Wednesday, January 25, 2017
Corte scostituzionale...
Complimenti alla Consulta, che ammettendo ricorsi diretti (di incostituzionale c'è solo questo) è finalmente riuscita ad usurpare il potere di scrivere anche le leggi elettorali e di pronunciarsi su di esse preventivamente alla loro applicazione. Con le sue sentenze, non da oggi ma da decenni, ha dato il suo contributo alla confusione politico-istituzionale del nostro Paese e al suo (nostro) dissesto economico-finanziario. Siamo alle comiche, speriamo finali... Perché ciò che esce da questa sentenza non è che un "Porcellum" (già ritenuto incostituzionale dalla stessa Corte) con l'aggravante di non assicurare maggioranze. Perché in realtà, l'anima del "Porcellum" era il premio di maggioranza alla coalizione più votata senza quorum, che per quanto discutibile innestato su un sistema proporzionale, tuttavia garantiva una maggioranza ad una coalizione che quanto meno si era presentata al giudizio degli elettori, *PRIMA* del voto. Con questo "Consultellum", invece, avremo al 99% una coalizione di governo che nascerà *DOPO* il voto, quindi di fatto non votata da nessuno degli elettori ma frutto delle alchimie dei partiti. E non vi illudete che questa legge rappresenti un argine di sicurezza nei confronti del M5S...
Tuesday, January 24, 2017
Trump fa sul serio: i primi ordini esecutivi e il discorso di insediamento
Pubblicato su Ofcs Report
Trump fa il Trump. Discorso rivoluzionario (contro l'establishment politico di Washington e il disordine mondiale post-Guerra fredda), protezionista, nazionalista, ma non isolazionista. Rivolto ai "dimenticati", gli esclusi dall'agenda politica
Nelle ultime ore. Il via libera dalle commissioni competenti del Senato Usa alle nomine chiave della nuova amministrazione: dopo il segretario alla difesa James Mattis, anche il segretario di Stato Rex Tillerson e il nuovo direttore della Cia Mike Pompeo. Con il voto anche dei senatori repubblicani più ostili al nuovo presidente (John McCain e Marco Rubio). I primi ordini esecutivi firmati da Trump per imprimere da subito, già nei primi cento giorni, il nuovo corso alla Casa Bianca: ritiro dal TPP, il trattato di libero scambio con i Paesi asiatici (in realtà già bloccato al Congresso per l’opposizione dei repubblicani e scaricato anche dalla sua avversaria, Hillary Clinton); rinegoziazione del Nafta, l’accordo con Canada e Messico; autorizzati due oleodotti, il Keystone e il Dakota Access, bloccati da Obama; stop alle assunzioni nel governo federale; annuncio dello smantellamento dell’Obamacare. Poi, gli incontri di lunedì con i vertici del mondo dell’industria e quello di martedì con i principali produttori di automobili, a cui il neo presidente ha recapitato un messaggio chiaro: “Siamo di fronte a un ambientalismo fuori controllo. Renderemo più facile fare business”, con un taglio del 75% al quadro regolatorio e una riduzione delle tasse dal 35 al 15% per chi produce negli Stati Uniti. L’incontro, già venerdì prossimo a Washington, con la premier britannica Theresa May, che annuncia il ritorno dell’Anglosfera. E infine il discorso di insediamento di venerdì scorso, da cui tutti hanno compreso che il presidente Trump è il candidato Trump. Sono la stessa persona. Una chiarezza e una coerenza che sarà piaciuta molto a chi lo ha votato: l’arrivo a Washington non ha cambiato Trump, Trump è qui per cambiare Washington. Primi passi e un discorso che non cambiano l’analisi su Trump e la sua amministrazione che abbiamo azzardato su queste pagine sulla base degli elementi ad oggi in nostro possesso.
La sensazione è che mentre il giornalista collettivo è ancora in preda all’isteria anti-Trump, il nuovo presidente si sta concentrando su posti di lavoro, infrastrutture, politica estera. Per citare le sue parole, nel “rebuilding America”, nel “Make America Great Again”. La notizia insomma è che Trump fa sul serio. Può fallire, naturalmente, come qualsiasi presidente e come qualsiasi avventura umana, e gli ostacoli che si troverà di fronte non sono da sottovalutare: su tutti, il delicato rapporto con il Partito repubblicano, che controlla il Congresso, quindi il rischio di ritrovarsi senza partito, e i tentativi di disarcionarlo che proseguiranno per tutti i prossimi quattro anni. Ma quello che gli indignados di tv e carta stampata, delle elites e dei salotti perbene non hanno ancora capito è che se Trump è un outsider della politica americana, tuttavia la sua elezione non è uno scherzo del destino, non è un incidente della storia. Brexit e Trump rappresentano qualcosa di reale e profondo che si sta muovendo non solo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ma anche nell’Europa continentale e potrebbero segnare la storia come nemmeno l’11 settembre ha fatto. Le due democrazie anglosassoni si preparano a scrivere una pagina di storia diversa da quella scritta dagli anni 90′ in poi. Fino a pochi mesi fa, globalizzazione, multilateralismo, multiculturalismo e Unione europea sembravano processi ormai consolidati e destinati a dominare i prossimi decenni. E invece, siamo in procinto di un cambio di paradigma. I confini, le nazioni, esistono, fin tanto che i cittadini che ci sono dentro hanno voce in capitolo. Si cambia rotta.
E’ stato a suo modo rivoluzionario il discorso di insediamento di Trump: contro l’establishment politico di Washington e contro il (dis)ordine mondiale post-Guerra fredda. Protezionista in economia, nazionalista, ma non isolazionista. America First è uno slogan non completamente sovrapponibile al concetto di isolazionismo. Non dal momento che prevede il rilancio della potenza (e della spesa) militare tra le leve per rendere l’America di nuovo grande (e temuta). Non se la priorità dichiarata è quella di sconfiggere l’Isis. Non se la volontà è quella di contrastare l’espansionismo economico e militare della Cina. Non se con Trump e Brexit è la relazione speciale fra le due grandi democrazie anglosassoni, l’Anglosfera, a rimettersi in marcia (come indicano il ritorno del busto di Churchill nello studio ovale e l’incontro Trump-May già venerdì prossimo).
