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Wednesday, September 22, 2010

La cacciata di Profumo. Quanto c'entra la politica?

Per la Repubblica, manco a dirlo, è tutto un complotto Berlusconi-Geronzi. Il primo otterrebbe una «vittoria politica» in vista delle elezioni che avrebbe programmato per il marzo 2011; il secondo una «vittoria finanziaria» in vista della «mossa che, nella sua testa, chiuderà il 'Risiko' dei Poteri Forti: la fusione Generali-Mediobanca», scrive Massimo Giannini. Giavazzi, sul Corriere, ma è in buona compagnia, se la prende invece con la Lega, per aver seguito la strada dei «vecchi democristiani», che «controllavano il territorio (e i voti) attraverso le Casse di risparmio e le municipalizzate» (perché, dove crede che siano quei «vecchi democristiani» ora?). Vero è, purtroppo, che i leghisti fanno di tutto per entrare nel sistema anziché scardinarlo, ma improvvisamente sembra che siano loro gli inventori delle fondazioni e i veri affossatori di Profumo in difesa degli interessi dei loro «feudi locali», mentre sono semmai nient'altro che gli ultimi arrivati al tavolo (e gli ultimi a spingere l'ad). Ma su chi si è seduto prima di loro, e per maggior tempo, a quel tavolo, silenzio. E mi riferisco alle fondazioni guidate da ex democristiani ed ex comunisti che la fanno da padrone in molte regioni italiane. Ovviamente questo sistema andrebbe smantellato, ma è comprensibile che, se quel tavolo resta, una forza politica altamente rappresentativa al nord voglia sedersi e contare anch'essa. Né deve sorprendere che le strategie di una grande banca internazionale interessino eccome la politica.

Può piacere o meno, ma i presunti interessi dei clienti, ammesso che si possano generalizzare e rappresentare, sono diversi da quelli degli azionisti, e a questi ultimi i top manager devono rendere conto. L'aumento della quota libica in Unicredit è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Prim'ancora di addentrarsi in una disputa sui massimi sistemi, anche perché non è detto che il progetto di una grande banca multinazionale e "global" debba inevitabilmente passare sul cadavere di azionisti "local", fondamentalmente fondazioni e azionisti tedeschi l'hanno scaricato per gli scarsi utili e dividendi, per le ricapitalizzazioni e per una condotta autocratica. Non avendo sufficienti capitali per finanziare continuamente il tumultuoso sviluppo che era nei grandiosi disegni di Profumo, comprensibilmente gli azionisti temono di perdere quote di potere per effetto sia dell'ingresso, o dell'aumento di quote, di nuovi soci (vedi libici) sia di successive ricapitalizzazioni.

L'abbandono dell'internazionalizzazione e la chiusura in se stessa di Unicredit sarebbe un grave errore, ma non è detto che il progetto di "Banca Unica" debba passare per forza per un unico ad. Ed è un rischio sempre presente quello dei condizionamenti politici nella gestione. Ma in definitiva l'analisi più lucida ed equilibrata (direi indipendente) sull'intera vicenda mi sembra quella di Oscar Giannino, su Chicago-blog. Per Giannino la politica c'entra poco o niente con l'estromissione di Profumo:
«Quando i dividendi agli azionisti scendono a meno della metà rispetto al difficile anno precedente e poi a un quarto o a un quinto degli anni precrisi come nella semestrale 2010 Unicredit, e si è dovuto pure mettere mano al portafoglio per miliardi in aumenti di capitale, lo spazio dei manager si restringe... La piena delega a Profumo si è rotta piano piano, nel corso degli ultimi due anni. E non solo per minori utili e dividendi, accantonamenti e rettifiche per miliardi ulteriori dopo aver rafforzato il capitale per oltre 6 miliardi. Le fondazioni non l'hanno mai voluto, un modello operativo accentrato sul capoazienda, con tre vice e sette proconsoli, come doveva essere l'Unicredit concepita da Profumo».
Non la politica, dunque, che secondo Giannino «ha assistito da Roma preoccupata con Tremonti delle conseguenze sistemiche di una dipartirta senza successori pronti». «La pretesa influenza impropria della politica - scrive Giannino su Panorama Economy - è un'ombra cinese agitata con molta malizia e studiata abilità. In realtà, non è stata affatto la politica a mettere zampa nella caduta di Profumo». «Il teatrino politico italiano dirà che è stata la Lega ad entrare a gamba tesa» e, certo, ci sono le dichiarazioni di guerra del sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi, ma «in realtà - fa notare Giannino - i leghisti dentro la Fondazione CariVerona ancora non sono formalmente neppure entrati, e Tosi è stato semplicemente astuto sui media a invocare più di tutti il ritorno in banca del potere ai territori». «Se non fosse così e fossimo stati in presenza (come sostiene la Repubblica) di uno spietato attacco per allineare la seconda banca italiana al naturalmente famigerato governo Berlusconi, non si capirebbe perché al contrario il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, abbia giocato fino all'ultimo nella vicenda assai più il ruolo del pompiere che quello del piromane».

«La sostanza - conclude Giannino - è che la caduta di Profumo con la politica non c'entra niente». Profumo paga una conduzione troppo «autoreferenziale», reo di «ignorare» gli azionisti, con «ricapitalizzazioni e tagli a utili e dividendi più dolorosi ai suoi azionisti che a quelli di altre banche italiane».

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