Pubblicato su Ofcs Report
L'amministrazione Trump pronta ad
aprire un confronto a tutto campo tra potenze per tentare di ricucire
la tela sfilacciata dell'ordine mondiale
L’amministrazione Trump appare pronta a usare ogni possibile leva per ridefinire i rapporti di forza nelle relazioni degli Stati Uniti con i suoi due più importanti rivali strategici globali: la Cina e la Russia.
Quando mancano due giorni all’Inauguration Day, tv e giornali continuano a sfornare dossier e fake news. Il tutto nonostante la cerimonia di insediamento formale di Donald Trump alla Casa Bianca sia alle porte e il presidente eletto e le figure di spicco della sua amministrazione abbiano messo molta carne al fuoco.
Dall’inizio, il problema nella comprensione del fenomeno Trump – per citare le parole di un arguto osservatore – è che i suoi detrattori, in testa i media tradizionali, lo hanno preso alla lettera ma non sul serio. D’altro canto gran parte degli elettori americani non l’ha preso alla lettera ma l’ha preso molto molto sul serio. Ed è così che occorrerebbe iniziare a prendere Trump e la sua amministrazione, anziché continuare a tratteggiarne caricature.
In due interviste del presidente eletto, al Wall Street Journal e al Times, e nelle confirmation hearings del segretario di stato, del segretario alla difesa e del direttore della Cia davanti alle commissioni competenti del Senato, sono emerse indicazioni importanti per capire il nuovo corso alla Casa Bianca. Si cominciano a intravedere i pilastri della nuova politica estera Usa. Ridefinire i rapporti con i suoi due più importanti rivali strategici globali, la Cina e la Russia, ritenuti squilibrati a danno degli interessi americani. E, approfittando della Brexit, rilanciare la relazione speciale con il Regno Unito, che troverà nel mercato americano uno sbocco da 5-600 miliardi di dollari di consumi esteri annui, grazie all’accordo commerciale che Trump ha assicurato voler concludere “molto rapidamente” con la premier britannica Theresa May, che incontrerà già in primavera.
Se l’Isis è la minaccia numero uno semplicemente da annientare, Cina e Russia sono i grandi attori che in questi anni, inseguendo le loro ambizioni e approfittando dell’assenza di leadership americana, stanno sfidando (e quindi destabilizzando) l’ordine mondiale post-bellico per forzarne a proprio vantaggio gli equilibri. Prima che la situazione sfugga di mano, ammesso che non sia già troppo tardi, occorre un negoziato a tutto campo per ricucire la tela sfilacciata dell’ordine mondiale, se non per provare a tesserne una nuova. E l’Europa? Nella grande partita a scacchi che sta per aprirsi tra Washington (e Londra), Mosca e Pechino, rischia l’irrilevanza politica. Ma per parlare con l’Ue – ormai un “veicolo della Germania” l’ha definita Trump – almeno un telefono da chiamare c’è e sta a Berlino.
Nella sua audizione in Senato il futuro segretario di stato Rex Tillerson ha chiarito di non essere un fan di Vladimir Putin. In sintonia con il suo presidente, anche Tillerson auspica migliori relazioni con la Russia, ma non ad ogni costo. “Se la Russia cerca rispetto e rilevanza sulla scena globale, le sue recenti attività sono in contrasto con gli interessi degli Stati Uniti”. Ha definito “illegali” l’annessione della Crimea e l’invasione dell’est dell’Ucraina da parte russa, “inaccettabile” l’azione militare condotta su Aleppo. E ancora, si è detto favorevole al Magnitsky Act, che sanziona agenti russi coinvolti in violazioni dei diritti umani. La Russia di Putin non rispetta i diritti umani e lo stato di diritto, è quindi un avversario dell’America “a livello ideologico”, “i nostri sistemi di valori sono fortemente diversi”. Stati Uniti e Russia “probabilmente non saranno mai amici”. Parole che possono sorprendere solo chi ingenuamente e semplicisticamente aveva bollato Tillerson come uno zerbino di Putin solo perché a capo della Exxon ha siglato importanti accordi in Russia ed è stato insignito dal presidente russo dell’Ordine dell’Amicizia.
Il punto è che se oggi Putin può vantare i maggiori successi geopolitici e militari russi da decenni, è solo grazie “all’assenza di leadership americana” negli ultimi anni. E’ durante gli otto anni di Obama alla Casa Bianca infatti che Putin si è preso la Crimea e minaccia mezza Ucraina e i Paesi baltici. Inoltre dopo la Siria (in asse con l’Iran), sta per mettere le mani sulla Libia con il generale Haftar, in asse con l’Egitto. La risposta dell’amministrazione Obama è stata “debole”, lasciando spazio e coraggio alla Russia sia in Ucraina che in Siria. Tillerson avrebbe suggerito a Kiev di “impiegare tutte le sue risorse militari per rafforzare le difese dei suoi confini orientali” e a Stati Uniti e Nato di fornire “sorveglianza aerea e intelligence”. Questo avrebbe avvertito la Russia che non sarebbe potuta andare oltre la Crimea perché avrebbe rischiato un “confronto militare diretto con gli Usa”. La Russia, ha spiegato, “ha bisogno di vedere una risposta forte prima di considerare un passo indietro”. Per Tillerson le sanzioni imposte da Obama hanno invece mostrato “debolezza, non forza”, agli occhi di Mosca. Sono un’arma spuntata per tre motivi: danneggiano anche le imprese americane; non sono quasi mai adottate da abbastanza paesi; e hanno aiutato a rafforzare Putin sul fronte interno.
“La Russia oggi rappresenta un pericolo e i nostri alleati nella Nato hanno ragione di essere allarmati” da questa “resurgent” Russia, è l’analisi di Tillerson, ma per fortuna non è un attore imprevedibile. “La Russia cerca un posto al tavolo dove i temi globali vengono discussi – spiega il futuro segretario di stato – Credono che gli spetti un adeguato ruolo nell’ordine mondiale dal momento che sono una potenza nucleare. Per la maggior parte degli oltre vent’anni dalla caduta dell’Urss non sono stati nella posizione di riaffermare il loro ruolo. Hanno passato tutti questi anni sviluppando la capacità per riuscirci – continua – Ora ciò cui stiamo assistendo è un’affermazione da parte loro al fine di ‘forzare’ un confronto sul ruolo della Russia nell’ordine mondiale. Quindi le azioni intraprese sono volte a ribadire che la Russia è qui, la Russia conta, è una forza con cui bisogna trattare. E’ una linea d’azione abbastanza prevedibile quella che stanno seguendo”.
Quindi Tillerson suggerisce un dialogo franco e aperto con la Russia riguardo le sue ambizioni, anche “per capire come tracciare la nostra linea d’azione”. Dialogo che a volte porterà ad una partnership, per esempio nel combattere il terrorismo islamico. Per la nuova amministrazione Usa infatti la sconfitta dell’Isis è la priorità, come ribadito dal presidente Trump anche nell’intervista al Times. In altri casi, tuttavia, gli Stati Uniti dovranno assumere forti iniziative quando gli interessi russi contrastano con quelli americani. Come in Ucraina.