Non un’America chiusa in se stessa, né un pericolo autoritario, ma un’America concentrata a difendere i suoi interessi e i suoi confini, senza inseguire utopie mondialiste, velleità moralistiche e senza lo scrupolo di apparire buona e conciliante. L’americanismo contro l’ideologia globalista che si è affermata nel post-Guerra fredda, ma non disimpegno. Ed è comunque bizzarro che l’allarme per il protezionismo di Trump giunga da chi non si è dimostrato finora un campione del libero mercato e che la critica al suo presunto isolazionismo arrivi dagli stessi che solitamente condannano gli Usa per il loro interventismo. In realtà, al “ritiro dell’America” abbiamo assistito con Obama, che ha favorito la nascita dell’Isis in Iraq e Siria, il protagonismo della Russia di Putin in Medio Oriente e nell’est Europa, così come le manovre espansioniste di Pechino nel Mar cinese meridionale. Trump ha la possibilità invece di ricucire la tela sfilacciata dell’ordine mondiale, se non di tesserne uno nuovo.
Nel discorso di Trump, anche se molti hanno finto di non averlo sentito, c’è anche il rinnovato impegno americano nei confronti di alleati vecchi e nuovi e la promessa di un ruolo guida dell’America nella guerra al terrorismo, per la prima volta chiamato con il suo nome: islamico (“We will reinforce old alliances and form new ones – and unite the civilized world against Radical Islamic Terrorism”).
Impensabile che l’America abbandoni il libero mercato e il libero commercio, solo perché Trump ha fatto appello a “comprare americano e assumere americano” (siamo sommersi dagli appelli di politici e produttori alla tutela del Made in Italy e l’ideologia ambientalista del “km zero” è di moda, almeno tra chi può permetterselo). Ma il tentativo, questo sì, di correggere gli squilibri della globalizzazione. Due sembrano le armi che Trump ha intenzione di impugnare per “proteggere” la manifattura americana e i posti di lavoro americani. Da una parte, a torto o a ragione si vedrà, è convinto di poter portare a casa accordi migliori per gli americani: si tratta di rinegoziare vecchi accordi, come il Nafta, e siglarne di nuovi, meglio accordi bilaterali che ampie partnership. E dall’altra, rendere più favorevoli gli investimenti negli Stati Uniti (riducendo tasse e regolazione), scoraggiando la delocalizzazione e ricorrendo ai dazi solo in funzione difensiva, cioè per controbilanciare la concorrenza sleale della Cina o di altri Paesi. Una delle sfide sarà proprio aprire un aspro confronto con la Cina a cui dal suo ingresso nel WTO è stato permesso di tutto (dumping, contraffazione e manipolazione valutaria). È la Cina che ha in mente Trump quando parla di nazioni che si sono arricchite sulle spalle dell’America. Un deficit commerciale di 360 miliardi di dollari non è più sostenibile.
In una sua frase in particolare c’è la sintesi della critica alla globalizzazione: “The wealth of our middle class has been ripped from their homes and redistributed across the entire world”. Il tema esiste e negarlo non aiuta. Delocalizzazione crescente, ripresa con pochi posti di lavoro e di cattiva qualità, redditi stagnanti o in calo, nuove generazioni con prospettive peggiori di quelle dei genitori e dei nonni, mobilità sociale al palo. Riguarda non solo gli Stati Uniti, anche l’Europa. Sì, la globalizzazione ha aiutato i Paesi emergenti, favorito crescita, innovazione e progresso anche da noi, ma per alcuni non è stata un gioco a somma positiva e a Detroit non votano cinesi o indiani. Riprendendo un’espressione usata da Franklin Delano Roosevelt nel 1932, Trump ha parlato di uomini e donne “forgotten”, i dimenticati, la classe media di cui tutte le forze politiche e i governi si riempiono la bocca ma che in realtà è esclusa da tempo dall’agenda politica a vantaggio di un’agenda che ha il politicamente corretto come guida e utopie internazionaliste come cornice. “Francamente, non mi sono mai interessato a cosa fanno due adulti consenzienti quando vanno a letto assieme”, ha risposto il nuovo segretario alla difesa James Mattis, durante la sua confirmation hearing in Senato, ad una senatrice democratica che chiedeva cosa intendesse fare per “l’inserimento nelle forze armate di gay, lesbiche, bisex e transgender”.
Ma nemmeno se volesse Trump potrebbe riportare indietro le lancette dell’orologio mondiale. Dalla globalizzazione non si esce, ma si può provare a correggerne le distorsioni. Anche perché protagonisti della globalizzazione non sono solo attori economici, non solo le logiche del mercato, ma anche governi autoritari e illiberali che utilizzano i loro poteri per aggravare a loro vantaggio gli squilibri e ostacolare le compensazioni del mercato. Metodi che non hanno nulla a che vedere con libero commercio e libero mercato, ma con le vecchie politiche di potenza.
