In questi casi cedere alla tentazione di fare bella figura stando comodi nel salotto di casa propria può prendere chiunque. Il giorno dopo l'inizio del processo a Saddam si sono sprecati sui giornali i commenti, ma molti, forse troppi, si sono concentrati sulle garanzie di cui comunque l'ex dittatore dovrebbe (per carità) godere e che invece, dicono i presunti bene informati e tecnici della materia, questo processo "americano" non garantirà, e sull'eventualità molto concreta che l'esito sia addirittura la condanna a morte. Sia chiaro, io sulla pena di morte ho idee di precisione monosillabica: No. Per motivi di principio e di convenienza che non sto qui a ripetere, perché quello che voglio dire è altro.
E' che il coro che circonda la sorte di Saddam emana un affetto fuori luogo, di cui molti non degnano neanche chi cade sotto la scure della "giustizia" nostrana.
Marco Pannella rilascia le sue impressioni a il Riformista: Saddam non deve essere condannato a morte, per questo «sarebbe servito un altro processo rispetto a quello che si sta svolgendo». La responsabilità è dell'amministrazione americana rea, da alcuni anni a questa parte, «di contrastare con ogni mezzo, soprattutto quello degli accordi bilaterali con i governi, le ratifiche del Tribunale penale internazionale». Il processo all'ex raìs si sarebbe dovuto svolgere «in sede internazionale» perché, spiega, «quello in corso in Iraq assomiglia pericolosamente al processo di Norimberga e non tiene conto delle evoluzioni del diritto internazionale maturate nel corso degli ultimi sessant'anni».
Passi. Se non altro ai radicali non può essere imputato di non battersi da sempre per la giustizia giusta qui in Italia (caso Tortora e separazione delle carriere) e per l'abolizione della pena di morte (non solo in America). In qualche considerazione andrebbero presi però diversi problemi che il processo a Saddam presenta e che non vorremmo che fosse comodo ignorare: tanto checcefrega, se la vedono gl'iracheni co' gl'americani, mica c'abbiamo in mano noi la responsabilità che non succedano casini.
Antonio Cassese, ex presidente del Tribunale Penale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, interpellato da La Stampa, si spinge oltre in modo imbarazzante, sostenendo che non sia un processo equo: «E' come se la sentenza fosse già stata scritta: la presunzione di non colpevolezza è già andata a farsi benedire». Siccome non basa questa sua affermazione su dati di fatto, non viene neanche sfiorato dall'idea che questa sua sensazione possa derivare dalla semplice considerazione che Saddam la sentenza se la sia scritta da solo con una evidenza che siamo più modestamente chiamati a ratificare?
Il processo ha il difetto, continua Cassese, di rispondere «soltanto alla volontà degli americani di fare giustizia nel modo che piace loro, e cioè controllando il processo stesso». Beh, facile parlare, ma un certo controllo è solo un fatto di responsabilità, visto che alcuni espedienti retorici e colpi a effetto Saddam di certo li tenterà, visto che in giro ci sono parecchi ex baathisti che gli sono rimasti fedeli e molta parte della popolazione teme ancora che il passato ritorni.
Cassese formula un'accusa grave: «Le norme predisposte per il processo sono dubbie, non sembrano assicurare pienamente i diritti della difesa». Tutti giudici sono iracheni, scelti da un organo politico, e il processo è un «ibrido, metà accusatorio e metà inquisitorio». Inoltre, per evitare che l'imputato si difendesse trasformando il dibattimento in un processo alle vittime, seguendo l'esempio di Milosevic, gli è stato negato di potersi difendere da solo. Evitare che Saddam seguisse l'esempio di Milosevic, che si è difeso da solo trasformando il dibattimento in un processo alle vittime, mi pare uno scopo più che ragionevole. Comunque aspettiamo Cassese chiedere per gli imputati italiani gli stessi diritti che reclama oggi per Saddam e che in Italia NON ci sono, primo il diritto a difendersi da soli.
La sua conclusione dimostra che siamo di fronte al tipico caso di retorica da salotto e bella mostra di grandi principi a buon mercato ché tanto non si sarà chiamati a risponderne. E chiama in causa tutta la nostra cultura giuridica. Oggi una nuova Norimberga, dice, «non si giustifica più. Abbiamo strumenti internazionali indipendenti e imparziali in grado di accertare la verità. Non quella dei vinti sui vincitori ma la verità. Punto e basta». Verità? Nella cultura giuridica dell'Europa continentale è ancora radicata la presunzione che attraverso il processo si possa giungere a una sorta di verità ontologica e metafisica che comprende un giudizio morale complessivo sulla persona imputata. In questo caso sembra quasi che spostando il processo a una sede e a un livello internazionale si chiami in causa un ente infallibile. No. La giustizia è amministrata da uomini limitati e fallibili. Il processo si deve limitare ad accertare i fatti e il comportamento tenuto dall'imputato in una data circostanza. Questo pregiudizio è tra i maggiori responsabili della malagiustizia italiana e l'abbiamo visto all'opera anche nel processo Milosevic ad opera della Del Ponte.