L’approccio dell’ex ceo di Exxon, come quello di Trump, è chiaramente quello del negoziatore d’affari. Non sono ideologi, sono pragmatici. “Deal with the real”… identificare le aree dove il dare-avere è possibile, le posizioni negoziali iniziali e le alternative, e le linee rosse da far rispettare. Insomma, un processo negoziale fondato su una linea chiara, sostenuta dalla determinazione ad usare la forza. Proprio tutto ciò che con la Russia, dalla crisi ucraina a quella siriana, l’amministrazione Obama non ha voluto/saputo fare.
In tale analisi si inserisce il tema delle sanzioni contro Mosca. Nonostante il suo scetticismo su questo strumento di pressione, Tillerson è favorevole a mantenerle, almeno “fino a quando Washington non svilupperà ulteriormente la sua linea nei confronti della Russia. Lascerei le cose allo status quo – ha affermato – così potremmo indirizzarle in qualsiasi modo”. Anche il presidente Trump, al Wall Street Journal, ha detto di voler mantenere le sanzioni contro Mosca “almeno per un periodo di tempo”. Ovvio, è un bastone che c’è già, e non per volontà di questa amministrazione, perché mai privarsene come arma negoziale? Trump ha spiegato che potrebbe revocarle “se davvero la Russia ci aiuterà”, se si dimostrerà collaborativa nel combattere i terroristi e perseguire obiettivi importanti per gli Stati Uniti. “Vediamo se riusciamo a fare qualche buon accordo con la Russia”, ha spiegato nell’intervista al Times, lasciando quindi intravedere a Mosca la carota della revoca, ma non senza contropartite concrete: un accordo sulla riduzione delle armi nucleari è quanto ha evocato, per esempio, per iniziare col piede giusto. Ma nemmeno Trump si fa illusioni sul presidente russo. “Inizio confidando in entrambi”, ha detto su Putin e Merkel sempre al Times, ma ha anche aggiunto: “Vediamo quanto dura… potrebbe non durare a lungo”.
La nuova amministrazione Usa tenterà quindi di trovare un nuovo equilibrio con la Russia, ma tutti hanno ben presenti le linee rosse da non oltrepassare e nessuno ha intenzione di vendere l’anima a Putin. Non nascerà forse la migliore delle amicizie, ma può essere l’inizio di una relazione più realistica, più prevedibile, di un nuovo equilibrio che può convenire a entrambi.
Ben più duro è apparso l’approccio dell’amministrazione Trump nei confronti di Pechino. D’altra parte, la Russia è una potenza energetica e militare, ma quanto a ricchezza e leadership globale, la vera competizione del XXI secolo è quella tra Stati Uniti e Cina. Mettere in discussione la politica di una “sola Cina”, in vigore dal 1972, cioè dall’inizio del processo di normalizzazione delle relazioni tra Washington e Pechino, equivale infatti ad agitare un grosso bastone. Al WSJ Trump ha spiegato che non intende impegnarsi nella politica di “una sola Cina” finché non vedrà progressi da parte di Pechino nella sua politica monetaria e nelle sue pratiche commerciali, che il presidente eletto ritiene scorrette e manipolatorie. E’ quello il punto, costringere i cinesi ad aprire un nuovo negoziato sul commercio. Non è più accettabile per l’America di Trump un deficit commerciale di circa 360 miliardi di dollari. E in ballo per Pechino ci sono esportazioni per un valore di quasi 500 miliardi. Con Pechino “tutto è oggetto di negoziato, inclusa la politica di una sola Cina”, ha detto Trump al WSJ. Parole che suonano come una sorta di reset, di una tabula rasa nei rapporti Usa-Cina. Non era una gaffe quindi la telefonata di congratulazioni avuta dal presidente eletto con la presidente di Taiwan all’indomani del voto di novembre, che ha irritato Pechino proprio perché interpretata come segnale di rottura dalla politica di “una sola Cina”.
E nella sua audizione in Senato il futuro segretario di stato Tillerson ha rincarato la dose, paragonando all’annessione della Crimea da parte russa le attività della Cina sulle isole che ha “costruito” e militarizzato in un’area del Mar cinese meridionale, da anni oggetto di dispute territoriali: “Costruire isole e trasformarle in una risorsa militare è simile all’annessione russa della Crimea. È prendere territori altrui e reclamarli come propri”. Qualcosa quindi di illegale: “Dovremo mandare alla Cina un segnale chiaro, prima di tutto che fermi la costruzione di isole, poi che il suo accesso a queste isole non verrà consentito”. Di fatto ponendo le basi per un confronto militare. “La Cina – ha aggiunto – non è stata un partner affidabile, perché non ha usato tutta la sua influenza per mettere a freno la Corea del Nord” nel suo programma nucleare. “Pechino ha dimostrato solo un’incrollabile volontà di perseguire i suoi disegni strategici mettendosi a volte in contrasto con gli interessi statunitensi. Dovremo affrontare la realtà per quella che è e non per quella che vorremmo che fosse”, ha concluso Tillerson. Deal with the real…
Nel suo recente libro “World Order” (2014), Henry Kissinger sostiene che il mondo è in una pericolosa condizione sull’orlo dell’anarchia internazionale. Due dei quattro scenari da cui a suo avviso può svilupparsi un conflitto su larga scala sono il deterioramento delle relazioni Cina-Stati Uniti e una rottura Russia-Occidente. Proprio per questo è innanzitutto tra Stati Uniti, Cina e Russia (sì, ancora loro, le nazioni) che deve riprendere la ricerca di nuove regole, nuovi equilibri, nuove legittimità. Insomma, o un nuovo ordine mondiale o un caos distruttivo.
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Tuesday, January 17, 2017
Wednesday, February 02, 2011
Un errore ripudiare la Freedom Agenda di Bush
Su taccuinopolitico.it
Andava invece perseguita con maggiore determinazione e oggi avremmo temuto meno il post-Mubarak
Neanche l'amministrazione Bush è riuscita a ottenere da Mubarak le riforme politiche ed economiche che chiedeva, né che favorisse l'emergere di partiti politici non islamici, e forse la colpa di questa situazione è solo sua, di Mubarak, come ha scritto Stephen J. Hadley, consigliere per la sicurezza nazionale dell'ex presidente repubblicano, sul Wall Street Journal. Ma i fatti di questi giorni sembrano dimostrare che Bush aveva visto giusto, che l'idea alla base della Freedom Agenda del contestatissimo ex presidente, che faceva propria la visione dell'area neocon, era corretta. In centinaia di migliaia – dalla Tunisia all'Egitto, dal Libano allo Yemen, come due anni fa in Iran – marciano non per la Jihad, come vorrebbe al Qaeda, non per la causa palestinese contro Israele, né contro l'America. Marciano per la libertà e per migliori condizioni economiche. In una parola: per la modernità. E questa aspirazione era, ed è, la migliore arma in mano all'Occidente per combattere la minaccia dell'estremismo islamico. Anziché nutrire questa aspirazione, tuttavia, i leader occidentali, e persino quelli americani, l'hanno trascurata: per allontanarsi il più possibile dalle impopolari politiche di George W. Bush; nell'illusione che i regimi autoritari avrebbero svolto il lavoro sporco al posto nostro; e in attesa che la soluzione del conflitto israelo-palestinese, prima o poi, scrivesse magicamente la parola fine su tutti i mali del Medio Oriente.
(...)
