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Friday, September 03, 2010

Una seria politica industriale. Sì, ma quale?

Siccome nel suo intervento di ieri il presidente Napolitano ha sottolineato la necessità di una politica industriale «nuovamente seria», sarebbe interessante sapere secondo lui quale sarebbe stata l'ultima «seria» che abbiamo avuto in Italia. Così, tanto per capire quali sono i suoi parametri di riferimento (sperando non siano quelli del Gosplan Komitet!). Già ieri, nella sua replica al capo dello Stato, il ministro Sacconi ha voluto maliziosamente adombrare quale potrebbero essere i punti di riferimento in base ai quali Napolitano ha espresso il suo giudizio: «Sono certo che nessuno vuole riproporre le fallimentari politiche industriali che nella seconda metà degli anni Settanta volle una sinistra dirigista con la pretesa di decidere quali settori fossero maturi e quali innovativi».

Questo governo poteva e può fare di più per affrontare e gestire la crisi? Sicuramente sì. Ha commesso un grave errore strategico non approfittando del contesto per realizzare, o quanto meno mettere nella sua agenda, riforme radicali e un più radicale intervento sulla spesa pubblica? Sicuramente sì. Ma quando qualcuno come Napolitano (ma anche i Bersani o i Casini) invoca una «seria» politica industriale, allora appaiono più rassicuranti le parole di Sacconi («nessun soggetto pubblico può sostituire l'autonoma funzione imprenditoriale»).

Se è vero che questo governo - e in particolare i ministri Tremonti e Sacconi - dovevano fare di più, è anche vero che solo chi la interpreta in modo dirigista può affermare che sia mancata una politica industriale. Il capo dello Stato, per esempio, cosa pensa del nuovo modello di contrattazione su cui, su impulso del governo, si sono accordati Confindustria, Cisl e Uil; e cosa pensa dell'accordo per Pomigliano, reso possibile da quella intesa? E cosa pensa del fatto che per la prima volta da anni la Fiat ha rinunciato ai sussidi statali?

Quando si sentono personaggi come Casini, Pisanu, Pomicino, ma anche i finiani, criticare Tremonti, come può la memoria non tornare al record non propriamente rassicurante dei democristiani e degli ex An nella gestione della spesa pubblica e sul capitolo tasse? Non solo nella Prima Repubblica i dc hanno contribuito al disastro del debito, e durante gli anni al governo tra il 2001 e il 2006 ex Dc ed ex An hanno remato contro quanto di liberale - già così poco - Berlusconi e Tremonti volevano fare, ma oggi, oltre a criticare, non dicono mai in modo chiaro (con l'apprezzabile eccezione di Baldassarri tra i finiani) cosa farebbero loro di diverso da quanto sta facendo il ministro dell'Economia. E da quel poco che lasciano intendere, il vero problema pare essere che Tremonti è «a pieno titolo arruolato nella Lega» e che svolge le funzioni di «5-6 ministeri della Prima repubblica», o al massimo della concretezza, il problema sono i precari, il federalismo "cattivo" con il Sud, o gli aiuti alle famiglie.

Adesso si fa un gran parlare del "modello Germania". In effetti, la Germania crescerà più di noi. Non sorprende e penso che dovremmo prendere appunti e imitare. Ma la sua ricetta per la ripresa è fatta di più rigore, più export (reso possibile da relazioni industriali volte a una maggiore produttività e competitività) e minore bolletta energetica (grazie alle centrali nucleari, di cui la Merkel ha di recente "prolungato la vita"). Eppure, quasi tutti i critici che indicano la Germania come esempio (pare di capire anche Napolitano), manifestano grandi resistenze su tutti e tre questi fronti, su cui il governo, sia pure troppo lentamente, sta tentando di procedere. Per una manovra di risparmi tutto sommato modesta la sinistra (con gran parte della stampa) si è stracciata le vesti. Ci si continua ad illudere sul rilancio dei consumi delle famiglie italiane come fattore di crescita, quando è ovvio che può aiutare, ma non farà mai più la differenza per portarci ai livelli di crescita tedeschi. Per non parlare del nucleare. E anche sulle relazioni industriali, al dunque, quando i nodi vengono davvero al pettine, si sta con la Fiom (persino Napolitano è scivolato su questo, prima di parlare di «seria» politica industriale) e contro il disperato tentativo di Fiat e dei sindacati più ragionevoli (Cisl e Uil) di far recuperare competività all'industria italiana.

Insomma, la credibilità di certe critiche dipende anche da quale pulpito provengono.

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