Dietro la vittoria tattica di Fini, ieri alla Camera, poco o nulla è cambiato. Da una parte, i suoi calcoli si stanno compiendo: la "terza gamba" della maggioranza è ormai nei fatti. Dopo la breve parentesi nel Pdl si è ricostruito una casuccia tutta sua da cui ricominciare a logorare l'invidiato Berlusconi. Un esito a cui, a quanto pare, Berlusconi per ora non può sottrarsi, ha il dovere di provare ad andare avanti. Ha dovuto subire Fini e Casini tra il 2001 e il 2006; dovrà subire Fini adesso. Inutile accapigliarsi sui numeri, autosufficienza o no è facile prevedere che i finiani quanto meno alla Camera hanno i numeri che bastano, e la volontà, di proseguire con la guerriglia nel lavoro quotidiano delle commissioni e dell'aula e sui media. Partito di governo e al tempo stesso di lotta, possibile solo nel nostro un po' bizzarro e sconclusionato sistema politico. Per di più, Fini continuerà a esercitare anche una terza parte (o parte terza?) in commedia, quella in teoria neutra e di garanzia di presidente della Camera, pulpito autorevole (?) dal quale potrà continuare a picconare il governo a cui ha appena rinnovato la fiducia. La tattica è più o meno quella della legislatura 2001-2006: logorare. E' diversa solo la nostra pazienza (è diminuita).
Ma la fiducia di ieri, e l'ormai prossimo lancio del partito, sono anche un'assunzione di responsabilità. I finiani saranno sì decisivi, ma rischiano di esserlo in negativo. Ma per un certo verso Fini è anche in un vicolo cieco: l'impressione infatti è che i finiani moderati non staccheranno mai la spina al governo, e forse non si presteranno neanche alla guerriglia; ma da Fini la sinistra e alcuni giornali si aspettano che assesti la spallata decisiva a Berlusconi, aprendo le porte a un governo tecnico, e che si opponga a certe leggi. Se non si dimostrerà in grado di farlo - e si tratta di operazioni politicamente molto costose - potrebbero venir meno certe protezioni e sponde di cui ha goduto.
Berlusconi non può farci niente, se non, come ho già scritto, giocarsi il tutto per tutto sulle riforme, andare avanti "all in" dopo "all in". In questo modo, delle due l'una: o va avanti portando a casa le riforme che servono al Paese; o si immola, ma su qualcosa per cui valga la pena e vendendo cara la pelle. Ma essenziale, ora, che recuperi il controllo dell'agenda e del dibattito politico, che si torni a discutere - bene o male che sia - di cose che il governo "fa".
Quello di Fini è un disegno messo a punto a tavolino che si rischia di non scorgere nella sua interezza se non si allarga lo sguardo ad una prospettiva temporale piuttosto ampia. Dopo aver respinto in modo sprezzante («siamo alle comiche finali») l'annuncio del "predellino" - convinto che il governo Prodi tenesse, e quindi che negli anni la leadership di Berlusconi non avrebbe retto - è costretto nell'imminenza delle elezioni anticipate ad aderire al progetto del Pdl (fuori avrebbe fatto la fine di Casini e comunque la maggior parte di An non lo avrebbe seguito), ma con il retropensiero di ricostituire appena possibile un suo partito, e quindi il vecchio assetto della Cdl che il progetto del partito unico si era proposto di superare, recuperando posizioni di rendita e potere di ricatto. Ecco perché ha deciso di non condividere la responsabilità di governo, né di assumere un ruolo di vertice nel partito, ma di sistemarsi alla presidenza della Camera, il podio ideale - come dimostra la storia recente - per condurre guerre di logoramento.
Significative due accelerazioni: la prima, quando Berlusconi ha vinto alla grande le regionali. Pur avendo mancato la scommessa sulla sua sconfitta, Fini decide di imprimere comunque, per motivi solo apparentemente inspiegabili, una svolta decisiva a quelli che fino ad allora erano stati distinguo e controcanti inoppurtuni, considerando la carica che ricopre, ma pur sempre compatibili con una normale dialettica interna alla maggioranza. Da lì in poi la critica al governo e al Pdl si fa continua e a 360 gradi, dirompente, andando a toccare le radici stesse del "berlusconismo". Fini si erge a paladino della legalità, contrapposta alla presunta impunità del Pdl, flirta con gli accusatori di Berlusconi, e arriva alla minaccia di costituire gruppi parlamentari autonomi. Tutti si chiedono perché questo strappo proprio all'indomani di una vittoria elettorale. Già, perché?
E' questo l'interrogativo chiave. Da quel momento in poi le intenzioni di Fini non possono più essere fraintese. Non c'entra più il diritto al dissenso, il ruolo di una minoranza interna, la sfida culturale sulla base di un'idea diversa, più moderna ed europea, di "destra", come anche qualcuno molto vicino a Berlusconi ha creduto, consigliando al Cav. di ricomporre, accettando il percorso, il pungolo, quindi le legittime ambizioni di Fini. Il punto è questo: non si trattava più di rispettare una dialettica interna, ma di tollerare il logoramento proprio e dell'azione di governo, fino ad allora sostenuta dai cittadini in tutte le prove elettorali. Si è citato l'esempio dei grandi partiti nelle altre democrazie occidentali. Vero è che le leadership sono contendibili, e aspramente contese, mentre in Italia i meccanismi sono un po' inceppati e un po' torbidi. Ma tutto a tempo debito, non mentre si è al governo. Ce la vedete la speaker Pelosi che organizza la fronda contro Obama?
Insomma, l'intento demolitorio è diventato evidente e se il premier, in questi giorni, alla Camera e al Senato è apparso dialogante non è perché si illuda sulle reali intenzioni di Fini, ma perché ha il dovere, nei confronti dei suoi elettori, di provare ad andare avanti, e forse scorge che alcuni finiani sono lontani dall'astio e dal rancore del loro leader.
La seconda accelerazione Fini l'ha impressa ieri, con l'annuncio della costituzione di un partito, questa volta non giustificato da nessuna presunta "cacciata". A questo punto ha di fronte a sé una scelta: o si dimette, per porsi anche formalmente alla guida del nuovo partito; oppure, segue lo schema Casini-Follini, rimanendo alla presidenza di Montecitorio mentre al vertice del partito mette uno dei suoi (Urso?). Intanto, vale la pena di annotare le flagranti anomalie istituzionali in cui Fini è incappato anche ieri. Proprio durante la seduta più "politica" dell'assemblea della Camera, sulla fiducia al governo, esercitava al tempo stesso il ruolo di capofazione e di presidente super partes. E' lui, un minuto dopo che Berlusconi finisce di parlare, ad annunciare che il suo gruppo voterà la fiducia al governo (è "inevitabile"); è lui a riunire i suoi subito dopo il discorso del premier (lasciando la presidenza dell'aula alla Bindi); è lui ad annunciare il processo di costituzione di un nuovo partito.
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