Non sempre la sua amministrazione ha agito coerentemente con la Freedom Agenda, ma Bush ne era consapevole quando affermava che «aver giustificato per sessant’anni la mancanza di libertà in Medio Oriente non ci ha resi più sicuri, perché nel lungo periodo la stabilità non può essere ottenuta a scapito della libertà» e «finché il Medio Oriente rimane una regione in cui la libertà non fiorisce, rimarrà una regione di stagnazione, risentimento e violenza pronti per essere esportati».
(...)
Per l'Occidente, e l'America soprattutto, mostrarsi «amici» di tali regimi, molto più che le guerre combattute contro i talebani e Saddam Hussein, ha significato perdere la battaglia per le menti e i cuori di gran parte delle "piazze arabe". E ad approfittarne sono stati proprio gli islamisti, che invece hanno saputo cavalcare il malcontento. Non solo sui ceti più popolari...
Da un articolo di Leon Wieseltier su The New Republic, ripreso e tradotto da Il Foglio, risultano chiari i limiti del cosiddetto "realismo" e della politica di Obama:
Andava invece perseguita con maggiore determinazione e oggi avremmo temuto meno il post-Mubarak
Neanche l'amministrazione Bush è riuscita a ottenere da Mubarak le riforme politiche ed economiche che chiedeva, né che favorisse l'emergere di partiti politici non islamici, e forse la colpa di questa situazione è solo sua, di Mubarak, come ha scritto Stephen J. Hadley, consigliere per la sicurezza nazionale dell'ex presidente repubblicano, sul Wall Street Journal. Ma i fatti di questi giorni sembrano dimostrare che Bush aveva visto giusto, che l'idea alla base della Freedom Agenda del contestatissimo ex presidente, che faceva propria la visione dell'area neocon, era corretta. In centinaia di migliaia – dalla Tunisia all'Egitto, dal Libano allo Yemen, come due anni fa in Iran – marciano non per la Jihad, come vorrebbe al Qaeda, non per la causa palestinese contro Israele, né contro l'America. Marciano per la libertà e per migliori condizioni economiche. In una parola: per la modernità. E questa aspirazione era, ed è, la migliore arma in mano all'Occidente per combattere la minaccia dell'estremismo islamico. Anziché nutrire questa aspirazione, tuttavia, i leader occidentali, e persino quelli americani, l'hanno trascurata: per allontanarsi il più possibile dalle impopolari politiche di George W. Bush; nell'illusione che i regimi autoritari avrebbero svolto il lavoro sporco al posto nostro; e in attesa che la soluzione del conflitto israelo-palestinese, prima o poi, scrivesse magicamente la parola fine su tutti i mali del Medio Oriente.
(...)
Non sempre la sua amministrazione ha agito coerentemente con la Freedom Agenda, ma Bush ne era consapevole quando affermava che «aver giustificato per sessant’anni la mancanza di libertà in Medio Oriente non ci ha resi più sicuri, perché nel lungo periodo la stabilità non può essere ottenuta a scapito della libertà» e «finché il Medio Oriente rimane una regione in cui la libertà non fiorisce, rimarrà una regione di stagnazione, risentimento e violenza pronti per essere esportati».
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Per l'Occidente, e l'America soprattutto, mostrarsi «amici» di tali regimi, molto più che le guerre combattute contro i talebani e Saddam Hussein, ha significato perdere la battaglia per le menti e i cuori di gran parte delle "piazze arabe". E ad approfittarne sono stati proprio gli islamisti, che invece hanno saputo cavalcare il malcontento. Non solo sui ceti più popolari...
Da un articolo di Leon Wieseltier su The New Republic, ripreso e tradotto da Il Foglio, risultano chiari i limiti del cosiddetto "realismo" e della politica di Obama:
«Ciò che appare molto chiaro è che l'amministrazione Obama – e più in generale la galassia liberal americana – si è fatta cogliere del tutto impreparata da questa crisi... Le paure dell'amministrazione riflettono la svalutazione della "democratizzazione" come uno dei principi fondamentali della politica estera americana, specialmente nei confronti del mondo musulmano... Il rifiuto totale della politica estera di Bush implicava l'abbandono di qualsiasi cosa che potesse assomigliare alla sua "Freedom agenda", che appariva come un pretesto per la guerra. Ma qualsiasi cosa si pensi della guerra in Iraq, non sarebbe esagerato chiedere ai liberal di considerare con meno severità la politica della democratizzazione – non solo per il suo significato etico, ma anche per la sua importanza strategica. Una delle prime lezioni che si possono trarre dalla rivolta contro Mubarak è che il sostegno americano ai dissidenti democratici è una questione strategica. La mancanza di tale sostegno può determinare un disastro. E' questo il prezzo del realismo... Il realismo non consente di giungere a un'adeguata comprensione delle forze storiche che promuovono la democratizzazione. Da questo punto di vista, il realismo è sorprendentemente irrealistico. Sembra un'opzione intelligente soltanto finché i dittatori rimangono al potere senza essere disturbati dai propri popoli; ma non appena questo accade, risulta incredibilmente stolta».
«Obama ha sostituito la "Freedom agenda" con "l'agenda della accettazione". La sua politica estera è stata caratterizzata da uno spirito vigorosamente multiculturalista. Ha giustamente compreso che porre l'accento sulla democratizzazione significava esprimere una severa condanna dei sistemi di governo in paesi retti da regimi autocratici o dittatoriali; ma Obama non era diventato presidente per condannare e rimproverare, bensì per "restaurare la posizione e il prestigio dell'America". E ha cercato di farlo esaltando la diversità e la legittimità di tutte le religioni e le civiltà... Facendo sembrare la democratizzazione una sorta di "imposizione", con tutte le sue connotazioni imperialiste, e facendola coincidere con l'invasione militare, Obama ha commesso un terribile errore... Senza dubbio, ci sono casi in cui i nostri interessi e i nostri valori possono non coincidere, perché forze antidemocratiche e antiamericane possono giungere al potere per mezzo di un processo democratico; ma non esiste sistema più sicuro per portarli al potere che trascurare l'illegittimità dei governi tirannici e ignorare le proteste delle popolazioni oppresse. La bizzarra ironia del multiculturalismo globale di Obama sta proprio nel fatto che ha avuto l'effetto di allineare l'America al fianco dei regimi autocratici e contro le popolazioni... La cosa che più colpisce della "mano tesa" di Obama è la sua assoluta irrilevanza rispetto agli eventi epocali che si stanno svolgendo».
Thursday, December 10, 2009
Se la guerra serve al Nobel per la Pace
Il presidente Obama ha disinnescato nel migliore dei modi la possibile contraddizione tra un premio Nobel per la Pace e un presidente che ha appena deciso un'escalation militare di 30 mila uomini. Bando ai buoni sentimenti e alla retorica pacifista a buon mercato, dunque. E a Oslo con sincerità ha ammesso di non avere nulla da obiettare a chi ritiene che vi fossero «uomini e donne, noti o sconosciuti» più meritevoli di lui a ricevere questo premio. Non si è nascosto dietro un dito, affrontando di petto il fatto di essere «il comandante in capo dell'esercito di una nazione impegnata in due guerre».
