Pubblicato su Ofcs Report
Per la prima volta da decenni uno dei candidati con serie chance di arrivare alla Casa Bianca, Donald Trump, mette in discussione le fondamenta della politica estera americana, dall’approccio interventista da “poliziotto globale” alla secolare spinta per il libero commercio internazionale. L’ultimo candidato alla presidenza con una piattaforma isolazionista fu George W. Bush nel 2000, dopo anni di interventismo democratico clintoniano. Ma l’11 settembre 2001 cambiò tutto.
Una rottura tanto marcata rispetto al ruolo guida dell’America, che è proprio l’establishment di politica estera del partito repubblicano a guidare il fronte #NeverTrump. Persino neocon e realisti, da anni in competizione per influenzarne la politica estera, sembrano aver siglato una tregua per far fronte al nemico comune. Hillary Clinton, in campo democratico, rappresenta invece la continuità. Da first lady sostenne l’intervento nei Balcani, da senatrice votò la guerra in Iraq e da segretario di Stato pianificò la campagna libica. E fu il marito Bill a firmare l’accordo per il libero scambio nordamericano tra Stati Uniti, Canada e Messico (Nafta), così duramente contestato da Trump (“ha distrutto” l’industria americana).
Il miliardario newyorkese sta interpretando il senso di insicurezza e le paure crescenti di milioni di americani, non solo di destra. Paure che mai come oggi forse sembrano coincidere con quelle che attraversano l’Europa: immigrazione, pericolo islamico, globalizzazione minacciano il senso di identità sia nazionale, culturale, che economico-sociale.
“L’America non vince più. Perde contro la Cina, contro il Giappone, contro il Messico, contro il resto del mondo”, è l’allarme di Trump, che accusa Pechino di “stuprare” gli Stati Uniti con la sua politica commerciale e monetaria: manipolando la sua moneta rende le esportazioni più competitive a danno dei lavoratori americani. Trump si difende dalle accuse di protezionismo: “Sono completamente a favore del libero commercio”, ma il gioco dev’essere “corretto”. Colpa di politici incapaci che hanno negoziato accordi di libero commercio dannosi.
Posizioni che trovano molti consensi anche a sinistra. L’idea di fondo è che con la globalizzazione Stati Uniti e Paesi europei si siano aperti a una concorrenza sleale e ad una penetrazione economica e commerciale da parte di paesi, come la Cina appunto, che per rendere competitivi i propri prodotti svalutano la moneta e tengono bassi i costi di produzione comprimendo diritti umani e sociali, a livelli inaccettabili per l’Occidente. Per quanta flessibilità si possa introdurre nel mercato del lavoro – e quello americano è già molto più flessibile del nostro – conviene sempre di più delocalizzare la produzione in quei paesi. Ne deriva una trasformazione del nostro tessuto economico e sociale che accresce il senso di precarietà e di insicurezza. Aree enormi e persino interi stati americani (ma anche europei) hanno già perso o stanno perdendo la propria identità manufatturiera. Qualcosa di più profondo che un semplice tasso di disoccupazione (negli Usa non così elevato).
Ma Trump mette in discussione anche la presenza degli Stati Uniti nella Nato, sulla base di un argomento non proprio infondato: perché dovremmo spendere per la difesa dell’Europa più di quanto spendono i Paesi europei stessi, collettivamente più ricchi e popolosi dell’America?
Lo stesso Trump si rende conto di dover apparire più credibile in politica estera e la settimana scorsa ha incontrato l’ex segretario di stato Henry Kissinger, passato alla storia come l’artefice, durante la presidenza Nixon, dell’apertura alla Cina, oggetto degli strali proprio di Trump. Se i vertici e i principali donatori del Gop non sono ancora pronti a concedergli il sostegno ufficiale del partito, i negoziati sono ormai avviati, con il miliardario che forte del consenso popolare raccolto, e degli ultimi sondaggi che lo danno in rimonta sulla Clinton, può trattare da una posizione di forza. Raramente abbiamo visto confrontarsi per la Casa Bianca due visioni di politica estera così distanti, quasi agli antipodi, il che rende la scelta degli americani ancora più del solito gravida di conseguenze per noi europei.
Showing posts with label politica industriale. Show all posts
Showing posts with label politica industriale. Show all posts
Monday, May 23, 2016
Tuesday, September 18, 2012
Non Marchionne, l'Italia deve decidere cosa vuole fare
Anche su L'Opinione
Si può capire molto della malattia che affligge l'Italia dai rapporti decennali tra la Fiat e le nostre classi dirigenti: sono lo specchio del declino italiano. Oggi il governo, le forze politiche e sociali, i media delle elite economiche e finanziarie del paese, pendono tutti dalle labbra di Marchionne: ci dica che piani ha per l'Italia, ce lo deve. Non una richiesta, ma una pretesa, un'intimazione: il governo convochi i vertici e li obblighi a "cantare". Il tutto alludendo ad una sorta di complotto anti-italiano di Marchionne, che fin dall'inizio avrebbe avuto in mente la grande fuga delle attività produttive del gruppo torinese dal nostro paese. Ora che il progetto "Fabbrica Italia" cade sotto i colpi della crisi, si riapre lo psicodramma del "tradimento": la Fiat che così tanto deve all'Italia, ci tradisce per l'odiata Amerika.