Trump fa il Trump. Discorso rivoluzionario (contro l'establishment politico di Washington e il disordine mondiale post-Guerra fredda), protezionista, nazionalista, ma non isolazionista. Rivolto ai "dimenticati", gli esclusi dall'agenda politica
Nelle ultime ore. Il via libera dalle commissioni competenti del Senato Usa alle nomine chiave della nuova amministrazione: dopo il segretario alla difesa James Mattis, anche il segretario di Stato Rex Tillerson e il nuovo direttore della Cia Mike Pompeo. Con il voto anche dei senatori repubblicani più ostili al nuovo presidente (John McCain e Marco Rubio). I primi ordini esecutivi firmati da Trump per imprimere da subito, già nei primi cento giorni, il nuovo corso alla Casa Bianca: ritiro dal TPP, il trattato di libero scambio con i Paesi asiatici (in realtà già bloccato al Congresso per l’opposizione dei repubblicani e scaricato anche dalla sua avversaria, Hillary Clinton); rinegoziazione del Nafta, l’accordo con Canada e Messico; autorizzati due oleodotti, il Keystone e il Dakota Access, bloccati da Obama; stop alle assunzioni nel governo federale; annuncio dello smantellamento dell’Obamacare. Poi, gli incontri di lunedì con i vertici del mondo dell’industria e quello di martedì con i principali produttori di automobili, a cui il neo presidente ha recapitato un messaggio chiaro: “Siamo di fronte a un ambientalismo fuori controllo. Renderemo più facile fare business”, con un taglio del 75% al quadro regolatorio e una riduzione delle tasse dal 35 al 15% per chi produce negli Stati Uniti. L’incontro, già venerdì prossimo a Washington, con la premier britannica Theresa May, che annuncia il ritorno dell’Anglosfera. E infine il discorso di insediamento di venerdì scorso, da cui tutti hanno compreso che il presidente Trump è il candidato Trump. Sono la stessa persona. Una chiarezza e una coerenza che sarà piaciuta molto a chi lo ha votato: l’arrivo a Washington non ha cambiato Trump, Trump è qui per cambiare Washington. Primi passi e un discorso che non cambiano l’analisi su Trump e la sua amministrazione che abbiamo azzardato su queste pagine sulla base degli elementi ad oggi in nostro possesso.
La sensazione è che mentre il giornalista collettivo è ancora in preda all’isteria anti-Trump, il nuovo presidente si sta concentrando su posti di lavoro, infrastrutture, politica estera. Per citare le sue parole, nel “rebuilding America”, nel “Make America Great Again”. La notizia insomma è che Trump fa sul serio. Può fallire, naturalmente, come qualsiasi presidente e come qualsiasi avventura umana, e gli ostacoli che si troverà di fronte non sono da sottovalutare: su tutti, il delicato rapporto con il Partito repubblicano, che controlla il Congresso, quindi il rischio di ritrovarsi senza partito, e i tentativi di disarcionarlo che proseguiranno per tutti i prossimi quattro anni. Ma quello che gli indignados di tv e carta stampata, delle elites e dei salotti perbene non hanno ancora capito è che se Trump è un outsider della politica americana, tuttavia la sua elezione non è uno scherzo del destino, non è un incidente della storia. Brexit e Trump rappresentano qualcosa di reale e profondo che si sta muovendo non solo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ma anche nell’Europa continentale e potrebbero segnare la storia come nemmeno l’11 settembre ha fatto. Le due democrazie anglosassoni si preparano a scrivere una pagina di storia diversa da quella scritta dagli anni 90′ in poi. Fino a pochi mesi fa, globalizzazione, multilateralismo, multiculturalismo e Unione europea sembravano processi ormai consolidati e destinati a dominare i prossimi decenni. E invece, siamo in procinto di un cambio di paradigma. I confini, le nazioni, esistono, fin tanto che i cittadini che ci sono dentro hanno voce in capitolo. Si cambia rotta.
E’ stato a suo modo rivoluzionario il discorso di insediamento di Trump: contro l’establishment politico di Washington e contro il (dis)ordine mondiale post-Guerra fredda. Protezionista in economia, nazionalista, ma non isolazionista. America First è uno slogan non completamente sovrapponibile al concetto di isolazionismo. Non dal momento che prevede il rilancio della potenza (e della spesa) militare tra le leve per rendere l’America di nuovo grande (e temuta). Non se la priorità dichiarata è quella di sconfiggere l’Isis. Non se la volontà è quella di contrastare l’espansionismo economico e militare della Cina. Non se con Trump e Brexit è la relazione speciale fra le due grandi democrazie anglosassoni, l’Anglosfera, a rimettersi in marcia (come indicano il ritorno del busto di Churchill nello studio ovale e l’incontro Trump-May già venerdì prossimo).
Non un’America chiusa in se stessa, né un pericolo autoritario, ma un’America concentrata a difendere i suoi interessi e i suoi confini, senza inseguire utopie mondialiste, velleità moralistiche e senza lo scrupolo di apparire buona e conciliante. L’americanismo contro l’ideologia globalista che si è affermata nel post-Guerra fredda, ma non disimpegno. Ed è comunque bizzarro che l’allarme per il protezionismo di Trump giunga da chi non si è dimostrato finora un campione del libero mercato e che la critica al suo presunto isolazionismo arrivi dagli stessi che solitamente condannano gli Usa per il loro interventismo. In realtà, al “ritiro dell’America” abbiamo assistito con Obama, che ha favorito la nascita dell’Isis in Iraq e Siria, il protagonismo della Russia di Putin in Medio Oriente e nell’est Europa, così come le manovre espansioniste di Pechino nel Mar cinese meridionale. Trump ha la possibilità invece di ricucire la tela sfilacciata dell’ordine mondiale, se non di tesserne uno nuovo.
Nel discorso di Trump, anche se molti hanno finto di non averlo sentito, c’è anche il rinnovato impegno americano nei confronti di alleati vecchi e nuovi e la promessa di un ruolo guida dell’America nella guerra al terrorismo, per la prima volta chiamato con il suo nome: islamico (“We will reinforce old alliances and form new ones – and unite the civilized world against Radical Islamic Terrorism”).
