettuale conservatore, che con un malcelato pizzico di moralismo denuncia il vuoto e la solitudine del consumismo e sembra liquidarlo come «un inventore con un grande senso per gli affari», è proprio l'aspetto industriale e capitalistico che Enzo Reale ci ammonisce a non nascondere sotto il politically correct. Se, e nella misura in cui Jobs ci ha «cambiato la vita», lo dobbiamo al puro spirito del capitalismo, mentre i giudizi sul guru della Apple sono così favorevoli perché delle sue innovazioni apprezziamo e enfatizziamo il «carattere sociale, ai limiti del filantropismo», quasi vergognandoci del fatto che dovremmo innanzitutto ringraziare il «grande capitalista» Jobs, «il cui obiettivo principale era vendere-guadagnare-investire-guadagnare di più».
La storia di Jobs, ma di tanti altri "geni" ancora in vita, è la dimostrazione più lampante che è la ricerca del profitto, «l'avidità», per dirla alla Milton Friedman, a far progredire il mondo, e quindi a cambiare in meglio non solo le vite di chi si arricchisce, ma anche quelle di milioni di persone, spesso dell'intera umanità. «Quella di migliorare e modernizzare la realtà - conclude Reale - è una virtù insita nell'etica capitalista e nello svolgimento dell'attività economica nei sistemi di libero mercato. Il fatto che per lodare un capitalista ci sentiamo in dovere di glorificarne il ruolo di benefattore della società non è che l'ennesimo esempio di come in fondo continuiamo a vergognarci di quello che siamo e a considerare il denaro, il profitto, la ricchezza come peccati da espiare».
Senza l'etica capitalista, senza la prospettiva di straripanti ricchezze, non avremmo avuto né Steve Jobs né i suoi prodotti. Dovremmo ricordarcene quando ascoltiamo parole come quelle del regista Ermanno Olmi, in questi giorni nelle sale con il suo ultimo film, «Il villaggio di cartone», un sermone pauperista e catto-comunista. Secondo il regista, «essere stra-ricchi, sopra un certo livello, è un crimine, perché si sottrae ricchezza a molti». Dunque, Jobs, o Bill Gates o Mark Zuckerberg, sarebbero dei «criminali»? Chiediamoci: hanno sottratto, o piuttosto creato ricchezza, se non altro per i milioni di posti di lavoro che hanno creato, e non solo nelle loro aziende? La risposta è sotto gli occhi di chiunque non sia accecato dall'invidia sociale o da ideologie oscurantiste e illiberali. Mi ha lasciato francamente l'amaro in bocca che tesi così strampalate dal punto di vista economico - perché i sistemi di libero mercato non sono affatto giochi "a somma zero" - e così "disumane" - sì, disumane per quanto rappresentano la negazione del più genuino spirito dell'uomo - imperversino in questi giorni persino sulla radio di Confindustria.
Monday, July 04, 2011
Una manovra comunista
E' davvero incomprensibile e autolesionistico "tagliare" le pensioni invece che allungare fin da subito l'età di pensionamento, e magari colpire i politici e i boiardi di Stato che di pensioni ne cumulano due o tre. A parità di impopolarità tra le due misure, la prima è iniqua e predatoria, e tampona solo provvisoriamente l'emorragia della spesa; la seconda è equa e liberale, e strutturale per i conti pubblici. La prima dev'essere fatta ingoiare come una medicina amara, e come tale verrà ricordata; la seconda può essere fatta digerire all'opinione pubblica come un nuovo patto inter-generazionale, dove i padri e le madri si impegnano a lavorare qualche anno in più per non lasciare sulle spalle dei propri figli i debiti derivanti dai loro trent'anni di inattività.
Ma più si entra nei dettagli di questa manovra, più affiorano misure che definire "comuniste" non è un'esagerazione, per il pesante pregiudizio anti mercato e anti ricchezza che tradiscono. Non solo torna alla mente il motto rifondarolo "far piangere i ricchi", ma come sempre capita in questi casi si scopre che a piangere non sono affatto i "ricchi", ma il ceto medio produttivo. La minore rivalutazione delle pensioni è una di queste misure, visto che il governo sembra considerare "ricco" già chi percepisce un assegno tra i 1.428 e i 2.380 euro. E' la stessa mentalità che portava il Pd a proporre un «contributo di solidarietà» una tantum ai "ricchi" che dichiarano al fisco 100 mila euro.
