E' un po' di giorni che il Sole 24 Ore se ne occupa ma oggi lo fa con l'editoriale in prima pagina di Andrea Boitani. I già timidi e parziali provvedimenti di liberalizzazione previsti nei ddl Bersani e Lanzillotta si vanno svuotando ulteriormente. Le liberalizzazioni italiane «stanno deragliando». Come il marlin pescato da Santiago nel romanzo "Il vecchio e il mare", e lentamente divorato dai pescecani di passaggio, ne rimarrà solo la lisca. Evidenti i segni di «un grave arretramento politico e anche culturale all'interno delle stesse forze riformiste della maggioranza».
Eppure, come ha ricordato il Governatore Draghi nelle sue Considerazioni finali, «una maggiore concorrenza nei servizi pubblici, in particolare quelli locali, potrebbe contribuire alla crescita economica e al benessere dei consumatori, a cominciare da quelli a minor reddito».
Sulle aziende municipalizzate, veri e propri bacini di sfogo e clientelismo della classe politica, un compromesso al ribasso; vietate le gare nei servizi idrici, addirittura la «titolarità delle concessioni di derivazione delle acque pubbliche assegnata agli enti pubblici», una "nazionalizzazione" di fatto; lo stralcio degli articoli sull'abolizione del Pubblico registro automobilistico; ritirata la norma volta a togliere ai notai l'esclusiva nelle cessioni di immobili del valore catastale fino a 100mila euro; la scure del ministro Turco sulla vendita dei farmaci in supermercati e parafarmacie; i nuovi monopoli concessi ai tassisti. E tutto questo prima ancora che il ddl arrivi in Senato. Sparita dall'agenda, nel frattempo, la riforma delle Autorità indipendenti.
Insomma, «dalle lenzuolate stiamo arrivando ai fazzolettini».
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Thursday, June 07, 2007
Monday, February 05, 2007
Programma Draghi e «totalitarismo soft»
Meno tasse, meno spesa pubblica, riforma delle pensioni, concorrenza
Se sia o meno un programma "di opposizione" quello esposto dal Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi sabato scorso a Torino (testo integrale) dipende soprattutto dal Governo Prodi; da se, e da quanto, risponderà positivamente alle sollecitazioni che vi sono contenute.
Certo, i segnali di ieri non sono incoraggianti. A cominciare dal ministro Bersani, che sembra non avere alcuna intenzione di andare fino in fondo con le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali (a partire, per esempio, dall'acqua) e che non ritiene che si possano «brandire le riforme come una clava, neanche quella delle pensioni, neanche fossimo in emergenza...».
Soprattutto, quando sostiene che per le reti non occorre per forza la mano pubblica, ma un «radicamento nazionale», questo sì, sembra confermare i sospetti più inquietanti sul nuovo Fondo per le Infrastrutture: un'impresa ibrida, a capitale per lo più privato ma rigorosamente «italiano», però sotto il controllo del Ministero del Tesoro tramite la Cassa Depositi e Prestiti. Formalmente non un ente pubblico, ma, appunto, dalla carta d'identità «nazionale».
Vito Gamberale, manager statale di vecchia conoscenza chiamato a guidarlo, ha già annunciato al Corriere che questo Fondo intende partecipare alla governance di società che gestiscono strade, autostrade, parcheggi, porti, aeroporti, tratte ferroviarie, ma anche reti di trasmissione di elettricità, gas, telecomunicazioni.
Data la lista di acquisizioni ipotizzate, è più che lecito sospettare che dietro ci sia un'immensa operazione di potere. Il Fondo, a cui partecipano lo Stato e alcune banche amiche del presidente del Consiglio, controllerebbe una parte immensa della nostra economia, ma al di fuori delle regole di mercato, in regime di monopolio. Quindi, senza svolgere alcuna funzione imprenditoriale, ma assicurando ai partecipanti al Fondo grandi rendite. In che modo banche e fondazioni bancarie ricambieranno è facile immaginarlo.
«Il solo mercato che il governo sta aprendo è quello del favore politico, per il quale il mondo degli affari deve competere», scrive Carlo Stagnaro, dell'Istituto Bruno Leoni, sul Wall Street Journal.
Si riparla di «politica industriale», osserva con rassegnazione Piero Ostellino sul Corriere, che è poi «la versione moderna dell'esercizio feudale del potere politico centrale». Bloccata la fusione fra Autostrade e la spagnola Abertis; fissato un tetto alla raccolta pubblicitaria da parte di Mediaset; il Fondo infrastrutturale che «sembra preludere alla nazionalizzazione surrettizia delle reti distributive (luce, gas, telefoni, autostrade)»; la parziale privatizzazione di Alitalia, non con un'asta pubblica, ma con un negoziato privato le cui condizioni sono tali da poter interessare solo qualche finanziere che miri non al rilancio della compagnia, ma a farci su un po' di soldi rivendendola dopo qualche tempo.