La malattia italiana che fa fuggire la Fiat, e tanti altri, sta nella risposta al quesito posto da Penati su la Repubblica: «Perché Sergio Marchionne, che a Detroit è considerato un eroe, è così detestato in Italia?». Nell'odio per Marchionne l'establishment italiano rivela tutta la propria viscerale avversione al capitalismo di mercato. Che Romiti, emblema della Fiat sussidiata degli anni '70-'80, si scagli contro di lui solidarizzando con la Fiom, che si è opposta fino alla via giudiziaria ai tentativi di rilancio della produttività nelle fabbriche, ne è la dimostrazione lampante. Si parla tanto di crescita, ma il paese sembra rigettare le uniche politiche capaci di rilanciarla. Dunque, quando dall'estero vedono l'establishment che marcia diviso per colpire unito su Marchionne, vedono un paese che in realtà non vuole crescere. E in un paese simile non si investe.
L'ad di Fiat ha fatto ciò che un manager deve fare in una economia di mercato: creare valore per i propri azionisti. In una certa misura c'è riuscito e s'è arricchito anche personalmente. Ma per la nostra cultura, intrisa di catto-comunismo fino al midollo, il successo nell'impresa e nella finanza è una colpa imperdonabile, perché deriva per forza di cose da un intollerabile e meschino sfruttamento dei più deboli. Tollerabile, invece, se deriva dal sussidio pubblico e dalle buone relazioni con i mondi consociativi della politica e della finanza. Persino un imprenditore ben inserito come Della Valle accusa i vertici Fiat di aver assunto «le scelte più convenienti per loro e i loro obiettivi, senza minimamente curarsi degli interessi e delle necessità del paese». Eppure proprio di questo dovrebbero occuparsi imprenditori e manager, mentre «degli interessi e delle necessità del paese» dovrebbero curarsi i governi e i politici. Auguriamo a Mister Tod's, che lancia l'epiteto di «furbetti cosmopoliti», di non dover un giorno dare conto di sue eventuali "furbate cosmopolite", magari in Romania o in Cina.
La Fiat, ampiamente sussidiata da tutti i governi della I e II Repubblica, ha cominciato ad essere invisa da quando è arrivato Marchionne, che ha iniziato a snobbare la politica e i suoi riti, a rivolgersi al paese parlando di produttività e non di incentivi a fondo perduto. Il piano industriale battezzato col nome di "Fabbrica Italia" non è stato negoziato né con i governi né con le parti sociali. Poneva degli obiettivi e le condizioni per raggiungerli: non assegni in bianco, ma un contesto di relazioni industriali e forme contrattuali che rilanciassero la produttività. Tra il prendere atto dell'eccesso di capacità produttiva (in Europa, non solo in Italia), e dunque chiudere subito le fabbriche, e scommettere su un paese ancora capace di essere competitivo, Marchionne ha scelto questa seconda strada, convinto che la ripresa fosse vicina. Fin dall'inizio era ben consapevole, certo, che il disimpegno dall'Italia restava un'opzione più che probabile, di fronte a condizioni avverse, ma diverso è presumere che fosse il suo obiettivo.
I fatti dicono che da quando Fiat ha annunciato il progetto "Fabbrica Italia", nell'aprile 2010, le condizioni sono «profondamente cambiate». Sia perché il mercato dell'auto nel frattempo è crollato (-40% rispetto al 2007; -20% solo nei primi 8 mesi del 2012), sia perché a 5 anni dall'inizio della crisi l'Italia non ha ancora adottato le riforme strutturali necessarie per far recuperare competitività al nostro sistema produttivo. Se c'è una colpa di Marchionne, è non aver previsto la crisi dell'eurodebito, che avrebbe innescato una recessione ben più strutturale di quella del 2009. Il colpo di grazia, poi, è stato assestato dalle politiche di risanamento a base di tasse e demagogia. Tra tassa sul lusso per far pagare i "ricchi", aumenti dell'Iva e patrimoniale immobiliare, la prima vittima della compressione dei redditi medio-alti è stato il mercato dell'auto. Sicuri che il gettito della tassa sul lusso sia superiore al mancato gettito Iva delle auto di grossa cilindrata non acquistate? E delle tasse sulla benzina che quelle auto non acquistate non hanno mai consumato per camminare?
