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Thursday, September 09, 2010

Fini liberale? Wishful thinking

Per chi sa guardare oltre i tatticismi, oltre le dissimulazioni, dal discorso di Fini a Mirabello avrà percepito non solo l'astio antiberlusconiano che ormai spinge il presidente della Camera, ma anche la vera natura di Fli dal punto di vista dei contenuti politici. Somiglia molto alla vecchia An per quanto riguarda le concezioni economiche (i riflessi, direi) e gli interessi cui intende rivolgersi, conserva lo stesso retropensiero anti-federalista, mentre riguardo la Costituzione e l'assetto istituzionale ha abbandonato l'approccio riformatore che ha sempre contraddistinto il centrodestra - e in particolare Fini (da sempre presidenzialista) - per assumere una posizione conservatrice molto simile a quella espressa da Violante nel Pd: prima parte della Carta «intangibile», mentre per il sistema di governo non si va più in là di un semplice rafforzamento contestuale (in concreto ancora da definire) sia dell'esecutivo che del Parlamento. Questo spostamento, secondo Panebianco, è «ciò che più ha accreditato Fini presso la sinistra e, più in generale, presso tutti coloro che nella Costituzione così come è vedono un argine contro il "cesarismo" in generale, e quello berlusconiano in particolare». Sull'immigrazione Fini ha sfumato molto, da quando accusava il governo di violare i diritti umani, mentre di bioetica non c'è più traccia nei suoi discorsi.

Il discorso a Mirabello, da molti definito un "manifesto", non ha convinto, alcuni osservatori. Tra questi, appunto Angelo Panebianco, che alcuni giorni fa sul Corriere della Sera, oltre ad appuntare «qualche tatticismo» e le «molte cose» apparse fra loro «piuttosto eterogenee», perché rivolte a spezzoni diversi di elettorato, in particolare segnalava l'ambiguità del presidente della Camera sulle riforme istituzionali e della giustizia e sul federalismo fiscale, chiedendo di chiarire se avesse abbandonato le storiche istanze riformatrici del centrodestra (presidenzialismo o premierato, e separazione delle carriere e del Csm) e osservando come nel suo discorso avesse «annacquato» il federalismo fiscale evocando un «federalismo solidale».

Oggi Fini risponde a Panebianco, il quale ringrazia, ma non si dice convinto: «I miei dubbi permangono». Dopo aver proclamato «l'intangibilità» dei principi sanciti nella prima parte della Costituzione, riguardo la necessaria riforma della seconda Fini osserva che «la salvaguardia della possibilità di scelta, da parte degli elettori, della coalizione di governo e la necessità di conferire maggiore incisività e stabilità all'esecutivo non devono necessariamente comportare il ridimensionamento o, peggio ancora, l'abbandono del modello di democrazia parlamentare»; e spiega, dunque, che occorre «aumentare contestualmente la capacità deliberativa e di controllo del Parlamento e quella decisionale del Governo e di farlo in un quadro di rispettiva ed armoniosa crescita dei ruoli, per garantire una più efficiente funzionalità del sistema che non può esaurirsi, come sempre più spesso si sostiene, nel momento elettorale». Da sempre personalmente a favore del presidenzialismo, Fini ora sembra optare per il parlamentarismo. Volendo restare in questo ambito, il politologo osserva che però «rafforzare contemporaneamente la capacità deliberativa del Parlamento e quella decisionale del governo è molto difficile nell'ambito delle democrazie parlamentari (il caso dei presidenzialismi è ovviamente diverso). Le democrazie parlamentari oscillano, in genere, fra sistemi con parlamenti forti (la 'centralità') e governi deboli e sistemi con governi forti e parlamenti deboli o subordinati. È difficile trovare una terza via».

Riguardo il secondo appunto, sul federalismo fiscale, Fini conferma il suo approccio di fondo di un «federalismo solidale», sottolineando la necessità di «meccanismi di perequazione, in grado, se gestiti a livello centrale e in modo imparziale, di ridurre il divario esistente, e non più tollerabile, tra le aree del Paese maggiormente sviluppate e quelle affette da ritardi storici». Chiarimento che non supera la diffidenza di Panebianco, che nella sua replica ribadisce: «Se si segue la strada degli interventi perequativi (per il Mezzogiorno), occorre anche indicare come impedire che tali interventi servano più a conservare gli antichi vizi che a stimolare le nuove virtù».

Anche a Il Foglio, giornale che in questi mesi non ha mostrato antipatia nei confronti di Fini e, anzi, si è fatto promotore di una linea della ricomposizione e della coesistenza, non è piaciuto il discorso pronunciato dal presidente della Camera a Mirabello, «troppo lungo, una lingua di legno ricca di frasi fatte». Certo, un discorso «tecnicamente a posto, politicamente anche abile, con il solito passaggio del cerino agli interlocutori», ma «poco per dare un senso e una visione». «Fini - si osserva in uno degli editoriali a pagina tre - era diventato interessante quando aveva reagito individualisticamente e con le idee all'isolamento politico... Un dissenso controllato, un'altra versione normalizzante della destra italiana: erano cose che valeva la pena di sperimentare nel dorato mondo del berlusconismo plebiscitario. Un discorso da leader di una piccola formazione che cerca spazio nella maggioranza o altrove segna un ritorno al passato».

Oltre a Panebianco e al Foglio, arriva un giudizio ancora più severo, quello del sociologo Luca Ricolfi, non certo tenero con il governo Berlusconi. Intervistato da il Giornale, sottolinea la natura illiberale e assistenzialista del movimento finiano. I «temi discriminanti» per un partito che si proclama liberale («quelli dell'economia, meno tasse e meno spesa pubblica improduttiva») non sono del tutto assenti, osserva riferendosi alle posizioni di Baldassarri, ma «hanno un peso minore, sono come sommersi dall'impostazione antifederalista». Fli, spiega Ricolfi, è forse più liberale del Pdl sul dissenso interno, i diritti civili e la concezione delle istituzioni e dello stato di diritto, ma «se si va alla sostanza, ossia alla politica economica, è il partito di Fini che soccombe nettamente, perché la visione di Berlusconi - per quanto lontana dal liberalismo - è comunque più liberale di quella di Fini». Dunque, Fli è «l'ennesimo partito della spesa pubblica» e «non potrebbe essere diversamente per un partito che prende i voti soprattutto dal Lazio in giù».

In merito all'idea di Fini di un «federalismo solidale», Ricolfi sottolinea che «l'unica questione è di trovare il modo di far funzionare il federalismo, non certo di annacquarlo ulteriormente» e conclude che i leghisti che vedono nel movimento di Fini un partito «sudista-assistenzialista» «non hanno qualche ragione, hanno tutte le ragioni». Se intorno al presidente della Camera si stanno coagulando molte aspettative, è perché «molte persone di destra istruite sognano un partito conservatore classico, europeo, possibilmente liberale e di massa. E appena qualcuno glielo promette - osserva Ricolfi - ci credono con fanciullesca fiducia», ma si tratta di un «wishful thinking», sono «pie illusioni». Pesante il paragone usato per definire la natura delle mosse dell'ex leader di An: «Fini, come D'Alema, è un tattico, molto abile a gestire il breve periodo ma poco incline a pensare nel registro della lunga durata». Il sociologo stima un eventuale partito di Fini non oltre il 5 per cento e tra un futuro da nuovo leader del centrodestra italiano o da leader di «un partitino in una coalizione "marmellata" con Rutelli, Casini e gli altri», vede più probabile la seconda ipotesi.

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