Anche se il risparmio annuo per le casse dello Stato è considerevole (2,2 miliardi di euro per il 2012 e altrettanti nel 2013), la mancata o parziale rivalutazione delle pensioni, come risulta dai conti dell'Inps, vale circa 8 euro all'anno per una pensione di 1.500 euro mensili lordi e 3,8 al mese per una di 2.000 euro. Ma a prescindere dal loro impatto sui singoli, che sembra piuttosto modesto, misure come il superbollo sulle auto potenti (che praticamente colpisce solo chi possiede un jet) o, appunto, l'intervento sulle pensioni, funzionano come un "manifesto" politico, cioè chiariscono agli occhi degli elettori la vera natura e identità politico-culturale di chi li governa. E se l'immagine che ne risulta non è poi così diversa da quella dei governi Prodi-Visco, non dovrà sorprendere se gli elettori che nel 2008 hanno votato per il centrodestra alle prossime occasioni se ne resteranno a casa.
Davvero scandaloso, poi, non solo perché si configura come un vero e proprio esproprio, ma per la sua logica anti economica - un autentico disincentivo ad investire il risparmio nelle attività produttive, e persino nei titoli di Stato - è l'aumento del bollo sui "depositi titoli": da 34,20 a 120 euro, quasi il 400%! Che non colpisce i grandi investitori con capitali di milioni di euro, ma i depositi sopra i mille euro, cioè tutti, anche quelli dei nonni che investono i loro umili risparmi per lasciare una paghetta ai nipotini.
Luigi Zingales ha stimato, sul Sole24Ore, che «tra imposta di bollo ed imposta sostitutiva, un risparmiatore con 10.000 euro in titoli che abbiano un rendimento medio nominale del 3% paga 180 euro all'anno di imposte, pari al 60% del proprio reddito nominale e al 180% del proprio rendimento reale (assumendo un tasso di inflazione pari al 2%)...». Un esproprio non solo «contro la logica economica, ma anche contro quella costituzionale che auspica la tutela del risparmio e la progressività delle imposte». Secondo una stima riportata oggi sul Corriere della Sera, prendendo un investitore medio (con un deposito titoli di 22.500 euro) si tratterebbe dello 0,5% in meno del totale del portafoglio. Al lordo di altre eventuali voci come le commissioni bancarie, per un portafoglio composto quasi essenzialmente dai nuovi Btp si tratterebbe di un rendimento annuo inferiore all'inflazione. E «secondo alcune stime, in base ai rendimenti attuali, per coprire l'onere del nuovo bollo sarebbero necessari i proventi di oltre 7.500 euro di Buoni ordinari del Tesoro annuali».
Oltre al vero e proprio esproprio, dunque, è evidente l'anti-economicità della misura: si punisce, infatti, chi investe i propri risparmi nel debito pubblico nazionale e, soprattutto, nel finanziamento delle attività produttive quotate in Borsa. Demenziale, ben sapendo della cronica difficoltà delle nostre imprese nell'accesso al credito e nell'attrarre investimenti. In poche parole, si scoraggiano gli italiani ad investire sulla crescita economica del loro Paese.
Attenzione, quindi, perché così Alfano o non Alfano, primarie o non primarie, il centrodestra è finito, il Pdl caput. Se fra Berlusconi e Prodi gli italiani non percepiscono differenze apprezzabili, e se fra Tremonti e Visco l'unica differenza è che il primo riesce laddove il secondo ha fallito, cioè nel vampirizzare i portafogli dei cittadini, allora non solo diventa difficile per il centrodestra rivincere le elezioni, ma il rischio oltre a quello di un tracollo elettorale, è un disfacimento culturale. E mentre i nuovi vertici del Pdl si preoccupano di come ripescare l'Udc, un popolo intero sta per rimanere privo di una rappresentanza politica.
Ma più si entra nei dettagli di questa manovra, più affiorano misure che definire "comuniste" non è un'esagerazione, per il pesante pregiudizio anti mercato e anti ricchezza che tradiscono. Non solo torna alla mente il motto rifondarolo "far piangere i ricchi", ma come sempre capita in questi casi si scopre che a piangere non sono affatto i "ricchi", ma il ceto medio produttivo. La minore rivalutazione delle pensioni è una di queste misure, visto che il governo sembra considerare "ricco" già chi percepisce un assegno tra i 1.428 e i 2.380 euro. E' la stessa mentalità che portava il Pd a proporre un «contributo di solidarietà» una tantum ai "ricchi" che dichiarano al fisco 100 mila euro.