Se è «impossibile» fare riferimento al progetto "Fabbrica Italia" non è solo per la crisi, ma come dimostrano altri drammatici casi, anche a causa delle nostre resistenze ai cambiamenti necessari per rendere produttivo investire in Italia. I costi dell'energia sono i più alti d'Europa, ma diciamo no a nucleare e rigassificatori. Per ciascun occupato si versa in tasse e contributi il 64% del pil pro capite, ma non vogliamo ridurre la spesa in pensioni e sanità. Il nostro mercato del lavoro è il più rigido d'Europa, ma guai a toccare l'articolo 18 e a parlare di contrattazione aziendale. "Marchionne risponda, non possiamo aspettare", sono le parole attribuite al ministro Fornero? Marchionne e gli investitori stranieri hanno in mente l'esatto opposto: "L'Italia risponda, non possiamo aspettare". In Italia ci sforziamo di tenere in vita con sussidi e incentivi settori e aziende non più produttivi, non di creare le condizioni economiche e legali più favorevoli agli investimenti. Non dovremmo chiamare a rapporto Marchionne, ma i nostri politici e tecnici, le nostre classi dirigenti: che piani avete voi per l'Italia? È da quelli che dipendono gli investimenti, non il contrario. Certo che un paese come il nostro deve avere un'industria automobilistica, ma non l'avrà per grazia ricevuta: se la vuole davvero deve creare le condizioni per renderla produttiva. Che si tratti di convincere Fiat a restare, o di attirare case automobilistiche straniere, le cose da fare sono le stesse.
Si può capire molto della malattia che affligge l'Italia dai rapporti decennali tra la Fiat e le nostre classi dirigenti: sono lo specchio del declino italiano. Oggi il governo, le forze politiche e sociali, i media delle elite economiche e finanziarie del paese, pendono tutti dalle labbra di Marchionne: ci dica che piani ha per l'Italia, ce lo deve. Non una richiesta, ma una pretesa, un'intimazione: il governo convochi i vertici e li obblighi a "cantare". Il tutto alludendo ad una sorta di complotto anti-italiano di Marchionne, che fin dall'inizio avrebbe avuto in mente la grande fuga delle attività produttive del gruppo torinese dal nostro paese. Ora che il progetto "Fabbrica Italia" cade sotto i colpi della crisi, si riapre lo psicodramma del "tradimento": la Fiat che così tanto deve all'Italia, ci tradisce per l'odiata Amerika.
La malattia italiana che fa fuggire la Fiat, e tanti altri, sta nella risposta al quesito posto da Penati su la Repubblica: «Perché Sergio Marchionne, che a Detroit è considerato un eroe, è così detestato in Italia?». Nell'odio per Marchionne l'establishment italiano rivela tutta la propria viscerale avversione al capitalismo di mercato. Che Romiti, emblema della Fiat sussidiata degli anni '70-'80, si scagli contro di lui solidarizzando con la Fiom, che si è opposta fino alla via giudiziaria ai tentativi di rilancio della produttività nelle fabbriche, ne è la dimostrazione lampante. Si parla tanto di crescita, ma il paese sembra rigettare le uniche politiche capaci di rilanciarla. Dunque, quando dall'estero vedono l'establishment che marcia diviso per colpire unito su Marchionne, vedono un paese che in realtà non vuole crescere. E in un paese simile non si investe.
L'ad di Fiat ha fatto ciò che un manager deve fare in una economia di mercato: creare valore per i propri azionisti. In una certa misura c'è riuscito e s'è arricchito anche personalmente. Ma per la nostra cultura, intrisa di catto-comunismo fino al midollo, il successo nell'impresa e nella finanza è una colpa imperdonabile, perché deriva per forza di cose da un intollerabile e meschino sfruttamento dei più deboli. Tollerabile, invece, se deriva dal sussidio pubblico e dalle buone relazioni con i mondi consociativi della politica e della finanza. Persino un imprenditore ben inserito come Della Valle accusa i vertici Fiat di aver assunto «le scelte più convenienti per loro e i loro obiettivi, senza minimamente curarsi degli interessi e delle necessità del paese». Eppure proprio di questo dovrebbero occuparsi imprenditori e manager, mentre «degli interessi e delle necessità del paese» dovrebbero curarsi i governi e i politici. Auguriamo a Mister Tod's, che lancia l'epiteto di «furbetti cosmopoliti», di non dover un giorno dare conto di sue eventuali "furbate cosmopolite", magari in Romania o in Cina.
La Fiat, ampiamente sussidiata da tutti i governi della I e II Repubblica, ha cominciato ad essere invisa da quando è arrivato Marchionne, che ha iniziato a snobbare la politica e i suoi riti, a rivolgersi al paese parlando di produttività e non di incentivi a fondo perduto. Il piano industriale battezzato col nome di "Fabbrica Italia" non è stato negoziato né con i governi né con le parti sociali. Poneva degli obiettivi e le condizioni per raggiungerli: non assegni in bianco, ma un contesto di relazioni industriali e forme contrattuali che rilanciassero la produttività. Tra il prendere atto dell'eccesso di capacità produttiva (in Europa, non solo in Italia), e dunque chiudere subito le fabbriche, e scommettere su un paese ancora capace di essere competitivo, Marchionne ha scelto questa seconda strada, convinto che la ripresa fosse vicina. Fin dall'inizio era ben consapevole, certo, che il disimpegno dall'Italia restava un'opzione più che probabile, di fronte a condizioni avverse, ma diverso è presumere che fosse il suo obiettivo.