Ancora più scoraggiante è vedere emergere una contrarietà bipartisan alle liberalizzazioni delle reti. All'unisono con Bersani, infatti, anche il presidente di An, Gianfranco Fini, chiudendo una conferenza programmatica proprio sui temi economici, ha sottolineato che «le reti strategiche devono restare pubbliche per ragioni di sicurezza», rivalutando persino il piano Rovati su Telecom. Si fanno largo anche nel centrodestra, grazie soprattutto all'anti-mercatista Tremonti e ad An, le posizioni stataliste che sembrano prevalere già nel centrosinistra.
Il Paese, conclude Ostellino descrivendo come meglio non si potrebbe i meccanismi di gestione del potere da parte del "regime", «affonda in un "totalitarismo soft" e neppure se ne accorge. I media ne sono la sindrome. E anche un po' la causa». Segue la tristissima replica di Sircana, portavoce del premier.
Se sia o meno un programma "di opposizione" quello esposto dal Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi sabato scorso a Torino (testo integrale) dipende soprattutto dal Governo Prodi; da se, e da quanto, risponderà positivamente alle sollecitazioni che vi sono contenute.
Certo, i segnali di ieri non sono incoraggianti. A cominciare dal ministro Bersani, che sembra non avere alcuna intenzione di andare fino in fondo con le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali (a partire, per esempio, dall'acqua) e che non ritiene che si possano «brandire le riforme come una clava, neanche quella delle pensioni, neanche fossimo in emergenza...».
Soprattutto, quando sostiene che per le reti non occorre per forza la mano pubblica, ma un «radicamento nazionale», questo sì, sembra confermare i sospetti più inquietanti sul nuovo Fondo per le Infrastrutture: un'impresa ibrida, a capitale per lo più privato ma rigorosamente «italiano», però sotto il controllo del Ministero del Tesoro tramite la Cassa Depositi e Prestiti. Formalmente non un ente pubblico, ma, appunto, dalla carta d'identità «nazionale».
Vito Gamberale, manager statale di vecchia conoscenza chiamato a guidarlo, ha già annunciato al Corriere che questo Fondo intende partecipare alla governance di società che gestiscono strade, autostrade, parcheggi, porti, aeroporti, tratte ferroviarie, ma anche reti di trasmissione di elettricità, gas, telecomunicazioni.
Data la lista di acquisizioni ipotizzate, è più che lecito sospettare che dietro ci sia un'immensa operazione di potere. Il Fondo, a cui partecipano lo Stato e alcune banche amiche del presidente del Consiglio, controllerebbe una parte immensa della nostra economia, ma al di fuori delle regole di mercato, in regime di monopolio. Quindi, senza svolgere alcuna funzione imprenditoriale, ma assicurando ai partecipanti al Fondo grandi rendite. In che modo banche e fondazioni bancarie ricambieranno è facile immaginarlo.
«Il solo mercato che il governo sta aprendo è quello del favore politico, per il quale il mondo degli affari deve competere», scrive Carlo Stagnaro, dell'Istituto Bruno Leoni, sul Wall Street Journal.
Si riparla di «politica industriale», osserva con rassegnazione Piero Ostellino sul Corriere, che è poi «la versione moderna dell'esercizio feudale del potere politico centrale». Bloccata la fusione fra Autostrade e la spagnola Abertis; fissato un tetto alla raccolta pubblicitaria da parte di Mediaset; il Fondo infrastrutturale che «sembra preludere alla nazionalizzazione surrettizia delle reti distributive (luce, gas, telefoni, autostrade)»; la parziale privatizzazione di Alitalia, non con un'asta pubblica, ma con un negoziato privato le cui condizioni sono tali da poter interessare solo qualche finanziere che miri non al rilancio della compagnia, ma a farci su un po' di soldi rivendendola dopo qualche tempo.
Ancora più scoraggiante è vedere emergere una contrarietà bipartisan alle liberalizzazioni delle reti. All'unisono con Bersani, infatti, anche il presidente di An, Gianfranco Fini, chiudendo una conferenza programmatica proprio sui temi economici, ha sottolineato che «le reti strategiche devono restare pubbliche per ragioni di sicurezza», rivalutando persino il piano Rovati su Telecom. Si fanno largo anche nel centrodestra, grazie soprattutto all'anti-mercatista Tremonti e ad An, le posizioni stataliste che sembrano prevalere già nel centrosinistra.