Anche se il risparmio annuo per le casse dello Stato è considerevole (2,2 miliardi di euro per il 2012 e altrettanti nel 2013), la mancata o parziale rivalutazione delle pensioni, come risulta dai conti dell'Inps, vale circa 8 euro all'anno per una pensione di 1.500 euro mensili lordi e 3,8 al mese per una di 2.000 euro. Ma a prescindere dal loro impatto sui singoli, che sembra piuttosto modesto, misure come il superbollo sulle auto potenti (che praticamente colpisce solo chi possiede un jet) o, appunto, l'intervento sulle pensioni, funzionano come un "manifesto" politico, cioè chiariscono agli occhi degli elettori la vera natura e identità politico-culturale di chi li governa. E se l'immagine che ne risulta non è poi così diversa da quella dei governi Prodi-Visco, non dovrà sorprendere se gli elettori che nel 2008 hanno votato per il centrodestra alle prossime occasioni se ne resteranno a casa.
Davvero scandaloso, poi, non solo perché si configura come un vero e proprio esproprio, ma per la sua logica anti economica - un autentico disincentivo ad investire il risparmio nelle attività produttive, e persino nei titoli di Stato - è l'aumento del bollo sui "depositi titoli": da 34,20 a 120 euro, quasi il 400%! Che non colpisce i grandi investitori con capitali di milioni di euro, ma i depositi sopra i mille euro, cioè tutti, anche quelli dei nonni che investono i loro umili risparmi per lasciare una paghetta ai nipotini.
Luigi Zingales ha stimato, sul Sole24Ore, che «tra imposta di bollo ed imposta sostitutiva, un risparmiatore con 10.000 euro in titoli che abbiano un rendimento medio nominale del 3% paga 180 euro all'anno di imposte, pari al 60% del proprio reddito nominale e al 180% del proprio rendimento reale (assumendo un tasso di inflazione pari al 2%)...». Un esproprio non solo «contro la logica economica, ma anche contro quella costituzionale che auspica la tutela del risparmio e la progressività delle imposte». Secondo una stima riportata oggi sul Corriere della Sera, prendendo un investitore medio (con un deposito titoli di 22.500 euro) si tratterebbe dello 0,5% in meno del totale del portafoglio. Al lordo di altre eventuali voci come le commissioni bancarie, per un portafoglio composto quasi essenzialmente dai nuovi Btp si tratterebbe di un rendimento annuo inferiore all'inflazione. E «secondo alcune stime, in base ai rendimenti attuali, per coprire l'onere del nuovo bollo sarebbero necessari i proventi di oltre 7.500 euro di Buoni ordinari del Tesoro annuali».
Oltre al vero e proprio esproprio, dunque, è evidente l'anti-economicità della misura: si punisce, infatti, chi investe i propri risparmi nel debito pubblico nazionale e, soprattutto, nel finanziamento delle attività produttive quotate in Borsa. Demenziale, ben sapendo della cronica difficoltà delle nostre imprese nell'accesso al credito e nell'attrarre investimenti. In poche parole, si scoraggiano gli italiani ad investire sulla crescita economica del loro Paese.
Attenzione, quindi, perché così Alfano o non Alfano, primarie o non primarie, il centrodestra è finito, il Pdl caput. Se fra Berlusconi e Prodi gli italiani non percepiscono differenze apprezzabili, e se fra Tremonti e Visco l'unica differenza è che il primo riesce laddove il secondo ha fallito, cioè nel vampirizzare i portafogli dei cittadini, allora non solo diventa difficile per il centrodestra rivincere le elezioni, ma il rischio oltre a quello di un tracollo elettorale, è un disfacimento culturale. E mentre i nuovi vertici del Pdl si preoccupano di come ripescare l'Udc, un popolo intero sta per rimanere privo di una rappresentanza politica.
Monday, October 18, 2010
Se piangono i ricchi, piangono tutti
Non c'è niente da fare, la tassazione resta un fattore fondamentale di sviluppo o di declino, a seconda se sia contenuta (a partire dai redditi più alti) o eccessiva. L'ennesima conferma arriva da questo dato che ci segnala Michele Boldrin, su noiseFromAmeriKa: in Italia la tassazione totale effettiva sui redditi lordi superiori ai 100 mila dollari (75 mila euro) è la più alta al mondo. Ridurre le tasse sui redditi medio-bassi è senz'altro giusto e opportuno, a patto di non illudersi che ciò basti a rilanciare la domanda interna, ma è l'aliquota marginale più alta, insieme alla fascia di reddito cui si applica, che determina l'effetto del sistema fiscale sull'economia. Più è elevata, e più si accanisce a partire da redditi lordi tutto sommato medi come i nostri 75 mila euro, maggiore sarà l'effetto punitivo nei confronti dell'attività economica e dell'accumulo di capitale che ne è il presupposto.