I fatti dicono che da quando Fiat ha annunciato il progetto "Fabbrica Italia", nell'aprile 2010, le condizioni sono «profondamente cambiate». Sia perché il mercato dell'auto nel frattempo è crollato (-40% rispetto al 2007; -20% solo nei primi 8 mesi del 2012), sia perché a 5 anni dall'inizio della crisi l'Italia non ha ancora adottato le riforme strutturali necessarie per far recuperare competitività al nostro sistema produttivo. Se c'è una colpa di Marchionne, è non aver previsto la crisi dell'eurodebito, che avrebbe innescato una recessione ben più strutturale di quella del 2009. Il colpo di grazia, poi, è stato assestato dalle politiche di risanamento a base di tasse e demagogia. Tra tassa sul lusso per far pagare i "ricchi", aumenti dell'Iva e patrimoniale immobiliare, la prima vittima della compressione dei redditi medio-alti è stato il mercato dell'auto. Sicuri che il gettito della tassa sul lusso sia superiore al mancato gettito Iva delle auto di grossa cilindrata non acquistate? E delle tasse sulla benzina che quelle auto non acquistate non hanno mai consumato per camminare?
Se è «impossibile» fare riferimento al progetto "Fabbrica Italia" non è solo per la crisi, ma come dimostrano altri drammatici casi, anche a causa delle nostre resistenze ai cambiamenti necessari per rendere produttivo investire in Italia. I costi dell'energia sono i più alti d'Europa, ma diciamo no a nucleare e rigassificatori. Per ciascun occupato si versa in tasse e contributi il 64% del pil pro capite, ma non vogliamo ridurre la spesa in pensioni e sanità. Il nostro mercato del lavoro è il più rigido d'Europa, ma guai a toccare l'articolo 18 e a parlare di contrattazione aziendale. "Marchionne risponda, non possiamo aspettare", sono le parole attribuite al ministro Fornero? Marchionne e gli investitori stranieri hanno in mente l'esatto opposto: "L'Italia risponda, non possiamo aspettare". In Italia ci sforziamo di tenere in vita con sussidi e incentivi settori e aziende non più produttivi, non di creare le condizioni economiche e legali più favorevoli agli investimenti. Non dovremmo chiamare a rapporto Marchionne, ma i nostri politici e tecnici, le nostre classi dirigenti: che piani avete voi per l'Italia? È da quelli che dipendono gli investimenti, non il contrario. Certo che un paese come il nostro deve avere un'industria automobilistica, ma non l'avrà per grazia ricevuta: se la vuole davvero deve creare le condizioni per renderla produttiva. Che si tratti di convincere Fiat a restare, o di attirare case automobilistiche straniere, le cose da fare sono le stesse.
Etichette:
capitalismo,
crisi,
della valle,
dirigismo,
fiat,
impresa,
italia,
libero mercato,
marchionne,
mercato del lavoro,
politica industriale,
ricchezza,
riforme,
sindacati,
spesa pubblica,
statalismo,
tasse
Wednesday, January 12, 2011
Quando il silenzio è d'oro
Berlusconi si schiera per l'accordo di Mirafiori e subito parte l'attacco congiunto Camusso-Bersani. Ha ricordato una cosa ovvia, che solo un cieco non vedrebbe: cioè che senza quell'accordo non ci sarebbero per la Fiat i presupposti per l'investimento nella fabbrica, e quindi neanche i posti di lavoro. Mentre su altri fronti è stato - ed è - deprecabile l'immobilismo del governo, al contrario di molti giudico positivamente che la più importante riforma nelle relazioni industriali da decenni stia avendo luogo tramite un accordo tra le parti, e il coinvolgimento dei lavoratori, mentre il governo, e più in generale la politica, restano sullo sfondo, relegati al ruolo di spettatori. E' uno di quegli ambiti della vita economica di un Paese dove un passo indietro della politica - non importa se consapevole e meditato o per debolezza - non può che far del bene, facilitando le cose sia alla Fiat (e alle altre aziende) che ai sindacati.
E' ovvio infatti che il governo non può non essere a favore dell'accordo, vitale per la competitività della nostra economia, ma essersi tenuto fuori dalle trattative, aver evitato i logori riti della "concertazione", ha permesso alle parti - o alla maggior parte di esse - di assumere un atteggiamento più costruttivo, di concentrarsi sugli aspetti concreti del problema, che altrimenti avrebbe corso il rischio, come in passato, di essere risucchiato in un vortice di logiche politiche più o meno incomprensibili che avrebbero portato molto lontano dalla soluzione. In queste ore, dopo che il premier ha rotto il silenzio, abbiamo avuto un assaggio di ciò che sarebbe potuto accadere se il governo avesse giocato un ruolo da protagonista nella vicenda.
Meglio così, dunque, meglio che sia rimasto in disparte, quasi mostrando disinteresse e pur suscitando critiche per la sua assenza. Tanto non avrebbe potuto fare di meglio di quanto stanno già facendo le parti interessate, almeno le più responsabili. Anzi, un suo intervento avrebbe potuto solo incancrenire la situazione.