«Dobbiamo iniziare col riconoscere la dura verità: non estirperemo la piaga dei conflitti nell'arco della nostra vita. Ci saranno momenti in cui le nazioni, agendo individualmente o di concerto, riterranno che l'utilizzo della forza non è solo necessario, ma anche moralmente giustificato... So che non c'è nulla di debole, nulla di passivo, nulla di naive, nel credo e nella vita di Gandhi e di King. Ma come capo di stato, avendo giurato di proteggere e difendere la mia nazione, non posso farmi guidare solo dal loro esempio. Devo affrontare il mondo così com'è, e non posso stare immobile davanti a tutto quanto minaccia il popolo americano. Perché non dobbiamo illuderci: il male nel mondo esiste. Un movimento non violento non avrebbe potuto fermare le armi di Hitler. I negoziati non possono convincere i capi di al Qaida a deporre le armi. Dire che la forza a volte può essere necessaria non significa essere cinici; significa comprendere la storia, le imperfezioni dell'uomo e i limiti della ragione...»Forse per la prima volta, così esplicitamente, Obama si è detto «fiero dell'eredità» ideale e morale del suo Paese e delle sue scelte, anche delle guerre che ha combattuto, e ha rigettato il «sospetto» che grava sull'America:
«Il mondo deve ricordare che non sono stati le sole istituzioni internazionali, i trattati e le dichiarazioni a portare stabilità nel mondo dopo la Seconda guerra mondiale. Nonostante tutti gli errori commessi, i fatti, puri e semplici, sono questi: gli Stati Uniti d'America da oltre sessant'anni contribuiscono a sostenere la sicurezza mondiale con il sangue dei loro cittadini e la forza delle loro armi. Lo spirito di servizio e di sacrificio dei nostri uomini e delle nostre donne in uniforme ha promosso la pace e la prosperità dalla Germania alla Corea e ha permesso che la democrazia prendesse piede in luoghi come i Balcani. Ci siamo accollati quest'onere non perché vogliamo imporre la nostra volontà. L'abbiamo fatto in nome di un nostro interesse illuminato, perché desideriamo un futuro migliore per i nostri figli e nipoti, e perché crediamo che le loro vite saranno migliori se i figli e i nipoti degli altri potranno vivere in libertà e prosperità. E allora sì, gli strumenti della guerra hanno un loro ruolo nel mantenere la pace.Nel tentativo di superare l'antitesi realisti vs. idealisti, Obama sembra da una parte tendere verso l'idealismo...
(...)
Parte della nostra sfida quindi è conciliare queste due verità apparentemente inconciliabili: che la guerra è talvolta necessaria e che la guerra è, a un qualche livello, espressione della follia umana. Concretamente, dobbiamo dirigere i nostri sforzi a compiere quanto ci chiese tempo fa il presidente Kennedy. "Concentriamoci su di una pace più pratica, più raggiungibile, fondata non su un'improvvisa rivoluzione della natura umana, ma su un'evoluzione graduale delle istituzioni umane".
(...)
Capisco che la guerra non è popolare, ma so anche questo; la convinzione che la pace è desiderabile raramente basta a raggiungerla. La pace richiede responsabilità. La pace chiede sacrifici. Ecco perché la Nato continua a essere indispensabile.
(...)
La pace non è solo l'assenza di un conflitto visibile. Solo una pace giusta, basata sui diritti innati e la dignità per ogni individuo, può essere veramente duratura».
«Ritengo che la pace sia instabile ovunque sia negato ai cittadini il diritto di esprimersi liberamente o pregare come credono, di scegliere i propri leader o di riunirsi senza timore... L'America non ha mai combattuto una guerra contro una democrazia, e i nostri alleati più vicini sono quei governi che tutelano i diritti dei loro cittadini».... ma poi arriva il colpo alla botte:
«Lasciatemi anche dire che la promozione dei diritti umani non si può limitare alle sole esortazioni. A volte deve procedere a fianco di una diplomazia laboriosa. So che dialogare con regimi repressivi equivale a fare a meno della purezza appagante dell'indignazione. Ma so anche che le sanzioni senza l'offerta di dialogo - la condanna senza la discussione - possono riportare soltanto a un rovinoso status quo. Nessun regime repressivo può imboccare una strada differente a meno che non abbia la possibilità di scegliere una porta che gli si apre davanti».
Tuesday, September 22, 2009
Il presidente degli appelli tentenna sull'Afghanistan
Sogni di realpolitik
Appelli, appelli, appelli. Appelli per il clima; per la pace in Medio Oriente; per il dialogo con l'Iran. Barack Obama è il presidente degli appelli, ma anche se non si può certo trarre un bilancio, nemmeno parziale, della sua politica estera, non si può non notare come fino ad oggi abbia raccolto pochissimo, direi quasi nulla, dalle aperture che ha disseminato per il mondo, al prezzo di qualche incrinatura nei rapporti con gli storici alleati dell'America, dall'Estremo Oriente all'Europa dell'Est, passando per Israele.
Ma è in particolare sull'Afghanistan che la sua credibilità come comandante in capo è messa a dura prova in questi giorni, soprattutto dopo la rivelazione del rapporto del generale McChrystal. Un rapporto pronto dal 30 agosto, ma che l'amministrazione - qualcuno pensa per motivi di politica interna - ha deciso di non prendere in esame fino a pochi giorni fa. Un rapporto nel quale si avverte senza mezzi termini che senza ulteriori rinforzi in Afghanistan si va incontro al fallimento. Obama dice che prima di mandare altri uomini vuole avere chiara la strategia; certo, la strategia conta, ma le truppe combattenti ad oggi impegnate sono talmente esigue che a mio avviso si può iniziare a parlare di strategia solo dopo aver riconsiderato i numeri.
Oggi il Washington Post (a Woodward si deve lo scoop - l'ennesimo - del rapporto McChrystal) è uscito allo scoperto accusando esplicitamente il presidente di essere troppo «esitante» e «dubbioso» sull'Afghanistan in un «momento cruciale» per la campagna. Un editoriale lo rimprovera di «aver dimenticato le sue stesse parole a favore di una campagna contro l'insurrezione», come «se avesse un ripensamento» rispetto a quanto affermava soltanto cinque mesi fa: «Che cosa è cambiato dallo scorso marzo?», si chiede il WP. E le innumerevoli apparizioni tv di Obama in questi giorni rischiano di trasformarsi in un boomerang, perché le sue risposte rafforzano l'impressione della sua indecisione su un fondamentale tema di sicurezza nazionale come l'Afghanistan.
Tra l'altro, ad aggravare la situazione c'è anche la denuncia nient'affatto sorprendente del generale McChrystal, che nel suo rapporto, rivela oggi il Los Angeles Times, accusa i servizi segreti pakistani e iraniani di sostenere i talebani. Un'accusa molto verosimile. «L'insorgenza afghana è chiaramente sostenuta dal Pakistan», scrive il generale. I leader talebani «sono assistiti da alcuni elementi dell'Isi», mentre per quanto riguarda l'Iran, «le forze al Quds stanno addestrando combattenti per alcuni gruppi talebani e fornendo altre forme di assistenza militare agli insorti».
Della rinuncia allo scudo antimissile in Polonia e Repubblica ceca ho già scritto - e c'è davvero da sperare che Obama abbia ricevuto almeno qualcosa in cambio dai russi, almeno un "sì" a nuove e più dure sanzioni nei confronti di Teheran - ma anche quella decisione, almeno nel modo in cui è stata gestita, questa settimana viene criticata su Newsweek da Fareed Zakaria, proprio per il significato politico che ormai lo scudo aveva assunto per russi, polacchi e cechi. «Di questi tempi - ha commentato il Wall Street Journal - meglio essere avversari dell'America che suoi amici». Il presidente Obama aveva promesso che avrebbe conquistato l'amicizia di Paesi che, sotto Bush, erano avversarsi. Ma «la realtà è che l'America sta lavorando sodo per creare avversari laddove in precedenza aveva amici».
