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Thursday, September 23, 2010

Le impronte non sono della politica

Se diffidate - comprensibilmente, non essendo certo disinteressate - delle parole di Geronzi (a la Repubblica) e Rampl (nella sua lettera ai dipendenti), dopo Giannino anche un osservatore intellettualmente onesto e indipendente come Franco Debenedetti, sul Sole24Ore, sostiene che con l'estrmossionie di Profumo dalla guida di Unicredit la politica non c'entra nulla.
«La colpa di Alessandro Profumo sarebbe quella di essersi voluto scegliere il padrone, usando i soldi dei libici per ridurre il potere delle fondazioni, e poi trovare nel mercato il sostegno della propria leadership. Molte banche blasonate, si sono rivolte ai fondi sovrani. Ma il parallelo finisce lì: perché le altre grandi banche poi hanno fatto aumenti di capitale sul mercato a condizioni penalizzanti per gli azionisti, che quindi hanno cacciato i ceo, mentre Profumo i soldi li aveva chiesti non al mercato, ma alle Fondazioni e a condizioni non proprio di favore. Queste non avevano avuto timore di diluirsi per sostenere Profumo nella politica di acquisizioni, l'hanno alla fine seguito anche su una organizzazione che pure riduce il loro il potere locale. Perché adesso hanno cambiato orientamento: solo perché Profumo non ha saputo (o voluto? o potuto?) spiegare il senso dell'operazione? Non regge la spiegazione come colpo di coda del capitalismo di relazione, ancor meno quella del complotto politico. A lasciare "le impronte digitali" sono stati i consiglieri, quelli delle fondazioni e quelli tedeschi: tutti allineati nel fare un favore alla Lega (ancor prima che nominasse i consiglieri di competenza) o a Berlusconi? Con Ligresti che vota a favore di Profumo come copertura? Anche nei riguardi della politica del governo, Profumo si è costruito un'immagine di indipendenza: si è tirato fuori dal "salotto" di Via Solferino, e si è rifiutato di entrare nelle sistemazioni di Telecom e di Alitalia. Ma su cose di sostanza come la defenestrazione di Maranghi, o l'acquisto di Capitalia ha prestato alla politica tutta l'attenzione del caso... Né risultano sue opposizioni alla vendita di Mediocredito Centrale al Tesoro...

Prima di cercare le cause nelle nostre anomalie, quella della politica o quella del nostro sistema di governance capitalistica, incominciamo a cercarlo nella normalità: gli azionisti cambiano il management quando non sono contenti di quello che ha fatto e non sono convinti di quello che intende fare. Anche a chi guarda le cose dall'esterno, sembra che abbiano motivi per non essere contenti. Unicredito in quanto a sedi e sportelli è l'unica nostra banca europea, ma non è europea la sua struttura di management: in questa emergenza le deleghe operative sono paradossalmente nelle mani di coloro che reggevano la banca tedesca, sostanzialmente fallita quando Profumo la comperò. E il cambio di governance pare venga affrontato senza avere nessuna idea sulle tante opzioni strategiche che si possono immaginare per riportare la banca ai risultati economici che è lecito attendersi. Leggere l'avvicendamento di un Ceo come la metafora bancaria del cambiamento di governance del Paese che è nell'aria, spiega poco e confonde molto. Vedere invece nel modo con cui viene interpretato da chi sta fuori e affrontato da chi sta dentro un'altra manifestazione dell'incertezza del Paese verso il suo futuro economico e sociale, è purtroppo più che giustificato».

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