La riforma Gelmini e gli accordi che Fiat sta perseguendo nelle sue fabbriche come condizioni sine qua non per investire in Italia sono due ottime cartine di tornasole della cifra riformista del Pd. E come volevasi dimostrare il Pd non ha superato il test. La forte opposizione alla Gelmini e la confusione, l'imbarazzo, quando non un mal celato fastidio nei confronti di Marchionne e un appiattimento sulle posizioni della Cgil, gettano la maschera di un partito profondamente conservatore, ancorato ad un'idea vecchia del lavoro e trincerato in difesa dell'indifendibile in campo economico-sociale. Un'arretratezza rispetto alla quale resta ancora preferibile l'immobilismo tremontiano.
E' ovvio infatti che il governo non può non essere a favore dell'accordo, vitale per la competitività della nostra economia, ma essersi tenuto fuori dalle trattative, aver evitato i logori riti della "concertazione", ha permesso alle parti - o alla maggior parte di esse - di assumere un atteggiamento più costruttivo, di concentrarsi sugli aspetti concreti del problema, che altrimenti avrebbe corso il rischio, come in passato, di essere risucchiato in un vortice di logiche politiche più o meno incomprensibili che avrebbero portato molto lontano dalla soluzione. In queste ore, dopo che il premier ha rotto il silenzio, abbiamo avuto un assaggio di ciò che sarebbe potuto accadere se il governo avesse giocato un ruolo da protagonista nella vicenda.
Meglio così, dunque, meglio che sia rimasto in disparte, quasi mostrando disinteresse e pur suscitando critiche per la sua assenza. Tanto non avrebbe potuto fare di meglio di quanto stanno già facendo le parti interessate, almeno le più responsabili. Anzi, un suo intervento avrebbe potuto solo incancrenire la situazione.
La riforma Gelmini e gli accordi che Fiat sta perseguendo nelle sue fabbriche come condizioni sine qua non per investire in Italia sono due ottime cartine di tornasole della cifra riformista del Pd. E come volevasi dimostrare il Pd non ha superato il test. La forte opposizione alla Gelmini e la confusione, l'imbarazzo, quando non un mal celato fastidio nei confronti di Marchionne e un appiattimento sulle posizioni della Cgil, gettano la maschera di un partito profondamente conservatore, ancorato ad un'idea vecchia del lavoro e trincerato in difesa dell'indifendibile in campo economico-sociale. Un'arretratezza rispetto alla quale resta ancora preferibile l'immobilismo tremontiano.
Friday, September 03, 2010
Una seria politica industriale. Sì, ma quale?
Siccome nel suo intervento di ieri il presidente Napolitano ha sottolineato la necessità di una politica industriale «nuovamente seria», sarebbe interessante sapere secondo lui quale sarebbe stata l'ultima «seria» che abbiamo avuto in Italia. Così, tanto per capire quali sono i suoi parametri di riferimento (sperando non siano quelli del Gosplan Komitet!). Già ieri, nella sua replica al capo dello Stato, il ministro Sacconi ha voluto maliziosamente adombrare quale potrebbero essere i punti di riferimento in base ai quali Napolitano ha espresso il suo giudizio: «Sono certo che nessuno vuole riproporre le fallimentari politiche industriali che nella seconda metà degli anni Settanta volle una sinistra dirigista con la pretesa di decidere quali settori fossero maturi e quali innovativi».
Questo governo poteva e può fare di più per affrontare e gestire la crisi? Sicuramente sì. Ha commesso un grave errore strategico non approfittando del contesto per realizzare, o quanto meno mettere nella sua agenda, riforme radicali e un più radicale intervento sulla spesa pubblica? Sicuramente sì. Ma quando qualcuno come Napolitano (ma anche i Bersani o i Casini) invoca una «seria» politica industriale, allora appaiono più rassicuranti le parole di Sacconi («nessun soggetto pubblico può sostituire l'autonoma funzione imprenditoriale»).
Se è vero che questo governo - e in particolare i ministri Tremonti e Sacconi - dovevano fare di più, è anche vero che solo chi la interpreta in modo dirigista può affermare che sia mancata una politica industriale. Il capo dello Stato, per esempio, cosa pensa del nuovo modello di contrattazione su cui, su impulso del governo, si sono accordati Confindustria, Cisl e Uil; e cosa pensa dell'accordo per Pomigliano, reso possibile da quella intesa? E cosa pensa del fatto che per la prima volta da anni la Fiat ha rinunciato ai sussidi statali?
Quando si sentono personaggi come Casini, Pisanu, Pomicino, ma anche i finiani, criticare Tremonti, come può la memoria non tornare al record non propriamente rassicurante dei democristiani e degli ex An nella gestione della spesa pubblica e sul capitolo tasse? Non solo nella Prima Repubblica i dc hanno contribuito al disastro del debito, e durante gli anni al governo tra il 2001 e il 2006 ex Dc ed ex An hanno remato contro quanto di liberale - già così poco - Berlusconi e Tremonti volevano fare, ma oggi, oltre a criticare, non dicono mai in modo chiaro (con l'apprezzabile eccezione di Baldassarri tra i finiani) cosa farebbero loro di diverso da quanto sta facendo il ministro dell'Economia. E da quel poco che lasciano intendere, il vero problema pare essere che Tremonti è «a pieno titolo arruolato nella Lega» e che svolge le funzioni di «5-6 ministeri della Prima repubblica», o al massimo della concretezza, il problema sono i precari, il federalismo "cattivo" con il Sud, o gli aiuti alle famiglie.