E così non posso che condividere l'analisi di Christian Rocca, qualche giorno fa su Il Foglio, secondo cui in questo momento «l'approccio» di Obama sembra «costellato da una serie di mosse azzardate senza la certezza di contropartite valide e da un'assenza di visione strategica globale che denota la difficoltà di formulare un'alternativa multilaterale seria ed efficace, dotata di un linguaggio chiaro e coerente, da contrapporre alla chiarezza morale dell'unilateralismo di George W. Bush». Cosa farà Obama se iraniani, russi e nordcoreani respingeranno le sue aperture? C'è da cominciare a temere che esiterà sul da farsi come sull'Afghanistan, invece di riconoscere che l'atteggiamento ostile dei nemici degli Stati Uniti non era provocato dall'"unilateralismo" di Bush, ma da deliberate scelte politiche di quei regimi che nessuna mano tesa e realpolitik può ammorbidire. E se a un certo punto bisognerà riconoscere che non era Bush il "cattivo", e che l'"Asse del Male" esiste per davvero? Verrà il tempo di smettere di sognare a occhi aperti e mani tese?
Appelli, appelli, appelli. Appelli per il clima; per la pace in Medio Oriente; per il dialogo con l'Iran. Barack Obama è il presidente degli appelli, ma anche se non si può certo trarre un bilancio, nemmeno parziale, della sua politica estera, non si può non notare come fino ad oggi abbia raccolto pochissimo, direi quasi nulla, dalle aperture che ha disseminato per il mondo, al prezzo di qualche incrinatura nei rapporti con gli storici alleati dell'America, dall'Estremo Oriente all'Europa dell'Est, passando per Israele.
Ma è in particolare sull'Afghanistan che la sua credibilità come comandante in capo è messa a dura prova in questi giorni, soprattutto dopo la rivelazione del rapporto del generale McChrystal. Un rapporto pronto dal 30 agosto, ma che l'amministrazione - qualcuno pensa per motivi di politica interna - ha deciso di non prendere in esame fino a pochi giorni fa. Un rapporto nel quale si avverte senza mezzi termini che senza ulteriori rinforzi in Afghanistan si va incontro al fallimento. Obama dice che prima di mandare altri uomini vuole avere chiara la strategia; certo, la strategia conta, ma le truppe combattenti ad oggi impegnate sono talmente esigue che a mio avviso si può iniziare a parlare di strategia solo dopo aver riconsiderato i numeri.
Oggi il Washington Post (a Woodward si deve lo scoop - l'ennesimo - del rapporto McChrystal) è uscito allo scoperto accusando esplicitamente il presidente di essere troppo «esitante» e «dubbioso» sull'Afghanistan in un «momento cruciale» per la campagna. Un editoriale lo rimprovera di «aver dimenticato le sue stesse parole a favore di una campagna contro l'insurrezione», come «se avesse un ripensamento» rispetto a quanto affermava soltanto cinque mesi fa: «Che cosa è cambiato dallo scorso marzo?», si chiede il WP. E le innumerevoli apparizioni tv di Obama in questi giorni rischiano di trasformarsi in un boomerang, perché le sue risposte rafforzano l'impressione della sua indecisione su un fondamentale tema di sicurezza nazionale come l'Afghanistan.
Tra l'altro, ad aggravare la situazione c'è anche la denuncia nient'affatto sorprendente del generale McChrystal, che nel suo rapporto, rivela oggi il Los Angeles Times, accusa i servizi segreti pakistani e iraniani di sostenere i talebani. Un'accusa molto verosimile. «L'insorgenza afghana è chiaramente sostenuta dal Pakistan», scrive il generale. I leader talebani «sono assistiti da alcuni elementi dell'Isi», mentre per quanto riguarda l'Iran, «le forze al Quds stanno addestrando combattenti per alcuni gruppi talebani e fornendo altre forme di assistenza militare agli insorti».
Della rinuncia allo scudo antimissile in Polonia e Repubblica ceca ho già scritto - e c'è davvero da sperare che Obama abbia ricevuto almeno qualcosa in cambio dai russi, almeno un "sì" a nuove e più dure sanzioni nei confronti di Teheran - ma anche quella decisione, almeno nel modo in cui è stata gestita, questa settimana viene criticata su Newsweek da Fareed Zakaria, proprio per il significato politico che ormai lo scudo aveva assunto per russi, polacchi e cechi. «Di questi tempi - ha commentato il Wall Street Journal - meglio essere avversari dell'America che suoi amici». Il presidente Obama aveva promesso che avrebbe conquistato l'amicizia di Paesi che, sotto Bush, erano avversarsi. Ma «la realtà è che l'America sta lavorando sodo per creare avversari laddove in precedenza aveva amici».
E così non posso che condividere l'analisi di Christian Rocca, qualche giorno fa su Il Foglio, secondo cui in questo momento «l'approccio» di Obama sembra «costellato da una serie di mosse azzardate senza la certezza di contropartite valide e da un'assenza di visione strategica globale che denota la difficoltà di formulare un'alternativa multilaterale seria ed efficace, dotata di un linguaggio chiaro e coerente, da contrapporre alla chiarezza morale dell'unilateralismo di George W. Bush». Cosa farà Obama se iraniani, russi e nordcoreani respingeranno le sue aperture? C'è da cominciare a temere che esiterà sul da farsi come sull'Afghanistan, invece di riconoscere che l'atteggiamento ostile dei nemici degli Stati Uniti non era provocato dall'"unilateralismo" di Bush, ma da deliberate scelte politiche di quei regimi che nessuna mano tesa e realpolitik può ammorbidire. E se a un certo punto bisognerà riconoscere che non era Bush il "cattivo", e che l'"Asse del Male" esiste per davvero? Verrà il tempo di smettere di sognare a occhi aperti e mani tese?
Friday, June 26, 2009
L'idea del contagio democratico riprende quota
Se il "regime change" in Iraq non era poi un'idea così scema
Il movimento democratico iraniano potrebbe trasformare l'intera regione. Alla luce di quanto sta accadendo in questi giorni a Teheran, la questione del nucleare iraniano potrebbe rientrare a far parte del più ampio tema della democrazia in Iran e in Medio Oriente. La lotta per la democrazia in Iran ha oggi (o dovrebbe avere) la stessa centralità per la politica estera americana che aveva negli anni '80 la lotta per la democrazia in Europa orientale. Ne è convinto Robert D. Kaplan, realista "muscolare" del Center for a New American Security e corrispondente del The Atlantic. Kaplan non è un neocon, né un sognatore democratico. Eppure, sul Washington Post, ha spinto la sua analisi ben oltre l'Iran: «Le manifestazioni a Teheran e in altre città hanno la capacità di preludere a una nuova era politica in Medio Oriente e in Asia centrale».
Kaplan ricorda la storica capacità dell'Iran (che fu della Persia) di influenzare tutta la regione, dal Mediterraneo all'India. Una capacità di proiettare la propria influenza che risale indietro nei secoli, a molto prima della rivoluzione khomeinista. Inoltre, per molti aspetti la società iraniana è più evoluta di quelle dei suoi vicini arabi e le istituzioni sono più solide.
