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Thursday, October 27, 2005

La pace democratica. Per molti lo schiaffo della realtà

Anche per qualcuno che non c'aspettavamo ne avesse bisogno

«Call it the "Baghdad Spring"», scriveva all'indomani del primo voto libero in Iraq, nel gennaio scorso, l'editorialista del New York Times Thomas Friedman. Mai espressione potrebbe essere più felice ora che i risultati definitivi diffusi dalla commissione elettorale confermano che gli iracheni hanno approvato la Costituzione. E' il caso di annotarli i traguardi fin qui raggiunti da un processo democratico di cui commentatori e politici, scettici o in malafede, annunciavano la morte a ogni passaggio, per essere poi puntualmente zittiti dai fatti. Nel consesso delle Nazioni Unite quel processo ha trovato scadenze da rispettare – e sono state rispettate – e una coalizione militare che ha assicurato la necessaria protezione, nonostante i più ostinati continuassero pretestuosamente a invocare un intervento dell'Onu laddove c'era già stato.

Khaled Fouad Allam ha offerto per la prima volta ai lettori di Repubblica un orizzonte diverso da quello su cui sono stati impigriti. Al centrosinistra, scrive, occorre «un nuovo sguardo» sulla politica nei confronti del mondo arabo, vicino di casa dell'Europa, ma per ironia della sorte l'unico punto finora chiaro del programma di Prodi è il ritiro dall'Iraq.

La guerra ha "esportato" la democrazia, non ha aumentato il terrorismo. Ha reso evidente, in occidente e sempre più nel mondo arabo, che esso è perdente sul piano politico; che il desiderio di libertà e democrazia in ogni essere umano, senza distinzioni di razza, religione, nazionalità, è più forte del fondamentalismo, del trauma dell'invasione e della guerra; che laddove c'è strage di diritti c'è strage anche di corpi; laddove regna la tirannia, c'è sempre una responsabilità dei paesi democratici che non la denunciano, non la destabilizzano, non stanno al fianco dei popoli oppressi per rimuovere gli ostacoli che soffocano l'universale aspirazione alla libertà. Oggi il diritto/dovere di ingerenza si afferma: i diritti dei cittadini al di sopra della sovranità degli stati. Non solo uno scrupolo morale. La sicurezza globale sempre più dipende dall'espansione della democrazia nel mondo. La libertà a casa nostra sempre più dipende dal successo della libertà in casa altrui. Oggi sappiamo che sono i pacifisti a doversi giustificare delle loro posizioni, perché non c'è pace senza democrazia.

Alla luce dello squarcio di sereno (chissà quanto passeggero, ma già è qualcosa) di la Repubblica, delle timide aperture di Fassino all'ultimo Congresso dei Ds, delle riflessioni a bassa voce di D'Alema nel chiuso di una fondazione, e degli smarcamenti decisamente atlantisti di Rutelli dalla posizione pacifista prodinottiana, sembra paradossale che nelle valutazioni sulla politica estera americana si stia facendo scavalcare da costoro uno che potrebbe darne a tutti di lezioni. Scoprite chi è: video.

A preoccuparci non è - figurarsi - l'atteggiamento critico nei confronti dei molti errori dell'amministrazione Bush. Ma il fatto che la sua analisi parta da essi, che non schiodi dalla proposta "Iraq libero" (per quanto fosse auspicabile e concreta ormai superata dagli eventi), ignorando che i venti di cambiamento che stanno scuotendo il Medio Oriente trovano la loro origine nella guerra irachena e nella dottrina Bush. Se persino un Fouad Allam qualsiasi su la Repubblica ha saputo soffermarsi su questo, perché non ripartire da qui? E' come se - dico come se - si trattasse di dimostrare qualcosa e si volesse rincorrere un elettorato che non gli appartiene insistendo su una sorta di "terza via" che terza alla fine non poteva essere. O no?

La guerra in Iraq poteva essere condotta in modo migliore? Quasi certamente "sì". Poteva essere evitata del tutto? Quasi certamente "no". Il momento bellico di tre settimane che ha determinato la caduta del regime di Saddam Hussein poteva essere evitato negoziando l'esilio del dittatore e del suo entourage sotto la minaccia delle armate. Ma l'esilio e un'accorta amministrazione del post-Saddam tale da evitare tutti i possibili errori commessi nel dopoguerra non ci avrebbero comunque messi al riparo da quella guerra terroristica preparata dal dittatore con largo anticipo, studiata e attuata con spietata determinazione da Al Qaeda e da potenze regionali come Iran e Siria pronte a tutto per far fallire il processo democratico. Un fantomatico governo transitorio dell'Onu, del tipo che mantiene il Kosovo ancora oggi nel limbo, avrebbe saputo fare meglio? Non crediamo. Oggi appare evidente a molti analisti che proprio il rapido passaggio dei poteri agli iracheni sia stata una carta vincente e che sia stato un errore persino il ritardo causato dall'interregno di Paul Bremer con i suoi piani «preconfezionati dai centri studi del Dipartimento di Stato».

Più di uno studio autorevole – di recente lo Human Security Report, presentato alle Nazioni Unite - ci dice che grazie all'espansione della democrazia viviamo in mondo con meno guerre. Oggi sappiamo che esiste una "pace democratica", perché i fatti ci dicono che gli stati democratici non si fanno la guerra. Quando combattono lasciano dietro di sé popolazioni liberate. E' la convinzione di fondo della politica mediorientale di Bush: la diffusione della democrazia come unico antidoto di lungo periodo all'inclinazione alla violenza interna ed esterna delle società arabe e di religione musulmana. E' la stessa "pace democratica" in cui hanno creduto Ayn Rand (quarant'anni fa), Ronald Reagan (ventitre anni fa), Rudolph Rummel (dieci anni fa), George W. Bush (quattro anni fa), ottenendo in cambio derisione o disprezzo.

E il mondo messo a ferro e fuoco dagli americani? Un falso mito. Meno dittature, meno guerre è un'equazione che regge. Dopo il collasso dell'Unione Sovietica – una vera e propria sconfitta di sistema determinata dalla politica pro-demcoracy di Ronald Reagan e non da una sincera apertura decisa dai vertici del regime – e il crollo a catena di tutte le dittature che l'impero comunista proteggeva, i conflitti sono calati del 40%. L'enorme aumento delle spese militari sotto la presidenza Reagan viene comunemente bollato come bieco militarismo, ma faceva parte di una strategia complessiva, dotata di strumenti politico-diplomatici aggressivi, che ha dato i suoi frutti senza che fosse necessario sparare un colpo.

Forse la facile equazione degli antimilitaristi dogmatici "più guerre => più soldi al complesso militare-industriale => più armi => ancora più guerre => meno diritti e democrazia in casa e all'estero" ha bisogno di essere riveduta e corretta. Forse alla loro analisi mancano alcuni elementi: l'uso della forza militare non risponde alle stesse logiche per tutti gli attori internazionali e in ogni sistema di potere il complesso militare-industriale gioca un ruolo diverso. Quasi mai per le democrazie un aumento delle spese militari si è tradotto in un uso offensivo dello strumento bellico. Quando ciò è avvenuto è stato per fermare un genocidio o liberare popoli dall'oppressione. Quasi sempre le spese militari vengono accompagnate dall'uso del soft power e da strategie politico-diplomatiche che ottengono lo scopo evitando i conflitti armati.

Sulla costituzione irachena vi consiglio anche il mio approfondimento per RadioRadicale.it.

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