Impensabile che l’America abbandoni il libero mercato e il libero commercio, solo perché Trump ha fatto appello a “comprare americano e assumere americano” (siamo sommersi dagli appelli di politici e produttori alla tutela del Made in Italy e l’ideologia ambientalista del “km zero” è di moda, almeno tra chi può permetterselo). Ma il tentativo, questo sì, di correggere gli squilibri della globalizzazione. Due sembrano le armi che Trump ha intenzione di impugnare per “proteggere” la manifattura americana e i posti di lavoro americani. Da una parte, a torto o a ragione si vedrà, è convinto di poter portare a casa accordi migliori per gli americani: si tratta di rinegoziare vecchi accordi, come il Nafta, e siglarne di nuovi, meglio accordi bilaterali che ampie partnership. E dall’altra, rendere più favorevoli gli investimenti negli Stati Uniti (riducendo tasse e regolazione), scoraggiando la delocalizzazione e ricorrendo ai dazi solo in funzione difensiva, cioè per controbilanciare la concorrenza sleale della Cina o di altri Paesi. Una delle sfide sarà proprio aprire un aspro confronto con la Cina a cui dal suo ingresso nel WTO è stato permesso di tutto (dumping, contraffazione e manipolazione valutaria). È la Cina che ha in mente Trump quando parla di nazioni che si sono arricchite sulle spalle dell’America. Un deficit commerciale di 360 miliardi di dollari non è più sostenibile.
In una sua frase in particolare c’è la sintesi della critica alla globalizzazione: “The wealth of our middle class has been ripped from their homes and redistributed across the entire world”. Il tema esiste e negarlo non aiuta. Delocalizzazione crescente, ripresa con pochi posti di lavoro e di cattiva qualità, redditi stagnanti o in calo, nuove generazioni con prospettive peggiori di quelle dei genitori e dei nonni, mobilità sociale al palo. Riguarda non solo gli Stati Uniti, anche l’Europa. Sì, la globalizzazione ha aiutato i Paesi emergenti, favorito crescita, innovazione e progresso anche da noi, ma per alcuni non è stata un gioco a somma positiva e a Detroit non votano cinesi o indiani. Riprendendo un’espressione usata da Franklin Delano Roosevelt nel 1932, Trump ha parlato di uomini e donne “forgotten”, i dimenticati, la classe media di cui tutte le forze politiche e i governi si riempiono la bocca ma che in realtà è esclusa da tempo dall’agenda politica a vantaggio di un’agenda che ha il politicamente corretto come guida e utopie internazionaliste come cornice. “Francamente, non mi sono mai interessato a cosa fanno due adulti consenzienti quando vanno a letto assieme”, ha risposto il nuovo segretario alla difesa James Mattis, durante la sua confirmation hearing in Senato, ad una senatrice democratica che chiedeva cosa intendesse fare per “l’inserimento nelle forze armate di gay, lesbiche, bisex e transgender”.
Ma nemmeno se volesse Trump potrebbe riportare indietro le lancette dell’orologio mondiale. Dalla globalizzazione non si esce, ma si può provare a correggerne le distorsioni. Anche perché protagonisti della globalizzazione non sono solo attori economici, non solo le logiche del mercato, ma anche governi autoritari e illiberali che utilizzano i loro poteri per aggravare a loro vantaggio gli squilibri e ostacolare le compensazioni del mercato. Metodi che non hanno nulla a che vedere con libero commercio e libero mercato, ma con le vecchie politiche di potenza.
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Tuesday, January 17, 2017
Trump, sfida a Cina e Russia e rilancio dell'Anglosfera
Pubblicato su Ofcs Report
L'amministrazione Trump pronta ad aprire un confronto a tutto campo tra potenze per tentare di ricucire la tela sfilacciata dell'ordine mondiale
L’amministrazione Trump appare pronta a usare ogni possibile leva per ridefinire i rapporti di forza nelle relazioni degli Stati Uniti con i suoi due più importanti rivali strategici globali: la Cina e la Russia.
Quando mancano due giorni all’Inauguration Day, tv e giornali continuano a sfornare dossier e fake news. Il tutto nonostante la cerimonia di insediamento formale di Donald Trump alla Casa Bianca sia alle porte e il presidente eletto e le figure di spicco della sua amministrazione abbiano messo molta carne al fuoco.
Dall’inizio, il problema nella comprensione del fenomeno Trump – per citare le parole di un arguto osservatore – è che i suoi detrattori, in testa i media tradizionali, lo hanno preso alla lettera ma non sul serio. D’altro canto gran parte degli elettori americani non l’ha preso alla lettera ma l’ha preso molto molto sul serio. Ed è così che occorrerebbe iniziare a prendere Trump e la sua amministrazione, anziché continuare a tratteggiarne caricature.
In due interviste del presidente eletto, al Wall Street Journal e al Times, e nelle confirmation hearings del segretario di stato, del segretario alla difesa e del direttore della Cia davanti alle commissioni competenti del Senato, sono emerse indicazioni importanti per capire il nuovo corso alla Casa Bianca. Si cominciano a intravedere i pilastri della nuova politica estera Usa. Ridefinire i rapporti con i suoi due più importanti rivali strategici globali, la Cina e la Russia, ritenuti squilibrati a danno degli interessi americani. E, approfittando della Brexit, rilanciare la relazione speciale con il Regno Unito, che troverà nel mercato americano uno sbocco da 5-600 miliardi di dollari di consumi esteri annui, grazie all’accordo commerciale che Trump ha assicurato voler concludere “molto rapidamente” con la premier britannica Theresa May, che incontrerà già in primavera.
