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Thursday, December 02, 2010

Berlusconi il "migliore amico"

Suonano un po' obbligate le parole del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, su Berlusconi («non abbiamo amico migliore»), giunte tempestivamente a tamponare le polemiche seguite ai leaks di Assange, ma corrispondono essenzialmente al vero. E appare un rafforzativo nient'affatto scontato o retorico, invece, l'enfasi sull'appoggio «sempre coerentemente» offerto da Berlusconi alle tre amministrazioni americane - Clinton, Bush, Obama - che si sono succedute da quando è in politica. D'altra parte, meriterebbero tutt'altra attenzione i lati oscuri che anche un'operazione come Wikileaks sta mostrando. Innanzitutto, la scelta piuttosto arbitraria (per usare un eufemismo) dei quotidiani cui passare i file in anteprima. Non si può poi ignorare che siamo di fronte nella migliore delle ipotesi a frammenti privi della minima contestualizzazione, nella peggiore di una deliberata selezione di una selezione, e quindi di un'opera in qualche modo manipolativa.

Detto questo, al di là degli elogi in qualche modo dovuti, nell'ufficialità, della Clinton e dell'ambasciatore Thorne, considerazioni come quelle di Edward Luttvak, lunedì scorso, e di un ex ambasciatore Usa a Roma (nominato da Clinton), Reginald Bartholomew, aiutano a ridimensionare il peso degli affari Eni-Gazprom e dell'"amicizia" Berlusconi-Putin sui rapporti tra Italia e Stati Uniti. Innanzitutto, Bartholomew conferma in che modo si formano certi giudizi dei funzionari d'ambasciata su Berlusconi: «Deve essere chiaro che i rapporti preparati dai funzionari dell'ambasciata vengono redatti raccogliendo quella che è l'opinione nei vari ambienti e milieu del Paese ospitante, in questo caso l'Italia. È il risultato di analisi che riflettono l'immagine del premier nel suo Paese».

Rispetto alle preoccupazioni Usa per i legami con la Russia, Bartholomew è restìo persino ad usare il termine «problema»: «Problema è una parola troppo forte, ma ripeto il rapporto rimane solido. Quello che conta è la politica essenziale». E l'ex ambasciatore sottoscrive un eloquente giudizio apparso lunedì su un editoriale del Corriere stesso: «Seppur sgradite in alcuni casi, le dichiarazioni di Berlusconi sono parse ai responsabili statunitensi pragmaticamente secondarie». La mia tesi è che le politiche e le prese di posizione filorusse (anche clamorose) di Berlusconi non compromettano l'essenza dei rapporti con gli Usa; che a Washington venga attribuito loro il giusto peso; e che anzi occorre ammettere - a malincuore dal mio punto di vista - che sono state anticipatrici del nuovo approccio inaugurato dall'amministrazione Obama con la Russia.

La politica estera «essenziale» dell'Italia, comunque la si voglia girare, non è mai stata così atlantica come con Berlusconi. Mai con Andreotti e Craxi, che flirtavano di nascosto con i terroristi arabi. Dopo il '94 persino un governo di centrosinistra come quello presieduto da D'Alema è stato più atlantico dei governi della Prima Repubblica, mentre altrettanto non si può dire dei governi Prodi. Berlusconi ha schierato saldamente l'Italia al fianco dell'America dopo l'11 settembre, nella guerra in Afghanistan, dove continuiamo ad essere tra gli alleati più disponibili ad accrescere il nostro sforzo; anche nella crisi più acuta dell'ultimo decennio, quella irachena, che ha diviso il fronte occidentale e l'Europa, Berlusconi è rimasto al fianco dell'America di Bush, quando sarebbe stato senz'altro più comodo e politicamente corretto fare un piacere all'"amico" Putin e accodarsi al fronte anti-guerra che Mosca ha costituito con Francia e Germania, come chiedeva per altro la sinistra. Nessuno sembra ricordare come fu accolto Berlusconi al Congresso Usa nel marzo 2006, ma la sinistra sembra preoccuparsi delle buone relazioni con gli Usa solo ora che alla Casa Bianca c'è Obama, mentre quando c'era Bush erano motivo di biasimo.

Su questo blog ho sempre contrastato sia le ridicole dietrologie che a volte sembrano prendere piede nel Pdl, e che a volte capita di leggere sui giornali vicini al centrodestra, su un ipotetico complotto americano contro Berlusconi (in molti si sono convinti persino che Fini sia l'uomo nuovo di Washington, mentre al massimo ha alcuni estimatori, per altro di recente caduti in disgrazia), sia le strumentalizzazioni della sinistra, che tra il 2006 e il 2008 non sembrava così preoccupata dei rapporti con Washington mentre gli affari Eni-Gazprom procedevano con il vento in poppa e con la benedizione del governo dell'Ulivo.

Il GAS - La verità è che la politica "filorussa" dell'Italia è motivata dal fabbisogno energetico, in particolare di gas, e in misura minore ma rilevante, dall'importanza dell'export. E' quindi una politica trasversale e trasparente, che con Berlusconi è più appariscente e a volte sgradevole per la sua capacità di stringere rapporti personali forti. Ma gli Usa non renderebbero l'Italia meno legata a Mosca facendo fuori Berlusconi. E' ovvio che a Washington vogliano tenersi aggiornati sugli sviluppi di questo rapporto, e che siano preoccupati per la dipendenza non solo dell'Italia, ma dell'Europa intera, dal gas russo. Lo siamo anche noi, ma il guaio è che ad oggi non sembrano esserci alternative: in South Stream entreranno anche i francesi; in Nord Stream ci sono già tedeschi e francesi e olandesi, mentre il progetto concorrente (ma non proprio alternativo, piuttosto complementare), il Nabucco, sponsorizzato da Usa e Ue, è di più complessa realizzazione per ostacoli di natura geopolitica. Nel frattempo, però, è ragionevole supporre che gli italiani d'inverno vogliano continuare a scaldarsi.