Il Paese, conclude Ostellino descrivendo come meglio non si potrebbe i meccanismi di gestione del potere da parte del "regime", «affonda in un "totalitarismo soft" e neppure se ne accorge. I media ne sono la sindrome. E anche un po' la causa». Segue la tristissima replica di Sircana, portavoce del premier.
Monday, January 29, 2007
E intanto Prodi ricostituisce il suo impero pubblico
Se ne sono accorti in due. Giavazzi, sul Corriere, e Debenedetti, sul Sole. Nei giorni scorsi è stato varato dal Governo un provvedimento, sapientemente nascosto sotto le "lenzuolate" di Bersani, che è in realtà una gigantesca operazione di potere: l'istituzione di un Fondo italiano per le Infrastrutture, nel quale investiranno la Cassa depositi e prestiti (Ministero del Tesoro), le nostre maggiori banche e fondazioni bancarie.
Giavazzi l'ha bollato come «capitalismo di stato». Perché, si è chiesto mettendo il dito nella piaga, ci sono banche che «anziché creare un proprio fondo, come Macquarie o Carlyle, ne sottoscrivono uno la cui regia è saldamente in mano al governo e la cui guida è affidata a Vito Gamberale, già manager delle Partecipazioni statali, poi passato dalla parte dei "cattivi rentier" di Autostrade e ora redento?» Che cosa pensano di ricavarne in cambio queste banche?
Il «motivo contingente» che ha indotto il Governo a creare il nuovo Fondo, osserva l'economista, «è la decisione dell'Antitrust che impone alla Cassa depositi e prestiti di cedere o la partecipazione in Enel o quella in Terna, la società che possiede la rete elettrica. Per non perdere il controllo né dell'una né dell'altra, Terna sarà trasferita al nuovo fondo e quindi rimarrà nella sfera pubblica».
Ma non finisce qui. «Senza gare e finanziato da banche amiche (ora si capisce perché il governo ha applaudito alla nascita di Intesa-San Paolo) il fondo crescerà: dopo Terna, acquisterà la partecipazione dell'Eni in Snam Rete Gas, poi la rete fissa di Telecom Italia...» e così via. Insomma, la nuova Iri sarà una realtà. Prodi riavrà il suo impero pubblico.
Anche Debenedetti, sul Sole 24 Ore, si chiede che interesse abbiano queste banche nell'investire il loro denaro a interessi un po' più bassi di quelli di mercato. Forse quello di incassare i futuri e sicuri profitti dei monopoli pubblici? E avverte che il pericolo è di tornare «agli anni della pianificazione, ai non rimpianti tempi delle partecipazioni statali», riproducendo il «paradigma culturale della programmazione anni '70», con una «pervasività quale neppure aveva l'Iri».
Mentre noi inseguiamo le briciole di Bersani e ci scanniamo sui Pacs, loro si mettono in saccoccia l'economia italiana.
Giavazzi l'ha bollato come «capitalismo di stato». Perché, si è chiesto mettendo il dito nella piaga, ci sono banche che «anziché creare un proprio fondo, come Macquarie o Carlyle, ne sottoscrivono uno la cui regia è saldamente in mano al governo e la cui guida è affidata a Vito Gamberale, già manager delle Partecipazioni statali, poi passato dalla parte dei "cattivi rentier" di Autostrade e ora redento?» Che cosa pensano di ricavarne in cambio queste banche?
Il «motivo contingente» che ha indotto il Governo a creare il nuovo Fondo, osserva l'economista, «è la decisione dell'Antitrust che impone alla Cassa depositi e prestiti di cedere o la partecipazione in Enel o quella in Terna, la società che possiede la rete elettrica. Per non perdere il controllo né dell'una né dell'altra, Terna sarà trasferita al nuovo fondo e quindi rimarrà nella sfera pubblica».
Ma non finisce qui. «Senza gare e finanziato da banche amiche (ora si capisce perché il governo ha applaudito alla nascita di Intesa-San Paolo) il fondo crescerà: dopo Terna, acquisterà la partecipazione dell'Eni in Snam Rete Gas, poi la rete fissa di Telecom Italia...» e così via. Insomma, la nuova Iri sarà una realtà. Prodi riavrà il suo impero pubblico.
Anche Debenedetti, sul Sole 24 Ore, si chiede che interesse abbiano queste banche nell'investire il loro denaro a interessi un po' più bassi di quelli di mercato. Forse quello di incassare i futuri e sicuri profitti dei monopoli pubblici? E avverte che il pericolo è di tornare «agli anni della pianificazione, ai non rimpianti tempi delle partecipazioni statali», riproducendo il «paradigma culturale della programmazione anni '70», con una «pervasività quale neppure aveva l'Iri».
Mentre noi inseguiamo le briciole di Bersani e ci scanniamo sui Pacs, loro si mettono in saccoccia l'economia italiana.
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