Può piacere o meno, ma è proprio chi guadagna quelle cifre, dai 75mila euro in su, a far girare l'economia, ad avere le risorse finanziarie, materiali e immateriali per creare impresa, quindi lavoro e crescita. Il nostro sistema fiscale, abbassando la soglia della ricchezza fino al ceto medio, sembra ideato al solo scopo di mettere in fuga questi soggetti o di indurli a nascondersi. Il risultato è che i "ricchi", quelli veri, si godono comunque la loro ricchezza, ci illudiamo di farli piangere, mentre tutti gli altri annaspano. Insomma, la tassazione eccessiva rimane la principale palla al piede del nostro sistema produttivo. Senza ridurla sensibilmente sarà difficile recuperare competitività e produttività.
Può piacere o meno, ma è proprio chi guadagna quelle cifre, dai 75mila euro in su, a far girare l'economia, ad avere le risorse finanziarie, materiali e immateriali per creare impresa, quindi lavoro e crescita. Il nostro sistema fiscale, abbassando la soglia della ricchezza fino al ceto medio, sembra ideato al solo scopo di mettere in fuga questi soggetti o di indurli a nascondersi. Il risultato è che i "ricchi", quelli veri, si godono comunque la loro ricchezza, ci illudiamo di farli piangere, mentre tutti gli altri annaspano. Insomma, la tassazione eccessiva rimane la principale palla al piede del nostro sistema produttivo. Senza ridurla sensibilmente sarà difficile recuperare competitività e produttività.
Wednesday, May 12, 2010
Il Pil venderà cara la pelle
C'è chi vorrebbe superarlo come indicatore economico, chi più cautamente ammette che «è indispensabile» ma non sufficiente. Ben vengano altri indicatori del «benessere effettivo» di una società, che si aggiungano alla misura meramente quantitativa offerta dal Pil. Sarà un po' rozzo, riduttivo, eccessivamente semplificante, ma come ha dimostrato la recente crisi dell'Eurozona, al dunque è il Pil quello che conta: se fai deficit, se il tuo debito pubblico aumenta, ma non cresci il necessario per poterti indebitare, allora sei nei guai. Stupidamente gli investitori ti prestano il loro denaro solo se dimostri di saperlo utilizzare bene, cioè per produrre ricchezza. Valli a convincere che per quanto inefficiente possa essere il nostro welfare state, nulla vale di più della "serenità" che ci trasmette (?!), o di un bel tramonto e di un inverno mite. D'altronde, per tutto il resto non c'è Mastercard? L'impressione invece è che ancora a lungo i governi dovranno pendere dalle labbra del Pil, pregare giorno e notte per ogni decimale di punto in più.
Per questo è apparso particolarmente intempestivo il convegno sul superamento del Pil organizzato ieri da FareFuturo, a cui ha partecipato il presidente della Camera Fini, proprio nei giorni in cui arriva la "sveglia" dei mercati sui problemi di crescita di alcuni Paesi dell'area Euro. E guarda caso a guardare con sempre maggiore insofferenza al Pil sono i leader o i politici di Paesi dove il welfare e una spesa pubblica elevata appaiono totem intoccabili. Pare proprio che Fini si associ puntualmente al mainstream anti-mercato dei leader di centrodestra europei - tedeschi, francesi e italiani. Fu Tremonti il primo in Italia a rincorrere le suggestioni di Sarkozy-Fitoussi sul Pil, sostenendo che la realtà del nostro Belpaese non fosse «completamente catturata dalle statistiche sul Prodotto interno lordo», colpevoli di ignorare la bellezza, l'ambiente, la storia e il clima italiani. Chissà se Tremonti ripeterebbe quel concetto anche oggi. Di sicuro lo ha fatto proprio Fini, che di Tremonti sembra non condividere solo il modo in cui in questi mesi ha tenuto stretti i cordoni della borsa, soprattutto nei confronti del Sud.
A proposito di Fini, se da una parte rifiuta comprensibilmente d'incontrare gli ambasciatori di "pace" del premier, dall'altro uno dei suoi scudieri, Adolfo Urso, ieri a Ballarò è apparso insolitamente "berlusconiano", allineato. Chissà che la pace, o almeno una tregua, non passi per il Ministero dello Sviluppo economico, lasciato libero da Scajola, di cui Urso è viceministro...
