E almeno a parole, il presidente siriano Bashar Assad sembra piegarsi. In un'intervista a Time assicura che fra pochi mesi, le truppe siriane saranno fuori dal Libano. Non oltre, perché la questione «è tecnica, non politica». Ne discuterà con l'inviato dell'Onu Terji Roed-Larsen e con i militari, che potrebbero dirmi che ci vorranno sei mesi. Ovviamente per il ritiro ci sono "buoni motivi": la sicurezza del Libano, «che è molto migliorata rispetto al passato. Hanno un esercito, hanno uno Stato, hanno istituzioni», e l'esigenza della Siria di proteggere le proprie frontiere da Israele.
Stamani a registrare l'importanza dei fatti di ieri Magdi Allam sul Corriere della Sera:
«Mettetevi nei panni del telespettatore arabo che ieri ha seguito gli eventi di Beirut. Ebbene il popolo libanese che sfida il terrorismo di Stato e la minaccia militare siriana, ha offerto una grande lezione di democrazia, così come la diedero otto milioni di iracheni che si opposero con successo al terrorismo recandosi alle urne lo scorso 30 gennaio. Nelmondo arabo è in atto una vera rivoluzione democratica. È giunto il momento di prenderne atto e di dare una mano ai popoli che ambiscono a riscattare la propria libertà troppo a lungo negata». Leggi tuttoUn'esauriente cronaca della giornata di ieri su Il Foglio, dove leggiamo anche un articolo in cui Claus Christian Malzahn, sullo Spiegel, critica i tedeschi che trattano Bush come Reagan: quando chiese di abbattere il Muro lo presero per matto. Oggi però Malzahn offre «una semplice idea per la vecchia Europa: Bush potrebbe aver ragione come Reagan». Un completo riepilogo in 7 punti di quanto è successo dall'11 settembre 2001 per merito della dottrina Bush lo traccia Christian Rocca. Altro che rivolta contro gli americani, gli arabi si stanno rivoltando contro i loro tiranni.
«Quando le piazze arabe hanno avuto per la prima volta la possibilità di esprimersi liberamente il risultato è stato quello previsto dai cosiddetti ideologi neoconservatori: un virtuoso effetto domino, un vorticoso e irresistibile contagio democratico».Sempre Rocca riporta la straordinaria conversione del New York Times, che affida a Jacob Heilbrunn la revisione dei propri pregiudizi sul pensiero neocon con l'articolo "Winston Churchill, neocon?". Tutt'altra cosa rispetto al recente «sforzino revisionista» di Giuliano Amato sul Sole24Ore.
«Contrordine compagni, dice il New York Times, i neocon non sono più fascisti, non sono più ex trotzkisti, non sono più guerrafondai, non sono più fondamentalisti religiosi (in realtà questa la dicono solo Repubblica e un paio di corrispondenti americani del Corriere), non sono più ebrei filo Likud, non sono più avidi affaristi, non sono più ideologi cocciuti, non sono più perfidi seguaci di Leo Strauss, non sono più una cabala che si riunisce in misteriosi centri studi per accaparrarsi il petrolio, dividersi il mondo e torturare gli arabi: sono, rullo di tamburi, antifascisti churchilliani... La tesi è chiara: i neoconservatori americani hanno come riferimento culturale e politico la battaglia antifascista del leggendario primo ministro inglese». Leggi tuttoAmir Taheri, sul New York Post, offre un approccio radicale: non si tratta di esportare la democrazia, ma di rimuovere gli ostacoli che impediscono il suo affermarsi.
«The experiences of Afghanistan and Iraq were not about imposing democracy by force. They were about the use of force to remove impediments to democracy. In other nations, those impediments can be removed through political means, including initiatives by the ruling elites. Mubarak's move is the latest example of this».Con Christopher Hitchens, su Slate, possiamo andare a controllare cosa significa davvero e in che termini viene posto il cliché delle cosiddette «strade arabe».
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