Adesso si fa un gran parlare del "modello Germania". In effetti, la Germania crescerà più di noi. Non sorprende e penso che dovremmo prendere appunti e imitare. Ma la sua ricetta per la ripresa è fatta di più rigore, più export (reso possibile da relazioni industriali volte a una maggiore produttività e competitività) e minore bolletta energetica (grazie alle centrali nucleari, di cui la Merkel ha di recente "prolungato la vita"). Eppure, quasi tutti i critici che indicano la Germania come esempio (pare di capire anche Napolitano), manifestano grandi resistenze su tutti e tre questi fronti, su cui il governo, sia pure troppo lentamente, sta tentando di procedere. Per una manovra di risparmi tutto sommato modesta la sinistra (con gran parte della stampa) si è stracciata le vesti. Ci si continua ad illudere sul rilancio dei consumi delle famiglie italiane come fattore di crescita, quando è ovvio che può aiutare, ma non farà mai più la differenza per portarci ai livelli di crescita tedeschi. Per non parlare del nucleare. E anche sulle relazioni industriali, al dunque, quando i nodi vengono davvero al pettine, si sta con la Fiom (persino Napolitano è scivolato su questo, prima di parlare di «seria» politica industriale) e contro il disperato tentativo di Fiat e dei sindacati più ragionevoli (Cisl e Uil) di far recuperare competività all'industria italiana.
Insomma, la credibilità di certe critiche dipende anche da quale pulpito provengono.
Questo governo poteva e può fare di più per affrontare e gestire la crisi? Sicuramente sì. Ha commesso un grave errore strategico non approfittando del contesto per realizzare, o quanto meno mettere nella sua agenda, riforme radicali e un più radicale intervento sulla spesa pubblica? Sicuramente sì. Ma quando qualcuno come Napolitano (ma anche i Bersani o i Casini) invoca una «seria» politica industriale, allora appaiono più rassicuranti le parole di Sacconi («nessun soggetto pubblico può sostituire l'autonoma funzione imprenditoriale»).
Se è vero che questo governo - e in particolare i ministri Tremonti e Sacconi - dovevano fare di più, è anche vero che solo chi la interpreta in modo dirigista può affermare che sia mancata una politica industriale. Il capo dello Stato, per esempio, cosa pensa del nuovo modello di contrattazione su cui, su impulso del governo, si sono accordati Confindustria, Cisl e Uil; e cosa pensa dell'accordo per Pomigliano, reso possibile da quella intesa? E cosa pensa del fatto che per la prima volta da anni la Fiat ha rinunciato ai sussidi statali?
Quando si sentono personaggi come Casini, Pisanu, Pomicino, ma anche i finiani, criticare Tremonti, come può la memoria non tornare al record non propriamente rassicurante dei democristiani e degli ex An nella gestione della spesa pubblica e sul capitolo tasse? Non solo nella Prima Repubblica i dc hanno contribuito al disastro del debito, e durante gli anni al governo tra il 2001 e il 2006 ex Dc ed ex An hanno remato contro quanto di liberale - già così poco - Berlusconi e Tremonti volevano fare, ma oggi, oltre a criticare, non dicono mai in modo chiaro (con l'apprezzabile eccezione di Baldassarri tra i finiani) cosa farebbero loro di diverso da quanto sta facendo il ministro dell'Economia. E da quel poco che lasciano intendere, il vero problema pare essere che Tremonti è «a pieno titolo arruolato nella Lega» e che svolge le funzioni di «5-6 ministeri della Prima repubblica», o al massimo della concretezza, il problema sono i precari, il federalismo "cattivo" con il Sud, o gli aiuti alle famiglie.
Adesso si fa un gran parlare del "modello Germania". In effetti, la Germania crescerà più di noi. Non sorprende e penso che dovremmo prendere appunti e imitare. Ma la sua ricetta per la ripresa è fatta di più rigore, più export (reso possibile da relazioni industriali volte a una maggiore produttività e competitività) e minore bolletta energetica (grazie alle centrali nucleari, di cui la Merkel ha di recente "prolungato la vita"). Eppure, quasi tutti i critici che indicano la Germania come esempio (pare di capire anche Napolitano), manifestano grandi resistenze su tutti e tre questi fronti, su cui il governo, sia pure troppo lentamente, sta tentando di procedere. Per una manovra di risparmi tutto sommato modesta la sinistra (con gran parte della stampa) si è stracciata le vesti. Ci si continua ad illudere sul rilancio dei consumi delle famiglie italiane come fattore di crescita, quando è ovvio che può aiutare, ma non farà mai più la differenza per portarci ai livelli di crescita tedeschi. Per non parlare del nucleare. E anche sulle relazioni industriali, al dunque, quando i nodi vengono davvero al pettine, si sta con la Fiom (persino Napolitano è scivolato su questo, prima di parlare di «seria» politica industriale) e contro il disperato tentativo di Fiat e dei sindacati più ragionevoli (Cisl e Uil) di far recuperare competività all'industria italiana.