Per questo è apparso particolarmente intempestivo il convegno sul superamento del Pil organizzato ieri da FareFuturo, a cui ha partecipato il presidente della Camera Fini, proprio nei giorni in cui arriva la "sveglia" dei mercati sui problemi di crescita di alcuni Paesi dell'area Euro. E guarda caso a guardare con sempre maggiore insofferenza al Pil sono i leader o i politici di Paesi dove il welfare e una spesa pubblica elevata appaiono totem intoccabili. Pare proprio che Fini si associ puntualmente al mainstream anti-mercato dei leader di centrodestra europei - tedeschi, francesi e italiani. Fu Tremonti il primo in Italia a rincorrere le suggestioni di Sarkozy-Fitoussi sul Pil, sostenendo che la realtà del nostro Belpaese non fosse «completamente catturata dalle statistiche sul Prodotto interno lordo», colpevoli di ignorare la bellezza, l'ambiente, la storia e il clima italiani. Chissà se Tremonti ripeterebbe quel concetto anche oggi. Di sicuro lo ha fatto proprio Fini, che di Tremonti sembra non condividere solo il modo in cui in questi mesi ha tenuto stretti i cordoni della borsa, soprattutto nei confronti del Sud.
A proposito di Fini, se da una parte rifiuta comprensibilmente d'incontrare gli ambasciatori di "pace" del premier, dall'altro uno dei suoi scudieri, Adolfo Urso, ieri a Ballarò è apparso insolitamente "berlusconiano", allineato. Chissà che la pace, o almeno una tregua, non passi per il Ministero dello Sviluppo economico, lasciato libero da Scajola, di cui Urso è viceministro...
Thursday, March 12, 2009
Una diversa concezione della ricchezza e della tassazione
La proposta Franceschini di aumentare le tasse ai più "ricchi" per aiutare i più poveri ha ispirato degli accostamenti con l'aumento delle tasse per gli americani più ricchi annunciato da Obama. Mentre Obama può proporre di alzare le tasse ai più ricchi e «nessuno si ribella, tacciandolo di bolscevismo», ha scritto oggi Massimo Giannini su la Repubblica, «al segretario dei democratici italiani questa licenza politico-culturale non è permessa» e la sua proposta «fa scandalo».
Certo che fa scandalo. E' vero che per finanziare una parte del fondo iniziale di 634 miliardi di dollari per la sua riforma sanitaria, Obama aumenterà le tasse al 2% degli americani più ricchi. Ma tra Stati Uniti e Italia ci sono differenze abissali di aliquote marginali sul reddito individuale. Obama porterà le due aliquote più alte dal 33 al 36% e dal 35 al 39,6%, mentre la proposta Franceschini porterebbe l'aliquota massima dal 43 al 45%. Non solo. Quel 45% si applicherebbe sulla parte eccedente i 75 mila euro di reddito per i contribuenti che dichiarano dai 120 mila euro in su. Gli aumenti proposti da Obama riguarderanno i redditi superiori ai 200 mila dollari per i singoli e ai 250 mila per le coppie.
Per Obama sono "ricchi" quelli che guadagano dai 200 mila dollari in su; per Franceschini basta guadagnare 120 mila euro per essere "ricchi". Certo, un piccolo passo avanti rispetto a Prodi-Visco, che hanno colpito dai 35 mila euro, si può notare.
Il confronto con la proposta di Obama semmai mette in luce due diverse visioni sulla soglia della ricchezza e un diverso approccio nei confronti della tassazione. Mentre in Italia sul reddito oltre i 75 mila euro si paga un'aliquota del 43%, in America tra i 78.850 e i 164.550 dollari si paga un'aliquota del 28%. Ben 15 punti percentuali di differenza. Alle due fasce tra i 55 mila e i 75 mila euro, da noi tassata al 41%, e tra i 28 mila e i 55 mila euro, tassata al 38%, in America corrisponde la fascia tra i 32.550 e i 78.850 dollari, tassata al 25%. Per vedersi attribuire un'aliquota del 27% qui da noi bisogna scendere tra i 15 e i 28 mila euro, mentre tra gli 8 mila e 32.550 dollari gli americani pagano il 15%. Fino a 15 mila euro in Italia si paga il 23%, mentre in America fino a 8 mila dollari il 10%.