Viceversa, i procuratori all'opera nel processo Saddam (preparati in Gran Bretagna) hanno optato per una strategia pragmatica (ricorda quella che inchiodò Al Capone per evasione fiscale), spiegando che il caso del massacro di Dujail, tutto sommato "minore" rispetto ad altri eccidi di massa, è stato scelto per la gran quantità di testimonianze e prove incontrovertibili in grado di portare a un giudizio rapido. Questo per evitare, come insegna l'esperienza Milosevic, che il processo si perda nell'enorme mole di documenti e nella titanica impresa di ricostruire i crimini di decenni di dittatura. Un lavoro da storici. E c'è un rischio in più di cui si tiene conto. Molti baathisti fedeli all'ex raìs sono ancora in giro e incutono timore nella popolazione che ancora fatica a credere quella di Saddam un'epoca che non tornerà. Dunque, viva il pragmatismo anglosassone. Mi fido del giudice Amin, che ha avuto il fegato di metterci la sua faccia. E non era scontato.
Di contro, la stampa e i commentatori americani, anche di orientamento liberal, preferiscono sottolineare altri aspetti: la questione pena di morte sì o no è decisamente in secondo piano, l'importante è il processo come operazione verità e il fatto che gli iracheni e gli arabi faranno esperienza di un processo degno di uno stato di diritto e di un dittatore alla sbarra. In fondo si tratta di quella formidabile arma di attrazione democratica che abbiamo in mano e che dovremmo valorizzare. Il fatto che la umma sunnita, che si sente la nazione araba eletta a comdandare sugli altri musulmani, vedrà la fine che fa il campione del panarabismo e il suo presunto intrinseco diritto a comandare.
Paul Berman, autore di "Terrore e Liberalismo", che ha definito «antifascista» la guerra contro l'Iraq di Saddam, ha detto al Corriere che il processo riguarda «un dramma iracheno su cui decideranno gli iracheni»:
«Si terranno parecchi processi contro il raìs, molti controversi, ma spero che alla fine daranno gli stessi risultati di Norimberga, che giovò soprattutto ai tedeschi: che aprano cioè gli occhi ai sunniti. Gli italiani uccisero Mussolini, un fatto che accetto, ma sarebbe stato meglio processarlo, avrebbe risanato alcune ferite».Parole altrettanto sagge le ha scritte Anne Applebaum sul Washington Post:
«Alla fine, è dalla qualità delle prove, e dalla chiarezza con cui è condotto, che questo processo dovrà essere giudicato. Il risultato è irrilevante... Nessuna punizione potrebbe far niente per le migliaia di vittime che ha ucciso, o per il terrore che ha inflitto al suo paese. Se i sunnti sapranno cosa ha fatto agli sciiti e ai curdi, se gli sciiti e i curdi sapranno cosa ha fatto ai sunniti, se gli iracheni realizzeranno che questo sistema di terrore totalitario li ha danneggiati tutti e se gli altri in Medio Oriente capiranno che le dittature possono essere destituite, allora il processo avrà raggiunto il suo scopo».Sul Times, Amir Taheri ha sottolineato la necessità che il mondo arabo veda questo processo:
«Ciò che è in gioco è ben più che la sorte di un despota e del suo entourage. L'Iraq e, dietro di esso il mondo arabo, dove gli avanzi del panarabismo guardano a Saddam Hussein come il loro campione, hanno bisogno di una prolungata e giudiziariamente impeccabile lezione di storia ed etica politica. Saddam si sta avvalendo di ciò che ha negato alle sue vittime: un processo pubblico con avvocati difensori di sua fiducia, e fondato su prove considerate con il principio del ragionevole dubbio. Qui c'è un nuovo Iraq, basato sullo stato di diritto, che processerà il vecchio Iraq della crudeltà e della corruzione. Gli arabi vedranno e decideranno in quale dei due vorrebbero vivere. Il resto del mondo dovrebbe anche osservare quale parte sostenere nella lotta per il futuro dell'Iraq».A cosa serve questo processo, dunque? Riassume Liberopensiero:
«Far conoscere al mondo sunnita cosa ha voluto dire per gli altri iracheni stare sotto Saddam. Evitare che, come in Italia, il problema di ristabilire la verità del paese venga rimandato grazie all'uccisione di Mussolini che fu anche un comodo capro espiatorio per molti. Solo con un processo Mussolini avrebbe potuto far fare al paese un po' di autoanalisi. Purtroppo il processo non ci fu, e il paese vive ancor oggi nell'illusione di aver subito il fascismo. Speriamo che il processo a Saddam serva a evitare certe scorciatoie».Il celebre blogger iracheno Iraq The Model ha visto il processo in tv con alcuni suoi amici e ci ha riferito le sue impressioni. Si sono chiesti per quale motivo avrebbero dovuto ascoltare Saddam e perché meritasse un processo corretto invece di un colpo in testa. Ma in breve tempo, racconta il blogger iracheno, hanno trovato le risposte che cercavano:
«Appena l'accusa ha cominciato ad approfondire dettagli e fatti, il modo in cui vedevamo il processo ha cominciato a cambiare e quelli tra di noi che chiedevano un colpo in testa per Saddam sembravano contenti: "Non penso che voglio vedere quel colpo adesso, voglio vedere la giustizia fare il suo corso come dovrebbe essere". Stavamo osservando un esempio di giustizia nel nuovo Iraq, un luogo dove a nessuno dovranno essere negati i propri diritti, neanche a Saddam».
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