Insomma, la credibilità di certe critiche dipende anche da quale pulpito provengono.
Wednesday, April 01, 2009
Il know how della Fiat a Chrysler
La Fiat ha già trasferito alla Chrysler il suo esclusivo know how: come "socializzare" le perdite. In questo a Torino sono leader mondiali.
«Bancarotta o no, qui il problema più grande - avvertiva ieri il Wall Street Journal - è la politica industriale di Washington. Anche se Chrysler approvasse la fusione e GM si ristrutturasse, Obama vuole che le due compagnie producano il tipo di auto che piace ai politici, non importa se i consumatori vogliono comprarle o meno. In altre parole, l'idea di politica industriale di Obama contrasta direttamente con una strategia per riportare al profitto le due compagnie prima possibile. Per aiutarle a vendere macchine indesiderate, Obama ha promesso che saranno i contribuenti a garantire. E ha sollecitato il Congresso ad approvare un nuovo programma di incentivi per l'acquisto di aiuto più pulite».
In poche parole, ci sta dicendo il WSJ, con la scusa di salvarle la Casa Bianca impone alle industrie automobilistiche una linea produttiva che risponde non alla domanda ma ad una posizione politica.
«Bancarotta o no, qui il problema più grande - avvertiva ieri il Wall Street Journal - è la politica industriale di Washington. Anche se Chrysler approvasse la fusione e GM si ristrutturasse, Obama vuole che le due compagnie producano il tipo di auto che piace ai politici, non importa se i consumatori vogliono comprarle o meno. In altre parole, l'idea di politica industriale di Obama contrasta direttamente con una strategia per riportare al profitto le due compagnie prima possibile. Per aiutarle a vendere macchine indesiderate, Obama ha promesso che saranno i contribuenti a garantire. E ha sollecitato il Congresso ad approvare un nuovo programma di incentivi per l'acquisto di aiuto più pulite».
In poche parole, ci sta dicendo il WSJ, con la scusa di salvarle la Casa Bianca impone alle industrie automobilistiche una linea produttiva che risponde non alla domanda ma ad una posizione politica.
Monday, February 05, 2007
Programma Draghi e «totalitarismo soft»
Meno tasse, meno spesa pubblica, riforma delle pensioni, concorrenza
Se sia o meno un programma "di opposizione" quello esposto dal Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi sabato scorso a Torino (testo integrale) dipende soprattutto dal Governo Prodi; da se, e da quanto, risponderà positivamente alle sollecitazioni che vi sono contenute.
Certo, i segnali di ieri non sono incoraggianti. A cominciare dal ministro Bersani, che sembra non avere alcuna intenzione di andare fino in fondo con le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali (a partire, per esempio, dall'acqua) e che non ritiene che si possano «brandire le riforme come una clava, neanche quella delle pensioni, neanche fossimo in emergenza...».
Soprattutto, quando sostiene che per le reti non occorre per forza la mano pubblica, ma un «radicamento nazionale», questo sì, sembra confermare i sospetti più inquietanti sul nuovo Fondo per le Infrastrutture: un'impresa ibrida, a capitale per lo più privato ma rigorosamente «italiano», però sotto il controllo del Ministero del Tesoro tramite la Cassa Depositi e Prestiti. Formalmente non un ente pubblico, ma, appunto, dalla carta d'identità «nazionale».
Vito Gamberale, manager statale di vecchia conoscenza chiamato a guidarlo, ha già annunciato al Corriere che questo Fondo intende partecipare alla governance di società che gestiscono strade, autostrade, parcheggi, porti, aeroporti, tratte ferroviarie, ma anche reti di trasmissione di elettricità, gas, telecomunicazioni.
Data la lista di acquisizioni ipotizzate, è più che lecito sospettare che dietro ci sia un'immensa operazione di potere. Il Fondo, a cui partecipano lo Stato e alcune banche amiche del presidente del Consiglio, controllerebbe una parte immensa della nostra economia, ma al di fuori delle regole di mercato, in regime di monopolio. Quindi, senza svolgere alcuna funzione imprenditoriale, ma assicurando ai partecipanti al Fondo grandi rendite. In che modo banche e fondazioni bancarie ricambieranno è facile immaginarlo.
«Il solo mercato che il governo sta aprendo è quello del favore politico, per il quale il mondo degli affari deve competere», scrive Carlo Stagnaro, dell'Istituto Bruno Leoni, sul Wall Street Journal.
Si riparla di «politica industriale», osserva con rassegnazione Piero Ostellino sul Corriere, che è poi «la versione moderna dell'esercizio feudale del potere politico centrale». Bloccata la fusione fra Autostrade e la spagnola Abertis; fissato un tetto alla raccolta pubblicitaria da parte di Mediaset; il Fondo infrastrutturale che «sembra preludere alla nazionalizzazione surrettizia delle reti distributive (luce, gas, telefoni, autostrade)»; la parziale privatizzazione di Alitalia, non con un'asta pubblica, ma con un negoziato privato le cui condizioni sono tali da poter interessare solo qualche finanziere che miri non al rilancio della compagnia, ma a farci su un po' di soldi rivendendola dopo qualche tempo.