Certo che fa scandalo. E' vero che per finanziare una parte del fondo iniziale di 634 miliardi di dollari per la sua riforma sanitaria, Obama aumenterà le tasse al 2% degli americani più ricchi. Ma tra Stati Uniti e Italia ci sono differenze abissali di aliquote marginali sul reddito individuale. Obama porterà le due aliquote più alte dal 33 al 36% e dal 35 al 39,6%, mentre la proposta Franceschini porterebbe l'aliquota massima dal 43 al 45%. Non solo. Quel 45% si applicherebbe sulla parte eccedente i 75 mila euro di reddito per i contribuenti che dichiarano dai 120 mila euro in su. Gli aumenti proposti da Obama riguarderanno i redditi superiori ai 200 mila dollari per i singoli e ai 250 mila per le coppie.
Per Obama sono "ricchi" quelli che guadagano dai 200 mila dollari in su; per Franceschini basta guadagnare 120 mila euro per essere "ricchi". Certo, un piccolo passo avanti rispetto a Prodi-Visco, che hanno colpito dai 35 mila euro, si può notare.
Il confronto con la proposta di Obama semmai mette in luce due diverse visioni sulla soglia della ricchezza e un diverso approccio nei confronti della tassazione. Mentre in Italia sul reddito oltre i 75 mila euro si paga un'aliquota del 43%, in America tra i 78.850 e i 164.550 dollari si paga un'aliquota del 28%. Ben 15 punti percentuali di differenza. Alle due fasce tra i 55 mila e i 75 mila euro, da noi tassata al 41%, e tra i 28 mila e i 55 mila euro, tassata al 38%, in America corrisponde la fascia tra i 32.550 e i 78.850 dollari, tassata al 25%. Per vedersi attribuire un'aliquota del 27% qui da noi bisogna scendere tra i 15 e i 28 mila euro, mentre tra gli 8 mila e 32.550 dollari gli americani pagano il 15%. Fino a 15 mila euro in Italia si paga il 23%, mentre in America fino a 8 mila dollari il 10%.
Wednesday, March 11, 2009
Perdono il pelo ma non il visco: Franceschini dichiara guerra al ceto medio
Un incentivo in più per darsi alla macchia
Archiviata la proposta dell'assegno di disoccupazione, di cui abbiamo già avuto modo di parlare, Franceschini riesuma il centrosinistra di Visco e scimmiottando Obama propone di aumentare le tasse ai "ricchi" (!?) per aiutare i più poveri. Un «contributo straordinario» per il 2009: due punti percentuali in più di aliquota Irpef sui redditi superiori ai 120 mila euro per reperire 500 milioni da destinare al contrasto della povertà estrema.
Demagogia assoluta. Effettivamente, se si prendono in considerazione le dichiarazioni del 2006 per l'anno d'imposta 2005 (dati del Dipartimento delle Finanze), aumentando del 2% l'aliquota del 43 per cento che si applica sulla parte eccedente i 75 mila euro di reddito, si ricaverebbero circa 500 milioni di euro in più di imposta lorda. Tuttavia, non è assolutamente detto che aumentando l'aliquota marginale, a un universo così ristretto di contribuenti (tra i 177 mila e i 200 mila) si ricavi un gettito superiore.
Innazitutto, perché non siamo nel 2005 ma in un periodo di crisi più profonda. Poi, perché il solo annuncio di un simile aumento può indurre i contribuenti interessati a imboscarsi in parte o in tutto, oppure a sfruttare al massimo deduzioni e detrazioni (già mi pare di sentirle le preghiere ai commercialisti: "Mi raccomando, faccia come vuole purché restiamo entro i 119.990 euro"). Per non parlare dell'effetto negativo sui consumi (e quindi sul gettito Iva) che potrebbe avere l'aumento delle tasse sui contribuenti più propensi a consumare.
Ma il punto è: sono davvero questi "i ricchi"? Già oggi, i contribuenti con un reddito imponibile di 120 mila euro, che Franceschini chiama "ricchi", si vedono sottrarre dal fisco oltre il 37%, ritrovandosi con poco più di 75 mila euro. Siamo in pieno ceto medio. Inoltre, i redditi superiori ai 100 mila euro in Italia sono già una razza in via d'estinzione e la proposta di Franceschini sarebbe solo un incentivo in più per darsi alla macchia. La percentuale dei contribuenti che dichiarano redditi superiori ai 100 mila euro è stranamente bassa in Italia (rispetto agli Usa, per esempio): lo 0,8%. Tanto da far pensare che simili proposte finiscono per "punire" solo i pochi onesti (o costretti, perché lavoratori dipendenti) che dichiarano quei redditi, mentre tutti gli altri "ricchi" si imboscano.