Se l’Isis è la minaccia numero uno semplicemente da annientare, Cina e Russia sono i grandi attori che in questi anni, inseguendo le loro ambizioni e approfittando dell’assenza di leadership americana, stanno sfidando (e quindi destabilizzando) l’ordine mondiale post-bellico per forzarne a proprio vantaggio gli equilibri. Prima che la situazione sfugga di mano, ammesso che non sia già troppo tardi, occorre un negoziato a tutto campo per ricucire la tela sfilacciata dell’ordine mondiale, se non per provare a tesserne una nuova. E l’Europa? Nella grande partita a scacchi che sta per aprirsi tra Washington (e Londra), Mosca e Pechino, rischia l’irrilevanza politica. Ma per parlare con l’Ue – ormai un “veicolo della Germania” l’ha definita Trump – almeno un telefono da chiamare c’è e sta a Berlino.
Nella sua audizione in Senato il futuro segretario di stato Rex Tillerson ha chiarito di non essere un fan di Vladimir Putin. In sintonia con il suo presidente, anche Tillerson auspica migliori relazioni con la Russia, ma non ad ogni costo. “Se la Russia cerca rispetto e rilevanza sulla scena globale, le sue recenti attività sono in contrasto con gli interessi degli Stati Uniti”. Ha definito “illegali” l’annessione della Crimea e l’invasione dell’est dell’Ucraina da parte russa, “inaccettabile” l’azione militare condotta su Aleppo. E ancora, si è detto favorevole al Magnitsky Act, che sanziona agenti russi coinvolti in violazioni dei diritti umani. La Russia di Putin non rispetta i diritti umani e lo stato di diritto, è quindi un avversario dell’America “a livello ideologico”, “i nostri sistemi di valori sono fortemente diversi”. Stati Uniti e Russia “probabilmente non saranno mai amici”. Parole che possono sorprendere solo chi ingenuamente e semplicisticamente aveva bollato Tillerson come uno zerbino di Putin solo perché a capo della Exxon ha siglato importanti accordi in Russia ed è stato insignito dal presidente russo dell’Ordine dell’Amicizia.
Il punto è che se oggi Putin può vantare i maggiori successi geopolitici e militari russi da decenni, è solo grazie “all’assenza di leadership americana” negli ultimi anni. E’ durante gli otto anni di Obama alla Casa Bianca infatti che Putin si è preso la Crimea e minaccia mezza Ucraina e i Paesi baltici. Inoltre dopo la Siria (in asse con l’Iran), sta per mettere le mani sulla Libia con il generale Haftar, in asse con l’Egitto. La risposta dell’amministrazione Obama è stata “debole”, lasciando spazio e coraggio alla Russia sia in Ucraina che in Siria. Tillerson avrebbe suggerito a Kiev di “impiegare tutte le sue risorse militari per rafforzare le difese dei suoi confini orientali” e a Stati Uniti e Nato di fornire “sorveglianza aerea e intelligence”. Questo avrebbe avvertito la Russia che non sarebbe potuta andare oltre la Crimea perché avrebbe rischiato un “confronto militare diretto con gli Usa”. La Russia, ha spiegato, “ha bisogno di vedere una risposta forte prima di considerare un passo indietro”. Per Tillerson le sanzioni imposte da Obama hanno invece mostrato “debolezza, non forza”, agli occhi di Mosca. Sono un’arma spuntata per tre motivi: danneggiano anche le imprese americane; non sono quasi mai adottate da abbastanza paesi; e hanno aiutato a rafforzare Putin sul fronte interno.
“La Russia oggi rappresenta un pericolo e i nostri alleati nella Nato hanno ragione di essere allarmati” da questa “resurgent” Russia, è l’analisi di Tillerson, ma per fortuna non è un attore imprevedibile. “La Russia cerca un posto al tavolo dove i temi globali vengono discussi – spiega il futuro segretario di stato – Credono che gli spetti un adeguato ruolo nell’ordine mondiale dal momento che sono una potenza nucleare. Per la maggior parte degli oltre vent’anni dalla caduta dell’Urss non sono stati nella posizione di riaffermare il loro ruolo. Hanno passato tutti questi anni sviluppando la capacità per riuscirci – continua – Ora ciò cui stiamo assistendo è un’affermazione da parte loro al fine di ‘forzare’ un confronto sul ruolo della Russia nell’ordine mondiale. Quindi le azioni intraprese sono volte a ribadire che la Russia è qui, la Russia conta, è una forza con cui bisogna trattare. E’ una linea d’azione abbastanza prevedibile quella che stanno seguendo”.
Quindi Tillerson suggerisce un dialogo franco e aperto con la Russia riguardo le sue ambizioni, anche “per capire come tracciare la nostra linea d’azione”. Dialogo che a volte porterà ad una partnership, per esempio nel combattere il terrorismo islamico. Per la nuova amministrazione Usa infatti la sconfitta dell’Isis è la priorità, come ribadito dal presidente Trump anche nell’intervista al Times. In altri casi, tuttavia, gli Stati Uniti dovranno assumere forti iniziative quando gli interessi russi contrastano con quelli americani. Come in Ucraina.
L’approccio dell’ex ceo di Exxon, come quello di Trump, è chiaramente quello del negoziatore d’affari. Non sono ideologi, sono pragmatici. “Deal with the real”… identificare le aree dove il dare-avere è possibile, le posizioni negoziali iniziali e le alternative, e le linee rosse da far rispettare. Insomma, un processo negoziale fondato su una linea chiara, sostenuta dalla determinazione ad usare la forza. Proprio tutto ciò che con la Russia, dalla crisi ucraina a quella siriana, l’amministrazione Obama non ha voluto/saputo fare.