LA CRISI RUSSO-GEORGIANA - Una crisi in cui la dipendenza dal gas russo ha certamente condizionato negativamente l'atteggiamento dell'Europa è quella russo-georgiana dell'agosto 2008. Una sconfitta - di più, un'umiliazione per l'Europa e per gli Stati Uniti - dovuta a una convergenza di fattori che Mosca ha saputo sfruttare al meglio. A quella crisi si riferiscono i tre cabli, pubblicati dal Corriere della Sera, nei quali l'ambasciatore a Roma Spogli invia a Washington delle indicazioni sulla posizione del governo italiano sostanzialmente corrette: gli italiani «non ci aiuteranno» a ottenere dalla Nato una dichiarazione di condanna delle azioni di Mosca; insistono che bisogna affrontare la crisi tra Georgia e Russia con «senso di equilibrio» e «nella migliore delle ipotesi, l'Italia eviterà di pronunciare dichiarazioni forti o di fare pressioni sulla Russia. Nella peggiore, potrebbe lavorare per distruggere la determinazione degli altri alleati nelle sedi internazionali, incluse la Nato e l'Unione europea»; particolare perplessità viene espressa sulle dichiarazioni del ministro degli Esteri Frattini. Tutte valutazioni molto puntuali quelle di Spogli, ma di simili ne saranno giunte a Washington anche da Parigi e da Berlino e il problema fu che non c'era alcuna «determinazione» da distruggere negli altri alleati.

Purtroppo, come già scrissi allora, la posizione italiana rimase prigioniera dell'amicizia personale tra Berlusconi e Putin. Nel senso che invece di un'immediata condanna della premeditata aggressione russa, il premier ritenne di sfruttare i suoi rapporti personali con Putin per valorizzare il ruolo dell'Italia in chiave di mediazione (il che, "tecnicamente", non fu privo di senso). All'inizio provocò non poca irritazione a Washington, ma quando fu chiaro che quello era anche il ruolo che intendeva giocare l'Ue (era il semestre a guida francese), anche l'amministrazione Usa fu costretta a fare buon viso a cattivo gioco. Meno coinvolti personalmente, o per il loro ruolo istituzionale (Sarkozy era presidente pro tempore dell'Ue), gli altri leader europei usarono toni più duri nei confronti di Mosca, ma nella sostanza la linea era condivisa: cessazione immediata delle ostilità; pieno rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale della Georgia; ma mai, in nessun caso, alzate di testa nei confronti di Mosca. Anzi, tutti apparivano sollevati perché l'imprudenza e i calcoli sbagliati di Saakashvili (che probabilmente cadde nella trappola di Mosca credendo di costringere la Nato ad accelerare l'ingresso di Tbilisi nell'Alleanza) avrebbero escluso l'ingresso in breve tempo, come chiedevano gli Usa, di Georgia e Ucraina nella Nato, che avrebbe provocato non pochi problemi con la Russia.

Mettiamoci che l'imprudenza di Saakashvili non aiutò certo a prendere le difese della Georgia; mettiamoci che gli occhi del mondo erano puntati sul "nido" di Pechino per la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi; mettiamoci, soprattutto, che Bush era obiettivamente indebolito agli occhi dei suoi alleati europei perché a fine mandato e inoltre, rispetto all'Iraq, non poteva neanche più contare sull'appoggio di Blair in Gran Bretagna, né di Aznar in Spagna. Perché - fu senz'altro il ragionamento - inimicarsi il duo Medvedev-Putin quando Bush stava per lasciare e probabilmente il suo successore avrebbe tenuto un atteggiamento più morbido con Mosca? E infatti fu proprio così che andarono le cose. Obama avrebbe premuto il bottone del reset con la Russia: avrebbe di lì a poco rimesso in marcia l'accordo Start, ritirato lo scudo antimissile, fino al Consiglio Nato-Russia di Lisbona, dove la crisi georgiana dev'essere apparsa lontana anni luce. Cinicamente parlando, Berlusconi intuì che nonostante la crisi contingente, la corrente del fiume spingeva nel senso dell'avvicinamento tra Washington e Mosca.

E infatti, resosi conto del contesto sfavorevole, anche la reazione di Bush all'atto di forza russo fu timida, rimase nell'ambito di una condanna a parole (e un'insignificante esercitazione militare). Non solo Ue e Usa non riuscirono a ottenere dai russi il pieno rispetto del piano Sarkozy, ma addirittura Mosca poté riconoscere impunemente l'indipendenza di Ossezia del Sud e Abkhazia, senza alcun congelamento - nemmeno temporaneo - dei rapporti con la Nato e con l'Ue, e il congelamento, invece, dell'ingresso di Ucraina e Georgia nell'Alleanza. In generale, la Russia approfittò della debolezza americana dovuta alla scadenza del secondo mandato di Bush, che rese l'Europa più incline a non scontentare la Russia che a seguire gli Usa sulla strada di una reazione più dura. A prescindere dal giudizio di merito sulla posizione del governo italiano, dell'Europa, e persino degli Usa nella crisi (per quanto mi riguarda fortemente negativo), è anche vero che, per tutti questi motivi e per il contesto, l'operato di Berlusconi di allora non può certo rappresentare un motivo di crisi o di sfiducia nei rapporti con Washington.

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