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Monday, February 05, 2007

Programma Draghi e «totalitarismo soft»

Meno tasse, meno spesa pubblica, riforma delle pensioni, concorrenza

Se sia o meno un programma "di opposizione" quello esposto dal Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi sabato scorso a Torino (testo integrale) dipende soprattutto dal Governo Prodi; da se, e da quanto, risponderà positivamente alle sollecitazioni che vi sono contenute.

Certo, i segnali di ieri non sono incoraggianti. A cominciare dal ministro Bersani, che sembra non avere alcuna intenzione di andare fino in fondo con le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali (a partire, per esempio, dall'acqua) e che non ritiene che si possano «brandire le riforme come una clava, neanche quella delle pensioni, neanche fossimo in emergenza...».

Soprattutto, quando sostiene che per le reti non occorre per forza la mano pubblica, ma un «radicamento nazionale», questo sì, sembra confermare i sospetti più inquietanti sul nuovo Fondo per le Infrastrutture: un'impresa ibrida, a capitale per lo più privato ma rigorosamente «italiano», però sotto il controllo del Ministero del Tesoro tramite la Cassa Depositi e Prestiti. Formalmente non un ente pubblico, ma, appunto, dalla carta d'identità «nazionale».

Vito Gamberale, manager statale di vecchia conoscenza chiamato a guidarlo, ha già annunciato al Corriere che questo Fondo intende partecipare alla governance di società che gestiscono strade, autostrade, parcheggi, porti, aeroporti, tratte ferroviarie, ma anche reti di trasmissione di elettricità, gas, telecomunicazioni.

Data la lista di acquisizioni ipotizzate, è più che lecito sospettare che dietro ci sia un'immensa operazione di potere. Il Fondo, a cui partecipano lo Stato e alcune banche amiche del presidente del Consiglio, controllerebbe una parte immensa della nostra economia, ma al di fuori delle regole di mercato, in regime di monopolio. Quindi, senza svolgere alcuna funzione imprenditoriale, ma assicurando ai partecipanti al Fondo grandi rendite. In che modo banche e fondazioni bancarie ricambieranno è facile immaginarlo.

«Il solo mercato che il governo sta aprendo è quello del favore politico, per il quale il mondo degli affari deve competere», scrive Carlo Stagnaro, dell'Istituto Bruno Leoni, sul Wall Street Journal.

Si riparla di «politica industriale», osserva con rassegnazione Piero Ostellino sul Corriere, che è poi «la versione moderna dell'esercizio feudale del potere politico centrale». Bloccata la fusione fra Autostrade e la spagnola Abertis; fissato un tetto alla raccolta pubblicitaria da parte di Mediaset; il Fondo infrastrutturale che «sembra preludere alla nazionalizzazione surrettizia delle reti distributive (luce, gas, telefoni, autostrade)»; la parziale privatizzazione di Alitalia, non con un'asta pubblica, ma con un negoziato privato le cui condizioni sono tali da poter interessare solo qualche finanziere che miri non al rilancio della compagnia, ma a farci su un po' di soldi rivendendola dopo qualche tempo.

Ancora più scoraggiante è vedere emergere una contrarietà bipartisan alle liberalizzazioni delle reti. All'unisono con Bersani, infatti, anche il presidente di An, Gianfranco Fini, chiudendo una conferenza programmatica proprio sui temi economici, ha sottolineato che «le reti strategiche devono restare pubbliche per ragioni di sicurezza», rivalutando persino il piano Rovati su Telecom. Si fanno largo anche nel centrodestra, grazie soprattutto all'anti-mercatista Tremonti e ad An, le posizioni stataliste che sembrano prevalere già nel centrosinistra.

Il Paese, conclude Ostellino descrivendo come meglio non si potrebbe i meccanismi di gestione del potere da parte del "regime", «affonda in un "totalitarismo soft" e neppure se ne accorge. I media ne sono la sindrome. E anche un po' la causa». Segue la tristissima replica di Sircana, portavoce del premier.