Kaplan non solo conclude che «la lotta iraniana per la democrazia è oggi così centrale per la nostra politica estera come lo fu la lotta per la democrazia in Europa orientale negli anni '80», ma ritiene addirittura che ciò che sta avvenendo in Iran è il frutto intenzionale del regime change in Iraq, suggerendo quindi che non era del tutto campata in aria l'idea dei neocon, fatta propria dalla prima presidenza Bush, secondo cui la caduta del regime baathista in Iraq avrebbe provocato un effetto domino sui regimi dittatoriali confinanti.
Tutti coloro che hanno sostenuto la guerra in Iraq sapevano bene che la caduta del sunnita Saddam «avrebbe rafforzato la componente sciita nella regione», ma il punto è che «ciò non era visto necessariamente come un effetto negativo». I terroristi dell'11 settembre, spiega Kaplan, erano originari di dittature sunnite come l'Egitto e l'Arabia Saudita, «la cui arroganza e avversione per le riforme doveva essere placata riaggiustando l'equilibrio di potere regionale in favore dell'Iran sciita». In tutto ciò, «si sperava che l'Iran avrebbe vissuto la propria rivoluzione, se l'Iraq fosse cambiato. Se l'occupazione dell'Iraq fosse stata gestita in modo più competente, questo scenario avrebbe potuto svilupparsi più rapidamente e in modo più trasparente. Nonostante ciò, si sta verificando. E non solo l'Iran è alle prese con una sollevazione democratica, ma anche Egitto e Arabia Saudita si stanno silenziosamente riformando».
«Il Medio Oriente - conclude Kaplan - è entrato in un periodo di profonda fluidità, destinata ad essere accentuata dalle elezioni in Iraq alla fine di quest'anno e dall'insediamento di un governo filo-occidentale in Libano». Per la sua posizione centrale nella regione, sia dal punto di vista geografico che demografico - per non parlare della forza attrattiva della cultura persiana che giunge fino all'Asia centrale - «l'Iran, ironicamente, ha più possibilità di dominare la regione sotto un dinamico regime democratico di quante ne abbia mai avute sotto la sua elite oscurantista. E potrebbe essere un'ottima notizia per gli Stati Uniti».
L'idea del possibile, anche se lento e non lineare, contagio democratico in Medio Oriente riprende quota. «Se lo sviluppo della democrazia in Medio Oriente non è lineare - scrive Michael Gerson sul Washington Post - non è neanche casuale. Si muove a piccoli passi, ma va avanti. Preso nel suo insieme - una democrazia costituzionale irachena, un potente movimento di riforma in Iran, piccole conquiste democratiche dagli sceiccati del Golfo al Libano - questo è il più grande periodo di progresso democratico nella storia della regione». Sembra evidente che il Grande Medio Oriente «non è immune al contagio democratico e ci sono motivi di credere che l'agenda democratica rimarrà centrale per la politica estera americana, a prescindere dagli umori del momento».
L'avanzamento della libertà in Medio Oriente è «la speranza migliore per l'America», innanzitutto da un punto di vista realista e non solo idealista. «I regimi che opprimono il loro popolo sono con maggiore probabilità quelli che minacciano i loro vicini, che sostengono i gruppi terroristici, che alimentano antiamericanismo e antisemitismo, e che cercano di dotarsi di armi di distruzione di massa». La promozione della democrazia d'altra parte ha sempre contraddistinto la politica estera dei presidenti americani. «Il loro idealismo democratico non gli ha impedito di trattare con il "demonio", ma solo di credere che il futuro appartenga ai "demoni"». La promozione della democrazia è «difficile e reversibile», ma «non è nuova, né un optional».
Il movimento democratico iraniano potrebbe trasformare l'intera regione. Alla luce di quanto sta accadendo in questi giorni a Teheran, la questione del nucleare iraniano potrebbe rientrare a far parte del più ampio tema della democrazia in Iran e in Medio Oriente. La lotta per la democrazia in Iran ha oggi (o dovrebbe avere) la stessa centralità per la politica estera americana che aveva negli anni '80 la lotta per la democrazia in Europa orientale. Ne è convinto Robert D. Kaplan, realista "muscolare" del Center for a New American Security e corrispondente del The Atlantic. Kaplan non è un neocon, né un sognatore democratico. Eppure, sul Washington Post, ha spinto la sua analisi ben oltre l'Iran: «Le manifestazioni a Teheran e in altre città hanno la capacità di preludere a una nuova era politica in Medio Oriente e in Asia centrale».
Kaplan ricorda la storica capacità dell'Iran (che fu della Persia) di influenzare tutta la regione, dal Mediterraneo all'India. Una capacità di proiettare la propria influenza che risale indietro nei secoli, a molto prima della rivoluzione khomeinista. Inoltre, per molti aspetti la società iraniana è più evoluta di quelle dei suoi vicini arabi e le istituzioni sono più solide.
«Il movimento democratico in Iran è sorprendentemente occidentale nella sua organizzazione e nel sofisticato uso della tecnologia. In termini di sviluppo, l'Iran è più vicino alla Turchia che non alla Siria o all'Iraq. Mentre questi ultimi vivono nella possibilità dell'implosione, l'Iran ha una coerenza interna che gli permette di esercitare forti pressioni sui suoi vicini. Nel futuro, un Iran democratico potrebbe esercitare su Baghdad un'influenza tanto positiva quanto è stata negativa quella delle squadracce assassine dell'Iran teocratico».Dunque, osserva Kaplan, «l'Iran è così centrale per le sorti del Medio Oriente che anche un cambiamento parziale nel comportamento del regime - e un maggior grado di sfumature nel suo approccio nei confronti dell'Iraq, del Libano, di Israele e degli Stati Uniti - potrebbe influire in modo determinante sulla regione. Proprio come un leader radicale iraniano può fomentare le Arab streets, un riformatore può stimolare l'emergente, ma stranamente opaca, borghesia araba». Per questo Kaplan non è d'accordo con Obama quando dice che tra Mousavi e Ahmadinejad in fondo non c'è tutta questa gran differenza. Questa «rappresentazione» di Mousavi come di «un radicale, sebbene all'apparenza più gentile e affabile di Ahmadinejad, non coglie il punto». Come nella ex Unione sovietica, spiega Kaplan, anche in Iran «il cambiamento può arrivare solo dall'interno» e solo per opera di «un insider, sia un Mousavi o un Gorbacev».
Kaplan non solo conclude che «la lotta iraniana per la democrazia è oggi così centrale per la nostra politica estera come lo fu la lotta per la democrazia in Europa orientale negli anni '80», ma ritiene addirittura che ciò che sta avvenendo in Iran è il frutto intenzionale del regime change in Iraq, suggerendo quindi che non era del tutto campata in aria l'idea dei neocon, fatta propria dalla prima presidenza Bush, secondo cui la caduta del regime baathista in Iraq avrebbe provocato un effetto domino sui regimi dittatoriali confinanti.