Ancora più scoraggiante è vedere emergere una contrarietà bipartisan alle liberalizzazioni delle reti. All'unisono con Bersani, infatti, anche il presidente di An, Gianfranco Fini, chiudendo una conferenza programmatica proprio sui temi economici, ha sottolineato che «le reti strategiche devono restare pubbliche per ragioni di sicurezza», rivalutando persino il piano Rovati su Telecom. Si fanno largo anche nel centrodestra, grazie soprattutto all'anti-mercatista Tremonti e ad An, le posizioni stataliste che sembrano prevalere già nel centrosinistra.
Il Paese, conclude Ostellino descrivendo come meglio non si potrebbe i meccanismi di gestione del potere da parte del "regime", «affonda in un "totalitarismo soft" e neppure se ne accorge. I media ne sono la sindrome. E anche un po' la causa». Segue la tristissima replica di Sircana, portavoce del premier.
Se sia o meno un programma "di opposizione" quello esposto dal Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi sabato scorso a Torino (testo integrale) dipende soprattutto dal Governo Prodi; da se, e da quanto, risponderà positivamente alle sollecitazioni che vi sono contenute.
Certo, i segnali di ieri non sono incoraggianti. A cominciare dal ministro Bersani, che sembra non avere alcuna intenzione di andare fino in fondo con le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali (a partire, per esempio, dall'acqua) e che non ritiene che si possano «brandire le riforme come una clava, neanche quella delle pensioni, neanche fossimo in emergenza...».
Soprattutto, quando sostiene che per le reti non occorre per forza la mano pubblica, ma un «radicamento nazionale», questo sì, sembra confermare i sospetti più inquietanti sul nuovo Fondo per le Infrastrutture: un'impresa ibrida, a capitale per lo più privato ma rigorosamente «italiano», però sotto il controllo del Ministero del Tesoro tramite la Cassa Depositi e Prestiti. Formalmente non un ente pubblico, ma, appunto, dalla carta d'identità «nazionale».
Vito Gamberale, manager statale di vecchia conoscenza chiamato a guidarlo, ha già annunciato al Corriere che questo Fondo intende partecipare alla governance di società che gestiscono strade, autostrade, parcheggi, porti, aeroporti, tratte ferroviarie, ma anche reti di trasmissione di elettricità, gas, telecomunicazioni.
Data la lista di acquisizioni ipotizzate, è più che lecito sospettare che dietro ci sia un'immensa operazione di potere. Il Fondo, a cui partecipano lo Stato e alcune banche amiche del presidente del Consiglio, controllerebbe una parte immensa della nostra economia, ma al di fuori delle regole di mercato, in regime di monopolio. Quindi, senza svolgere alcuna funzione imprenditoriale, ma assicurando ai partecipanti al Fondo grandi rendite. In che modo banche e fondazioni bancarie ricambieranno è facile immaginarlo.
«Il solo mercato che il governo sta aprendo è quello del favore politico, per il quale il mondo degli affari deve competere», scrive Carlo Stagnaro, dell'Istituto Bruno Leoni, sul Wall Street Journal.
Si riparla di «politica industriale», osserva con rassegnazione Piero Ostellino sul Corriere, che è poi «la versione moderna dell'esercizio feudale del potere politico centrale». Bloccata la fusione fra Autostrade e la spagnola Abertis; fissato un tetto alla raccolta pubblicitaria da parte di Mediaset; il Fondo infrastrutturale che «sembra preludere alla nazionalizzazione surrettizia delle reti distributive (luce, gas, telefoni, autostrade)»; la parziale privatizzazione di Alitalia, non con un'asta pubblica, ma con un negoziato privato le cui condizioni sono tali da poter interessare solo qualche finanziere che miri non al rilancio della compagnia, ma a farci su un po' di soldi rivendendola dopo qualche tempo.
Ancora più scoraggiante è vedere emergere una contrarietà bipartisan alle liberalizzazioni delle reti. All'unisono con Bersani, infatti, anche il presidente di An, Gianfranco Fini, chiudendo una conferenza programmatica proprio sui temi economici, ha sottolineato che «le reti strategiche devono restare pubbliche per ragioni di sicurezza», rivalutando persino il piano Rovati su Telecom. Si fanno largo anche nel centrodestra, grazie soprattutto all'anti-mercatista Tremonti e ad An, le posizioni stataliste che sembrano prevalere già nel centrosinistra.
Il Paese, conclude Ostellino descrivendo come meglio non si potrebbe i meccanismi di gestione del potere da parte del "regime", «affonda in un "totalitarismo soft" e neppure se ne accorge. I media ne sono la sindrome. E anche un po' la causa». Segue la tristissima replica di Sircana, portavoce del premier.
Subscribe to:
Posts (Atom)