Ma evidentemente con la sua proposta il segretario del Pd cerca anche di imitare il presidente americano Barack Obama, che per finanziare una parte del fondo iniziale di 634 miliardi di dollari per la sua riforma sanitaria, aumenterà le tasse sui redditi superiori ai 200 mila dollari per i singoli e ai 250 mila per le coppie, il 2% delle dichiarazioni, quelle degli americani più ricchi. L'aliquota marginale massima del 35% salirà al 39,6%.
Ebbene, balza subito agli occhi una differenza abissale nel concetto di ricchezza. In America un presidente di sinistra non si azzarda a definire "ricchi" i single che guadagnano meno di 200 mila dollari (circa 158 mila euro); in Italia ci vanno di mezzo tutti quelli che guadagnano 120 mila euro, single o con famiglia a carico. Ammesso e non concesso che la politica fiscale di Obama sia opportuna, quella di Franceschini è un grossolano attacco al ceto medio.
In Italia i contribuenti più ricchi, che dichiarano più di 100 mila euro l'anno, sono circa 300 mila, lo 0,8% (ma c'è da scommettere che i voti sono molti di più!), e assicurano all'erario solo il 15,8% dell'imposta complessiva (circa 19,8 miliardi di euro). Negli Stati Uniti, considerando gli ultimi dati disponibili (2006), l'1% dei contribuenti più ricchi ha versato invece il 40% del gettito complessivo. Ma di questo 1% fanno parte i cittadini americani che dichiarano un reddito superiore ai 388 mila dollari, mentre in Italia per arrivare alla quota dell'0,8% dei contribuenti più ricchi bisogna considerare anche chi dichiara un reddito di "soli" 100 mila euro (126 mila dollari).
A dichiarare un reddito superiore ai 200 mila dollari (circa 158 mila euro) è addirittura il 7% dei contribuenti americani, che assicura il 62% del gettito complessivo dell'imposta sul reddito individuale, 522 miliardi di dollari. Ebbene, gli italiani che dichiarano un reddito simile, superiore ai 150 mila euro (200 mila dollari equivalgono a 158 mila euro), sono lo 0,3% (114 mila) e versano solo il 9,7% dell'imposta complessiva (circa 12,2 miliardi di euro).
Per ottenere 10 miliardi di euro - per esempio, per finanziare una riforma degli ammortizzatori sociali - da questa fascia di contribuenti più ricchi, la stessa a cui Obama ha deciso di aumentare le tasse per finanziare il suo piano sanitario, occorrerebbe quasi raddoppiare l'aliquota. Per arrivare al 53% di tutto il gettito bisogna prendere in considerazione le tasse pagate dal 10% dei contribuenti italiani più ricchi, ben sotto la soglia dei 70 mila euro.
Sorge spontaneo chiedersi dove siano finiti i "ricchi" in Italia. O nel nostro paese c'è un problema di scarsa creazione della ricchezza e di uno scarso accumulo di capitali; oppure le aliquote sono troppo alte e i contribuenti più ricchi investono i loro guadagni in modi che gli permettono di non farli figurare come reddito imponibile. Probabilmente le due spiegazioni non si escludono.
Archiviata la proposta dell'assegno di disoccupazione, di cui abbiamo già avuto modo di parlare, Franceschini riesuma il centrosinistra di Visco e scimmiottando Obama propone di aumentare le tasse ai "ricchi" (!?) per aiutare i più poveri. Un «contributo straordinario» per il 2009: due punti percentuali in più di aliquota Irpef sui redditi superiori ai 120 mila euro per reperire 500 milioni da destinare al contrasto della povertà estrema.
Demagogia assoluta. Effettivamente, se si prendono in considerazione le dichiarazioni del 2006 per l'anno d'imposta 2005 (dati del Dipartimento delle Finanze), aumentando del 2% l'aliquota del 43 per cento che si applica sulla parte eccedente i 75 mila euro di reddito, si ricaverebbero circa 500 milioni di euro in più di imposta lorda. Tuttavia, non è assolutamente detto che aumentando l'aliquota marginale, a un universo così ristretto di contribuenti (tra i 177 mila e i 200 mila) si ricavi un gettito superiore.