In tale analisi si inserisce il tema delle sanzioni contro Mosca. Nonostante il suo scetticismo su questo strumento di pressione, Tillerson è favorevole a mantenerle, almeno “fino a quando Washington non svilupperà ulteriormente la sua linea nei confronti della Russia. Lascerei le cose allo status quo – ha affermato – così potremmo indirizzarle in qualsiasi modo”. Anche il presidente Trump, al Wall Street Journal, ha detto di voler mantenere le sanzioni contro Mosca “almeno per un periodo di tempo”. Ovvio, è un bastone che c’è già, e non per volontà di questa amministrazione, perché mai privarsene come arma negoziale? Trump ha spiegato che potrebbe revocarle “se davvero la Russia ci aiuterà”, se si dimostrerà collaborativa nel combattere i terroristi e perseguire obiettivi importanti per gli Stati Uniti. “Vediamo se riusciamo a fare qualche buon accordo con la Russia”, ha spiegato nell’intervista al Times, lasciando quindi intravedere a Mosca la carota della revoca, ma non senza contropartite concrete: un accordo sulla riduzione delle armi nucleari è quanto ha evocato, per esempio, per iniziare col piede giusto. Ma nemmeno Trump si fa illusioni sul presidente russo. “Inizio confidando in entrambi”, ha detto su Putin e Merkel sempre al Times, ma ha anche aggiunto: “Vediamo quanto dura… potrebbe non durare a lungo”.
La nuova amministrazione Usa tenterà quindi di trovare un nuovo equilibrio con la Russia, ma tutti hanno ben presenti le linee rosse da non oltrepassare e nessuno ha intenzione di vendere l’anima a Putin. Non nascerà forse la migliore delle amicizie, ma può essere l’inizio di una relazione più realistica, più prevedibile, di un nuovo equilibrio che può convenire a entrambi.
Ben più duro è apparso l’approccio dell’amministrazione Trump nei confronti di Pechino. D’altra parte, la Russia è una potenza energetica e militare, ma quanto a ricchezza e leadership globale, la vera competizione del XXI secolo è quella tra Stati Uniti e Cina. Mettere in discussione la politica di una “sola Cina”, in vigore dal 1972, cioè dall’inizio del processo di normalizzazione delle relazioni tra Washington e Pechino, equivale infatti ad agitare un grosso bastone. Al WSJ Trump ha spiegato che non intende impegnarsi nella politica di “una sola Cina” finché non vedrà progressi da parte di Pechino nella sua politica monetaria e nelle sue pratiche commerciali, che il presidente eletto ritiene scorrette e manipolatorie. E’ quello il punto, costringere i cinesi ad aprire un nuovo negoziato sul commercio. Non è più accettabile per l’America di Trump un deficit commerciale di circa 360 miliardi di dollari. E in ballo per Pechino ci sono esportazioni per un valore di quasi 500 miliardi. Con Pechino “tutto è oggetto di negoziato, inclusa la politica di una sola Cina”, ha detto Trump al WSJ. Parole che suonano come una sorta di reset, di una tabula rasa nei rapporti Usa-Cina. Non era una gaffe quindi la telefonata di congratulazioni avuta dal presidente eletto con la presidente di Taiwan all’indomani del voto di novembre, che ha irritato Pechino proprio perché interpretata come segnale di rottura dalla politica di “una sola Cina”.
E nella sua audizione in Senato il futuro segretario di stato Tillerson ha rincarato la dose, paragonando all’annessione della Crimea da parte russa le attività della Cina sulle isole che ha “costruito” e militarizzato in un’area del Mar cinese meridionale, da anni oggetto di dispute territoriali: “Costruire isole e trasformarle in una risorsa militare è simile all’annessione russa della Crimea. È prendere territori altrui e reclamarli come propri”. Qualcosa quindi di illegale: “Dovremo mandare alla Cina un segnale chiaro, prima di tutto che fermi la costruzione di isole, poi che il suo accesso a queste isole non verrà consentito”. Di fatto ponendo le basi per un confronto militare. “La Cina – ha aggiunto – non è stata un partner affidabile, perché non ha usato tutta la sua influenza per mettere a freno la Corea del Nord” nel suo programma nucleare. “Pechino ha dimostrato solo un’incrollabile volontà di perseguire i suoi disegni strategici mettendosi a volte in contrasto con gli interessi statunitensi. Dovremo affrontare la realtà per quella che è e non per quella che vorremmo che fosse”, ha concluso Tillerson. Deal with the real…
Nel suo recente libro “World Order” (2014), Henry Kissinger sostiene che il mondo è in una pericolosa condizione sull’orlo dell’anarchia internazionale. Due dei quattro scenari da cui a suo avviso può svilupparsi un conflitto su larga scala sono il deterioramento delle relazioni Cina-Stati Uniti e una rottura Russia-Occidente. Proprio per questo è innanzitutto tra Stati Uniti, Cina e Russia (sì, ancora loro, le nazioni) che deve riprendere la ricerca di nuove regole, nuovi equilibri, nuove legittimità. Insomma, o un nuovo ordine mondiale o un caos distruttivo.
L'amministrazione Trump pronta ad aprire un confronto a tutto campo tra potenze per tentare di ricucire la tela sfilacciata dell'ordine mondiale
L’amministrazione Trump appare pronta a usare ogni possibile leva per ridefinire i rapporti di forza nelle relazioni degli Stati Uniti con i suoi due più importanti rivali strategici globali: la Cina e la Russia.
Quando mancano due giorni all’Inauguration Day, tv e giornali continuano a sfornare dossier e fake news. Il tutto nonostante la cerimonia di insediamento formale di Donald Trump alla Casa Bianca sia alle porte e il presidente eletto e le figure di spicco della sua amministrazione abbiano messo molta carne al fuoco.
Dall’inizio, il problema nella comprensione del fenomeno Trump – per citare le parole di un arguto osservatore – è che i suoi detrattori, in testa i media tradizionali, lo hanno preso alla lettera ma non sul serio. D’altro canto gran parte degli elettori americani non l’ha preso alla lettera ma l’ha preso molto molto sul serio. Ed è così che occorrerebbe iniziare a prendere Trump e la sua amministrazione, anziché continuare a tratteggiarne caricature.