Tutti coloro che hanno sostenuto la guerra in Iraq sapevano bene che la caduta del sunnita Saddam «avrebbe rafforzato la componente sciita nella regione», ma il punto è che «ciò non era visto necessariamente come un effetto negativo». I terroristi dell'11 settembre, spiega Kaplan, erano originari di dittature sunnite come l'Egitto e l'Arabia Saudita, «la cui arroganza e avversione per le riforme doveva essere placata riaggiustando l'equilibrio di potere regionale in favore dell'Iran sciita». In tutto ciò, «si sperava che l'Iran avrebbe vissuto la propria rivoluzione, se l'Iraq fosse cambiato. Se l'occupazione dell'Iraq fosse stata gestita in modo più competente, questo scenario avrebbe potuto svilupparsi più rapidamente e in modo più trasparente. Nonostante ciò, si sta verificando. E non solo l'Iran è alle prese con una sollevazione democratica, ma anche Egitto e Arabia Saudita si stanno silenziosamente riformando».
«Il Medio Oriente - conclude Kaplan - è entrato in un periodo di profonda fluidità, destinata ad essere accentuata dalle elezioni in Iraq alla fine di quest'anno e dall'insediamento di un governo filo-occidentale in Libano». Per la sua posizione centrale nella regione, sia dal punto di vista geografico che demografico - per non parlare della forza attrattiva della cultura persiana che giunge fino all'Asia centrale - «l'Iran, ironicamente, ha più possibilità di dominare la regione sotto un dinamico regime democratico di quante ne abbia mai avute sotto la sua elite oscurantista. E potrebbe essere un'ottima notizia per gli Stati Uniti».
L'idea del possibile, anche se lento e non lineare, contagio democratico in Medio Oriente riprende quota. «Se lo sviluppo della democrazia in Medio Oriente non è lineare - scrive Michael Gerson sul Washington Post - non è neanche casuale. Si muove a piccoli passi, ma va avanti. Preso nel suo insieme - una democrazia costituzionale irachena, un potente movimento di riforma in Iran, piccole conquiste democratiche dagli sceiccati del Golfo al Libano - questo è il più grande periodo di progresso democratico nella storia della regione». Sembra evidente che il Grande Medio Oriente «non è immune al contagio democratico e ci sono motivi di credere che l'agenda democratica rimarrà centrale per la politica estera americana, a prescindere dagli umori del momento».
L'avanzamento della libertà in Medio Oriente è «la speranza migliore per l'America», innanzitutto da un punto di vista realista e non solo idealista. «I regimi che opprimono il loro popolo sono con maggiore probabilità quelli che minacciano i loro vicini, che sostengono i gruppi terroristici, che alimentano antiamericanismo e antisemitismo, e che cercano di dotarsi di armi di distruzione di massa». La promozione della democrazia d'altra parte ha sempre contraddistinto la politica estera dei presidenti americani. «Il loro idealismo democratico non gli ha impedito di trattare con il "demonio", ma solo di credere che il futuro appartenga ai "demoni"». La promozione della democrazia è «difficile e reversibile», ma «non è nuova, né un optional».
Friday, June 19, 2009
Quanta strada da Campo de' Fiori a Piazza Farnese
Quanta strada ha fatto Emma Bonino da Campo de' Fiori a Piazza Farnese! A poco più di un anno di distanza le poche parole pronunciate in due manifestazioni, quella del 19 marzo 2008 per il Tibet, a Campo de' Fiori, e quella di pochi giorni fa per l'Iran, a Piazza Farnese, sembrano appartenere a due persone diverse. Chi non conosce Roma può pensare che le due piazze siano molto distanti tra di loro, mentre sono a poche decine di metri. Bisogna quindi dedurre che la distanza è quella che c'è dalla poltrona di ministro a leader dell'opposizione. Evidentemente c'è una Bonino di lotta e una di governo. Versione del 17 giugno 2009:
«Ci sono momenti in cui bisogna dire basta», dichiara oggi la Bonino sempre a Piazza Farnese, commentando con un cronista il ministro degli Esteri Frattini, secondo cui «ci sono le condizioni perché l'Iran partecipi alla riunione ministeriale del G8 a Trieste». «Se anche di fronte ad episodi come quelli che stanno avvenendo in Iran in questi giorni non c'è una presa di distanza, è un messaggio grave per i democratici che nella democrazia hanno creduto, anche se siamo in una fase di real politik a tutto spiano».
Adesso è il momento di dire «basta» all'Iran, cancellando una presenza tutto sommato poco significativa - ma qui pensiamo che quel momento sia giunto da molto tempo - ma un anno fa, dopo la repressione in Tibet non era il caso di dire «basta» alla Cina? Non solo la Bonino si opponeva al boicottaggio, forse a ragione, ma in molte occasioni ha ribadito la sua contrarietà a qualsiasi gesto simbolico, a suo avviso utile solo ad alimentare il «cicaleccio» qui in Italia. Pensate a che «messaggio» dev'essere stato per il democratico Wei Jingsheng, iscritto al Partito radicale, Prodi che offriva a Pechino il suo aiuto per la fine dell'embargo europeo sulle armi.
Viene messa giustamente sotto i riflettori la «real politik a tutto spiano» italiana, ma i tanti fan di Obama (e i radicali sono tra questi), tranne poche eccezioni (il Riformista), non aprono bocca sulla real politik dell'amministrazione Obama e magari tornano pure a civettare di regime change, di rovesciare regimi, dopo aver demonizzato Bush.
* Mi pare che la Corea del Nord non sia stata mai affatto isolata ma ricompensata in ogni modo per la sospensione di un programma nucleare che ha poi sempre immancabilmente ripreso.
«... mi rivolgo e vedo molti colleghi parlamentari anche della maggioranza: siamo proprio sicuri che vale la pena di invitare il leader iraniano? [al G8 ministeriale di Trieste, n.d.r.]... Siamo proprio sicuri che non è il caso di ripensarci, che non è il caso semmai di dare un segno? Che non è il segno né dell'isolamento, né dell'ostracismo né del bombardamento ma è un segno che dica ci sono limiti che non intendiamo avallare, ci sono violenze che non intendiamo dimenticare, ci sono repressioni che segnano una differenza, siamo differenti. Lo chiedo perché questa sarebbe un'occasione anche di fare delle cose insieme per il bene e per i diritti civili... già, credo, abbiamo ricevuto fin troppi dittatori con sfarzi degni di migliore causa. Forse non ripetere l'errore potrebbe essere utile a tutti».Una «differenza» che evidentemente la repressione di un anno fa in Tibet non segnava, visto che il 19 marzo 2008 la Bonino con queste parole si dichiarava contraria a qualsiasi minaccia di boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino:
«Probabilmente sarò molto meno applaudita di Bonelli, ma io penso che di fronte a problemi complessi il problema non è a chi le spara più grosse... il problema non è neanche della buona coscienza a buon mercato, soprattutto se la pagano altri. Il problema è forse quello di sostenere con un po' di umiltà non quello che noi pensiamo il meglio, ma intanto quello che il Dalai Lama chiede. E in tutti gli incontri che io ho avuto... mai, mai il Dalai Lama ci ha chiesto di isolare la Cina. Vorrei anche - tanto per non essere applaudita - dirvi che il problema più grosso è non dimenticare. Vedete, tre giorni di emozioni per la Birmania se lo ricorda ancora qualcuno? 24 ore per lo Zimbabwe, qualcuno ha insistito a fare qualcos'altro? Abbiamo isolato la Corea del Nord [*], qualcuno per caso gli punge vaghezza? Il nostro modo migliore, e il più facile, sembra apparentemente quello più netto. Il nostro problema non è punire centinaia di milioni di cinesi che stanno affacciandosi a un minimo di benessere... Non c'è nessuna ricetta miracolistica, c'è da inventare e perseguire nuovi strumenti costosi, anche personalmente».«Tra le cose che il Dalai Lama chiede c'è di essere ricevuto dai governi», chiosava al termine dell'intervento Antonio Polito, facendo notare che il Governo Prodi, di cui la Bonino faceva parte, non l'ha ricevuto. Inoltre, quando durante la visita di un'ampia delegazione governativa italiana in Cina, nel settembre del 2006, Prodi arrivò persino a garantire il suo appoggio alla richiesta cinese di revocare l'embargo europeo sulle armi, in vigore dal massacro di Piazza Tienanmen, la Bonino non fece e non disse nulla, se non difendere anche in Parlamento, nei giorni successivi, la posizione espressa da Prodi sull'embargo.