Innazitutto, perché non siamo nel 2005 ma in un periodo di crisi più profonda. Poi, perché il solo annuncio di un simile aumento può indurre i contribuenti interessati a imboscarsi in parte o in tutto, oppure a sfruttare al massimo deduzioni e detrazioni (già mi pare di sentirle le preghiere ai commercialisti: "Mi raccomando, faccia come vuole purché restiamo entro i 119.990 euro"). Per non parlare dell'effetto negativo sui consumi (e quindi sul gettito Iva) che potrebbe avere l'aumento delle tasse sui contribuenti più propensi a consumare.
Ma il punto è: sono davvero questi "i ricchi"? Già oggi, i contribuenti con un reddito imponibile di 120 mila euro, che Franceschini chiama "ricchi", si vedono sottrarre dal fisco oltre il 37%, ritrovandosi con poco più di 75 mila euro. Siamo in pieno ceto medio. Inoltre, i redditi superiori ai 100 mila euro in Italia sono già una razza in via d'estinzione e la proposta di Franceschini sarebbe solo un incentivo in più per darsi alla macchia. La percentuale dei contribuenti che dichiarano redditi superiori ai 100 mila euro è stranamente bassa in Italia (rispetto agli Usa, per esempio): lo 0,8%. Tanto da far pensare che simili proposte finiscono per "punire" solo i pochi onesti (o costretti, perché lavoratori dipendenti) che dichiarano quei redditi, mentre tutti gli altri "ricchi" si imboscano.
Ma evidentemente con la sua proposta il segretario del Pd cerca anche di imitare il presidente americano Barack Obama, che per finanziare una parte del fondo iniziale di 634 miliardi di dollari per la sua riforma sanitaria, aumenterà le tasse sui redditi superiori ai 200 mila dollari per i singoli e ai 250 mila per le coppie, il 2% delle dichiarazioni, quelle degli americani più ricchi. L'aliquota marginale massima del 35% salirà al 39,6%.
Ebbene, balza subito agli occhi una differenza abissale nel concetto di ricchezza. In America un presidente di sinistra non si azzarda a definire "ricchi" i single che guadagnano meno di 200 mila dollari (circa 158 mila euro); in Italia ci vanno di mezzo tutti quelli che guadagnano 120 mila euro, single o con famiglia a carico. Ammesso e non concesso che la politica fiscale di Obama sia opportuna, quella di Franceschini è un grossolano attacco al ceto medio.
In Italia i contribuenti più ricchi, che dichiarano più di 100 mila euro l'anno, sono circa 300 mila, lo 0,8% (ma c'è da scommettere che i voti sono molti di più!), e assicurano all'erario solo il 15,8% dell'imposta complessiva (circa 19,8 miliardi di euro). Negli Stati Uniti, considerando gli ultimi dati disponibili (2006), l'1% dei contribuenti più ricchi ha versato invece il 40% del gettito complessivo. Ma di questo 1% fanno parte i cittadini americani che dichiarano un reddito superiore ai 388 mila dollari, mentre in Italia per arrivare alla quota dell'0,8% dei contribuenti più ricchi bisogna considerare anche chi dichiara un reddito di "soli" 100 mila euro (126 mila dollari).
A dichiarare un reddito superiore ai 200 mila dollari (circa 158 mila euro) è addirittura il 7% dei contribuenti americani, che assicura il 62% del gettito complessivo dell'imposta sul reddito individuale, 522 miliardi di dollari. Ebbene, gli italiani che dichiarano un reddito simile, superiore ai 150 mila euro (200 mila dollari equivalgono a 158 mila euro), sono lo 0,3% (114 mila) e versano solo il 9,7% dell'imposta complessiva (circa 12,2 miliardi di euro).
Per ottenere 10 miliardi di euro - per esempio, per finanziare una riforma degli ammortizzatori sociali - da questa fascia di contribuenti più ricchi, la stessa a cui Obama ha deciso di aumentare le tasse per finanziare il suo piano sanitario, occorrerebbe quasi raddoppiare l'aliquota. Per arrivare al 53% di tutto il gettito bisogna prendere in considerazione le tasse pagate dal 10% dei contribuenti italiani più ricchi, ben sotto la soglia dei 70 mila euro.
Sorge spontaneo chiedersi dove siano finiti i "ricchi" in Italia. O nel nostro paese c'è un problema di scarsa creazione della ricchezza e di uno scarso accumulo di capitali; oppure le aliquote sono troppo alte e i contribuenti più ricchi investono i loro guadagni in modi che gli permettono di non farli figurare come reddito imponibile. Probabilmente le due spiegazioni non si escludono.
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