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Wednesday, March 30, 2005

Regionali 2005. Un gigantesco voto di scambio a cielo aperto

Marrazzo vs. Storace, la farsaStorace presidente con Marrazzo vice, o viceversa. Due sinistre intercambiabili e l'assenza di ogni vagito liberale

Stiamo assistendo alla campagna elettorale più misera, accattona e patetica degli ultimi anni. Qui a Roma, dove le strade sono inondate di manifesti e vecchie golf sostano in doppia fila piene di colla e pennelli, tra Storace e Marrazzo è una corsa su uno stesso binario: statalismo e assistenzialismo sono le uniche bandiere sventolate con isteria da entrambi i candidati. Nessuno spazio per idee e politiche pur vagamente liberali. A contendersi il Consiglio regionale del Lazio sono due sinistre che garantiscono un solo esito: più spesa pubblica, più sprechi, più favori generalizzati.

E' un gigantesco voto di scambio. I candidati e le forze politiche non offrono agli elettori politiche da mettere a confronto, per il rilancio delle economie regionali o per l'efficienza dei servizi. Offrono soldi, sì semplicemente soldi, in cambio dei quali i cittadini dovrebbero votarli. E' il favore, la prebenda, il voto di scambio che si fa collettivo e cumulativo. Se nell'immaginario nazional-popolare conoscere l'assessore o il consigliere può significare sbloccare quella pratica per il negozio, ricevere quell'"aiutino" per il concorso, la raccomandazione che ti sistema, i candidati non si sottraggono dal puntare sull'antropologia italica del cittadino-somaro e dello Stato-padrone. Ti promettono che avranno un occhio di riguardo anche per te che non li conosci, che non ti faranno pagare il ticket o fare "mai più file", che sono "uno di noi", come recita l'ammiccante manifesto. A quegli elettori che martedì dopo Pasqua erano ancora in ferie e che per due giorni consecutivi (Pasqua e Pasquetta) hanno affollato i ristoranti di tutte le province alla faccia dell'impoverimento offrono le loro "balle di fieno": sanità gratis, non importa quanto degradata, "aiutini" di qua e di là come un Gerri Scotti qualsiasi. "Nel Lazio crescono gli aiuti alle famiglie" (Testa, Storace), "Nel Lazio crescono gli aiuti agli anziani" (Francalancia, Storace).

Basta farsi un giro. Il metodo è chiaro: scegliere tre sostantivi che richiamano altrettanti concetti banali, aggiungere articoli e preposizioni quanto basta, frullare bene, ed ecco lo slogan dal senso incompiuto che ti fa cadere le braccia, che ti rammenta la profondità di una Maria De Filippi o di un Maurizio Costanzo. L'assenza di campagna in tv e la poca dimistichezza con internet ci hanno condannati a tappeti di manifesti sulle strade. "La tua fiducia al centro del mio impegno" (Maselli, Udc), "Più forza ai valori. Più fiducia. Più futuro" (Costa, Uniti nell'Ulivo), "Dentro i sentimenti popolari" (Dalia, Uniti nell'Ulito), "Al centro della regione", "No al ticket. No alle liste d'attesa" (Astorre, Uniti nell'Ulivo). Si sprecano gli "Uno di noi", "Uno di voi", "Alla regione eleggi te stesso". "L'esigenza dei principi" (forse voleva dire princìpi), non ricordo più di chi. Si può continuare all'infinito: "Andiamo anche noi alla regione" (Paris, Storace), "Per crescere insieme" (Valeriani, Storace), "Per continuare nei valori del cuore" (Poselli, Storace), "Con le donne nel cuore" (Golfo, Storace), "Da sempre con la gente" (De Stefano, Marrazzo). Persino il più originale, quel Gerri (per Storace) che posa di spalle per il suo manifesto ("Non facce di bronzo, ma una testa di ferro") nasconde un obiettivo inquietante: mutuo sociale.

L'impressione è che i partiti abbiano raschiato il fondo dei loro barili, tirando fuori facce più goffe che mai, con toni epici per significati banali e aziende municipalizzate da riempire. Dice bene oggi Giuliano Ferrara su Il Foglio: le regioni non sono che «accrocchi non di primissima scelta» e «nessuno saprebbe descrivere con parole sue, non imprestate dal gergo povero del cabotaggio regionalistico, la differenza di programma, di stile e di scelte concrete fra un qualunque governatore e il qualunque suo avversario o sfidante».

E poi c'è sempre l'asso nella manica che viene giocato a livello nazionale. Approfondito dibattito all'ultimo cent sul rinnovo del contratto del pubblico impiego. Si fa a pugni per accaparrarsi il voto degli impiegati pubblici (oltre 800 mila solo tra Lazio e Lombardia). Fini e Follini hanno cercato di buttarcisi a capofitto, ergendosi a paladini di quegli inefficienti e stantii lavoratori pubblici che ingolfano l'amministrazione del Paese, promettendo più di quelle 95 euro di aumento sulle quali Berlusconi ha tracciato la soglia massima dell'offerta dal governo. E se la promessa non sarà mantenuta, o viene subito smentita, pazienza... la colpa è di Berlusconi. Non è altro che voto di scambio: scambiare consenso contro un aumento di retribuzione.

«Se gli aumenti contrattuali verranno distribuiti a pioggia, è meglio non darli. Gli aumenti dovrebbero premiare la produttività, che è in calo», scriveva solo ieri Sabino Cassese, che poi concludeva così il suo rassegnato editoriale sul Corriere della Sera contro «la politica neomalthusiana» del pubblico impiego:
«Da questo presidente del Consiglio dei ministri, che non perde occasione per vantare la sua provenienza manageriale e criticare la burocrazia, ci si poteva aspettare una "cura alla Thatcher". Perché non cerca almeno di dare gli aumenti a chi lavora di più e di riservare una parte dei fondi per bandire qualche concorso dove ce n'è più bisogno?».

1 comment:

Anonymous said...

Ti segnalo Kaaba

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