In due interviste del presidente eletto, al Wall Street Journal e al Times, e nelle confirmation hearings del segretario di stato, del segretario alla difesa e del direttore della Cia davanti alle commissioni competenti del Senato, sono emerse indicazioni importanti per capire il nuovo corso alla Casa Bianca. Si cominciano a intravedere i pilastri della nuova politica estera Usa. Ridefinire i rapporti con i suoi due più importanti rivali strategici globali, la Cina e la Russia, ritenuti squilibrati a danno degli interessi americani. E, approfittando della Brexit, rilanciare la relazione speciale con il Regno Unito, che troverà nel mercato americano uno sbocco da 5-600 miliardi di dollari di consumi esteri annui, grazie all’accordo commerciale che Trump ha assicurato voler concludere “molto rapidamente” con la premier britannica Theresa May, che incontrerà già in primavera.
Se l’Isis è la minaccia numero uno semplicemente da annientare, Cina e Russia sono i grandi attori che in questi anni, inseguendo le loro ambizioni e approfittando dell’assenza di leadership americana, stanno sfidando (e quindi destabilizzando) l’ordine mondiale post-bellico per forzarne a proprio vantaggio gli equilibri. Prima che la situazione sfugga di mano, ammesso che non sia già troppo tardi, occorre un negoziato a tutto campo per ricucire la tela sfilacciata dell’ordine mondiale, se non per provare a tesserne una nuova. E l’Europa? Nella grande partita a scacchi che sta per aprirsi tra Washington (e Londra), Mosca e Pechino, rischia l’irrilevanza politica. Ma per parlare con l’Ue – ormai un “veicolo della Germania” l’ha definita Trump – almeno un telefono da chiamare c’è e sta a Berlino.
Nella sua audizione in Senato il futuro segretario di stato Rex Tillerson ha chiarito di non essere un fan di Vladimir Putin. In sintonia con il suo presidente, anche Tillerson auspica migliori relazioni con la Russia, ma non ad ogni costo. “Se la Russia cerca rispetto e rilevanza sulla scena globale, le sue recenti attività sono in contrasto con gli interessi degli Stati Uniti”. Ha definito “illegali” l’annessione della Crimea e l’invasione dell’est dell’Ucraina da parte russa, “inaccettabile” l’azione militare condotta su Aleppo. E ancora, si è detto favorevole al Magnitsky Act, che sanziona agenti russi coinvolti in violazioni dei diritti umani. La Russia di Putin non rispetta i diritti umani e lo stato di diritto, è quindi un avversario dell’America “a livello ideologico”, “i nostri sistemi di valori sono fortemente diversi”. Stati Uniti e Russia “probabilmente non saranno mai amici”. Parole che possono sorprendere solo chi ingenuamente e semplicisticamente aveva bollato Tillerson come uno zerbino di Putin solo perché a capo della Exxon ha siglato importanti accordi in Russia ed è stato insignito dal presidente russo dell’Ordine dell’Amicizia.
Il punto è che se oggi Putin può vantare i maggiori successi geopolitici e militari russi da decenni, è solo grazie “all’assenza di leadership americana” negli ultimi anni. E’ durante gli otto anni di Obama alla Casa Bianca infatti che Putin si è preso la Crimea e minaccia mezza Ucraina e i Paesi baltici. Inoltre dopo la Siria (in asse con l’Iran), sta per mettere le mani sulla Libia con il generale Haftar, in asse con l’Egitto. La risposta dell’amministrazione Obama è stata “debole”, lasciando spazio e coraggio alla Russia sia in Ucraina che in Siria. Tillerson avrebbe suggerito a Kiev di “impiegare tutte le sue risorse militari per rafforzare le difese dei suoi confini orientali” e a Stati Uniti e Nato di fornire “sorveglianza aerea e intelligence”. Questo avrebbe avvertito la Russia che non sarebbe potuta andare oltre la Crimea perché avrebbe rischiato un “confronto militare diretto con gli Usa”. La Russia, ha spiegato, “ha bisogno di vedere una risposta forte prima di considerare un passo indietro”. Per Tillerson le sanzioni imposte da Obama hanno invece mostrato “debolezza, non forza”, agli occhi di Mosca. Sono un’arma spuntata per tre motivi: danneggiano anche le imprese americane; non sono quasi mai adottate da abbastanza paesi; e hanno aiutato a rafforzare Putin sul fronte interno.
“La Russia oggi rappresenta un pericolo e i nostri alleati nella Nato hanno ragione di essere allarmati” da questa “resurgent” Russia, è l’analisi di Tillerson, ma per fortuna non è un attore imprevedibile. “La Russia cerca un posto al tavolo dove i temi globali vengono discussi – spiega il futuro segretario di stato – Credono che gli spetti un adeguato ruolo nell’ordine mondiale dal momento che sono una potenza nucleare. Per la maggior parte degli oltre vent’anni dalla caduta dell’Urss non sono stati nella posizione di riaffermare il loro ruolo. Hanno passato tutti questi anni sviluppando la capacità per riuscirci – continua – Ora ciò cui stiamo assistendo è un’affermazione da parte loro al fine di ‘forzare’ un confronto sul ruolo della Russia nell’ordine mondiale. Quindi le azioni intraprese sono volte a ribadire che la Russia è qui, la Russia conta, è una forza con cui bisogna trattare. E’ una linea d’azione abbastanza prevedibile quella che stanno seguendo”.
Quindi Tillerson suggerisce un dialogo franco e aperto con la Russia riguardo le sue ambizioni, anche “per capire come tracciare la nostra linea d’azione”. Dialogo che a volte porterà ad una partnership, per esempio nel combattere il terrorismo islamico. Per la nuova amministrazione Usa infatti la sconfitta dell’Isis è la priorità, come ribadito dal presidente Trump anche nell’intervista al Times. In altri casi, tuttavia, gli Stati Uniti dovranno assumere forti iniziative quando gli interessi russi contrastano con quelli americani. Come in Ucraina.