«Ci sono momenti in cui bisogna dire basta», dichiara oggi la Bonino sempre a Piazza Farnese, commentando con un cronista il ministro degli Esteri Frattini, secondo cui «ci sono le condizioni perché l'Iran partecipi alla riunione ministeriale del G8 a Trieste». «Se anche di fronte ad episodi come quelli che stanno avvenendo in Iran in questi giorni non c'è una presa di distanza, è un messaggio grave per i democratici che nella democrazia hanno creduto, anche se siamo in una fase di real politik a tutto spiano».
Adesso è il momento di dire «basta» all'Iran, cancellando una presenza tutto sommato poco significativa - ma qui pensiamo che quel momento sia giunto da molto tempo - ma un anno fa, dopo la repressione in Tibet non era il caso di dire «basta» alla Cina? Non solo la Bonino si opponeva al boicottaggio, forse a ragione, ma in molte occasioni ha ribadito la sua contrarietà a qualsiasi gesto simbolico, a suo avviso utile solo ad alimentare il «cicaleccio» qui in Italia. Pensate a che «messaggio» dev'essere stato per il democratico Wei Jingsheng, iscritto al Partito radicale, Prodi che offriva a Pechino il suo aiuto per la fine dell'embargo europeo sulle armi.
Viene messa giustamente sotto i riflettori la «real politik a tutto spiano» italiana, ma i tanti fan di Obama (e i radicali sono tra questi), tranne poche eccezioni (il Riformista), non aprono bocca sulla real politik dell'amministrazione Obama e magari tornano pure a civettare di regime change, di rovesciare regimi, dopo aver demonizzato Bush.
* Mi pare che la Corea del Nord non sia stata mai affatto isolata ma ricompensata in ogni modo per la sospensione di un programma nucleare che ha poi sempre immancabilmente ripreso.
Wednesday, June 17, 2009
Obama prigioniero della sua politica realista

E' una linea che fa scrivere a Robert Kagan, nella sua column sul Washington Post, che Obama è «schierato con il regime». Il presidente Usa, infatti, «non ha mai avuto alcuna intenzione di suscitare disordini politici in Iran, tanto meno di incoraggiare il popolo iraniano a scendere in strada». Ciò che sta accadendo «non è una buona notizia» per lui, ma una «sgradita complicazione» sulla strada del dialogo con l'Iran sul nucleare, che si basa necessariamente sul «riconoscimento deliberato della legittimità del regime», legittimità che ora però, per uno strano scherzo del destino, viene meno per cause interne al regime stesso: i brogli elettorali e le manifestazioni oceaniche ("rivoluzionarie", mai così dal 1979) contro la leadership con cui Obama domani dovrebbe avviare il dialogo.
Nel suo messaggio per il nuovo anno persiano, ricorda Kagan, Obama si era rivolto esplicitamente alla leadership iraniana – al contrario di Bush, che si rivolgeva al popolo iraniano – proprio allo scopo di dimostrare la sua accettazione della Repubblica islamica e del governo iraniano, presupposto per qualsiasi dialogo e "grande accordo". Difficilmente infatti il regime iraniano negozierà su temi che toccano la sicurezza nazionale, come il programma nucleare, senza esplicite garanzie da parte di Washington che non sostiene e non sosterrà in futuro l'opposizione, né cercherà in alcun modo di rovesciare il regime. «Obama doveva fare una scelta. E l'ha fatta. Sarebbe sorprendente se proprio ora avesse deviato da questa strategia realista, e infatti non l'ha fatto», osserva Kagan. Molti hanno equivocato la sua cautela, che non è stata dettata dal timore che un appoggio esplicito dell'America potesse danneggiare l'opposizione. «La sua strategia nei confronti dell'Iran lo pone obiettivamente dalla parte degli sforzi del governo per il ritorno alla normalità prima possibile, e non in combutta con l'opposizione per prolungare la crisi».
Non che Obama preferisca Ahmedinejad. Ed è vero che Mousavi non avrebbe seguito un approccio molto diverso sul nucleare. Il fatto è che una volta che Mousavi ha perso, brogli o meno, lui e i suoi non sono utili alla strategia della Casa Bianca. «Se Obama sembrasse prestare aiuto all'opposizione in qualsiasi modo, apparirebbe ostile al regime, il che è precisamente ciò che ha voluto evitare. La politica di Obama richiede adesso il rapido superamento delle controversie elettorali in modo da poter iniziare presto i negoziati con il governo rieletto di Ahmadinejad». E tutto questo, osserva Kagan, «sarà difficile fino a quando continueranno le proteste e il governo apparirà incerto o troppo brutale» per farci accordi. Ciò di cui Obama ha bisogno è quindi una rapida normalizzazione, «sgonfiare l'opposizione, non incoraggiarla. Ed è ciò che nel complesso sta facendo».
«Se trovate inquietante tutto questo – conclude Kagan – avete ragione». E «la cosa peggiore è che tale strategia non impedirà all'Iran di dotarsi di un'arma nucleare, ma il realismo è questo». Brent Scrowcroft che brindò con i leader cinesi dopo Piazza Tienanmen e Gerald Ford che non incontrò Solgenitsyn al culmine della distensione. «I repubblicani tradizionalmente hanno fatto meglio dei democratici, anche se raramente sono stati ricompensati dal popolo americano nelle urne. Vedremo se il presidente Obama dimostrerà sangue freddo nel perseguimento di migliori relazioni con un regime orribile, senza subire lo stesso destino politico».
In sintonia con la lettura di Kagan è anche uno degli editoriali del Wall Street Journal, che fa notare come «la democrazia interferisce con il copione della diplomazia nucleare di Obama». Ma ragionando in questo modo, osserva, «gli Stati Uniti non avrebbero mai dovuto sostenere i dissidenti sovietici perché avrebbe interferito con il controllo degli armamenti nucleari». Rincara la dose Bret Stephens: una presidenza che si pensava fosse tutta orientata verso la «speranza» si è subito ripiegata in un atteggiamento di «cinica realpolitik». E ora «l'unica speranza che insegue è tenere in vita» la possibilità di una "grande accordo" sul programma nucleare iraniano. Forse «un giorno un futuro presidente dovrà scusarsi con gli iraniani per il disinteresse di Obama, come Obama oggi si scusa per l'intromissione dell'amministrazione Eisenhower». «Raramente nella storia degli Stati Uniti - conclude Stephens - una politica estera è stata così radicalmente contraddetta dagli eventi come l'approccio di Obama con l'Iran nei primi mesi di mandato».
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