L’approccio dell’ex ceo di Exxon, come quello di Trump, è chiaramente quello del negoziatore d’affari. Non sono ideologi, sono pragmatici. “Deal with the real”… identificare le aree dove il dare-avere è possibile, le posizioni negoziali iniziali e le alternative, e le linee rosse da far rispettare. Insomma, un processo negoziale fondato su una linea chiara, sostenuta dalla determinazione ad usare la forza. Proprio tutto ciò che con la Russia, dalla crisi ucraina a quella siriana, l’amministrazione Obama non ha voluto/saputo fare.
In tale analisi si inserisce il tema delle sanzioni contro Mosca. Nonostante il suo scetticismo su questo strumento di pressione, Tillerson è favorevole a mantenerle, almeno “fino a quando Washington non svilupperà ulteriormente la sua linea nei confronti della Russia. Lascerei le cose allo status quo – ha affermato – così potremmo indirizzarle in qualsiasi modo”. Anche il presidente Trump, al Wall Street Journal, ha detto di voler mantenere le sanzioni contro Mosca “almeno per un periodo di tempo”. Ovvio, è un bastone che c’è già, e non per volontà di questa amministrazione, perché mai privarsene come arma negoziale? Trump ha spiegato che potrebbe revocarle “se davvero la Russia ci aiuterà”, se si dimostrerà collaborativa nel combattere i terroristi e perseguire obiettivi importanti per gli Stati Uniti. “Vediamo se riusciamo a fare qualche buon accordo con la Russia”, ha spiegato nell’intervista al Times, lasciando quindi intravedere a Mosca la carota della revoca, ma non senza contropartite concrete: un accordo sulla riduzione delle armi nucleari è quanto ha evocato, per esempio, per iniziare col piede giusto. Ma nemmeno Trump si fa illusioni sul presidente russo. “Inizio confidando in entrambi”, ha detto su Putin e Merkel sempre al Times, ma ha anche aggiunto: “Vediamo quanto dura… potrebbe non durare a lungo”.
La nuova amministrazione Usa tenterà quindi di trovare un nuovo equilibrio con la Russia, ma tutti hanno ben presenti le linee rosse da non oltrepassare e nessuno ha intenzione di vendere l’anima a Putin. Non nascerà forse la migliore delle amicizie, ma può essere l’inizio di una relazione più realistica, più prevedibile, di un nuovo equilibrio che può convenire a entrambi.
Ben più duro è apparso l’approccio dell’amministrazione Trump nei confronti di Pechino. D’altra parte, la Russia è una potenza energetica e militare, ma quanto a ricchezza e leadership globale, la vera competizione del XXI secolo è quella tra Stati Uniti e Cina. Mettere in discussione la politica di una “sola Cina”, in vigore dal 1972, cioè dall’inizio del processo di normalizzazione delle relazioni tra Washington e Pechino, equivale infatti ad agitare un grosso bastone. Al WSJ Trump ha spiegato che non intende impegnarsi nella politica di “una sola Cina” finché non vedrà progressi da parte di Pechino nella sua politica monetaria e nelle sue pratiche commerciali, che il presidente eletto ritiene scorrette e manipolatorie. E’ quello il punto, costringere i cinesi ad aprire un nuovo negoziato sul commercio. Non è più accettabile per l’America di Trump un deficit commerciale di circa 360 miliardi di dollari. E in ballo per Pechino ci sono esportazioni per un valore di quasi 500 miliardi. Con Pechino “tutto è oggetto di negoziato, inclusa la politica di una sola Cina”, ha detto Trump al WSJ. Parole che suonano come una sorta di reset, di una tabula rasa nei rapporti Usa-Cina. Non era una gaffe quindi la telefonata di congratulazioni avuta dal presidente eletto con la presidente di Taiwan all’indomani del voto di novembre, che ha irritato Pechino proprio perché interpretata come segnale di rottura dalla politica di “una sola Cina”.
E nella sua audizione in Senato il futuro segretario di stato Tillerson ha rincarato la dose, paragonando all’annessione della Crimea da parte russa le attività della Cina sulle isole che ha “costruito” e militarizzato in un’area del Mar cinese meridionale, da anni oggetto di dispute territoriali: “Costruire isole e trasformarle in una risorsa militare è simile all’annessione russa della Crimea. È prendere territori altrui e reclamarli come propri”. Qualcosa quindi di illegale: “Dovremo mandare alla Cina un segnale chiaro, prima di tutto che fermi la costruzione di isole, poi che il suo accesso a queste isole non verrà consentito”. Di fatto ponendo le basi per un confronto militare. “La Cina – ha aggiunto – non è stata un partner affidabile, perché non ha usato tutta la sua influenza per mettere a freno la Corea del Nord” nel suo programma nucleare. “Pechino ha dimostrato solo un’incrollabile volontà di perseguire i suoi disegni strategici mettendosi a volte in contrasto con gli interessi statunitensi. Dovremo affrontare la realtà per quella che è e non per quella che vorremmo che fosse”, ha concluso Tillerson. Deal with the real…
Nel suo recente libro “World Order” (2014), Henry Kissinger sostiene che il mondo è in una pericolosa condizione sull’orlo dell’anarchia internazionale. Due dei quattro scenari da cui a suo avviso può svilupparsi un conflitto su larga scala sono il deterioramento delle relazioni Cina-Stati Uniti e una rottura Russia-Occidente. Proprio per questo è innanzitutto tra Stati Uniti, Cina e Russia (sì, ancora loro, le nazioni) che deve riprendere la ricerca di nuove regole, nuovi equilibri, nuove legittimità. Insomma, o un nuovo ordine mondiale o un caos distruttivo.
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