Le parole sono di Jean-Marie Le Mené, membro della Pontificia Accademia per la vita, riportate dall'agenzia Sir (Cei). «Votare a favore di un candidato le cui convinzioni non sono rispettose dell'embrione costituisce una complicità con l'omicidio di quest'embrione, e quindi una grave mancanza di carità».
Esiste il «dovere» di «proteggere per legge l'embrione nella fase preimpiantatoria». A questo scopo, Padre Le Mené ha proposto di «creare, in ogni diocesi una struttura strategica specializzata nel rispetto della vita, distinta dalla cura pastorale per la famiglia, composta di esperti convinti dell'umanità e della personalità dell'embrione», in modo da diffondere «una resistenza attiva al genocidio programmato dell'embrione nella fase del pre-impianto, anticamera della clonazione umana». Occorre anche «imporre a tutti coloro che hanno una funzione di insegnamento o una responsabilità pastorale nella Chiesa, a livello parrocchiale, il dovere di esprimersi sistematicamente prima di ogni consultazione elettorale, e almeno una volta all'anno».
Tuesday, February 28, 2006
La vera natura dello scontro
La solita, perfetta analisi di Emanuele Ottolenghi («La democrazia non basta, ma è il primo passo»), da tempo passato a il Riformista. Aspettino a gongolare i critici della teoria neocon per la democratizzazione del Medio Oriente di fronte alle difficoltà di realizzazione che sta incontrando. L'«inadeguatezza» di quella critica sta nell'assenza di una strategia alternativa che non sia il mero ritorno al «realismo politico». Il fatto che il successo non sia scontato, che sia dura perseguirlo e ottenerlo, non significa che la teoria sia sbagliata, anche perché è l'unica di cui finora disponiamo.
Ma «questo non significa che il progetto di democratizzazione del Medio Oriente sia sbagliato perché aprirà la strada del potere a quel nemico che invece con la democrazia si crede di sconfiggere». Pensare che «basti un'elezione ad affermare i valori liberaldemocratici è un'illusione. Ritenere allora che sia meglio favorire i dittatori piuttosto che rischiare una lenta, lunga e rischiosa strada verso la democrazia è peggio, perché significa ripetere uno sbaglio conoscendone già le improvvide conseguenze».
Altrettanto illuminante per comprendere la vera natura dello scontro in atto è Andrè Glucksmann, sul Corriere della Sera: «Il nostro Pianeta non è vittima di uno scontro di civiltà, è il luogo di una battaglia decisiva fra due metodi di pensiero». Né l'Occidente, né l'Oriente, ma da una parte fondamentalismo e nichilismo, che ignorando i fatti e una realtà accertabile seppur relativamente, conducono entrambi a esiti violenti, dall'altra il metodo liberale della ricerca. Ricerca morale, di scienza, conoscenza e coscienza.
«Il terrorismo nasce dalla bancarotta dello status quo politico del Medioriente, e quindi se la democrazia non funziona come alternativa, il ritorno allo status quo ante non offre una soluzione, semmai acuisce la crisi. Occorre invece chiedersi in quali condizioni la democrazia può fiorire e quali politiche possono favorire, nel contesto mediorientale, una transizione democratica».Se si affermassero regole democratiche nei paesi islamici, «gli ideali di libertà non avranno sconfitto il totalitarismo islamofascista, ma i regimi autoritari, le cleptocrazie familiari e gli eredi locali dello stalinismo che governano oggi la regione e che visione libertaria e islamismo vogliono parimenti spodestare. Vero, sono questi regimi che, nei loro disastrosi fallimenti hanno reso attraente l'alternativa islamista. Rimuoverli quindi è una necessaria precondizione per sconfiggere l'islamismo privandolo di parte della sua ragion d'essere. Ma non basterà sostituire l'ordine attuale con meccanismi democratici. Ci vorrà uno sforzo sostenuto e prolungato per vincere contro l'islamo-fascismo».
Ma «questo non significa che il progetto di democratizzazione del Medio Oriente sia sbagliato perché aprirà la strada del potere a quel nemico che invece con la democrazia si crede di sconfiggere». Pensare che «basti un'elezione ad affermare i valori liberaldemocratici è un'illusione. Ritenere allora che sia meglio favorire i dittatori piuttosto che rischiare una lenta, lunga e rischiosa strada verso la democrazia è peggio, perché significa ripetere uno sbaglio conoscendone già le improvvide conseguenze».
Altrettanto illuminante per comprendere la vera natura dello scontro in atto è Andrè Glucksmann, sul Corriere della Sera: «Il nostro Pianeta non è vittima di uno scontro di civiltà, è il luogo di una battaglia decisiva fra due metodi di pensiero». Né l'Occidente, né l'Oriente, ma da una parte fondamentalismo e nichilismo, che ignorando i fatti e una realtà accertabile seppur relativamente, conducono entrambi a esiti violenti, dall'altra il metodo liberale della ricerca. Ricerca morale, di scienza, conoscenza e coscienza.
«Vi sono coloro i quali decretano che non esistono fatti ma soltanto interpretazioni, che sono altrettanti atti di fede. E questi cadono nel fanatismo ("Io sono la verità") o nel nichilismo ("Nulla è vero, nulla è falso"). E vi sono coloro per i quali la libera discussione con l'intento di separare il falso dal vero ha un senso, in modo che l'uomo politico come lo scienziato o il semplice giudizio possano regolarsi su dati profani indipendenti dalle opinioni prestabilite».
Caro Magdi Allam
Lei sa bene che gli integralisti islamici ci odiano non perché "non possiamo non dirci cristiani", ma perché vedono l'Occidente come «una terra di "senza Dio" da redimere con la spiritualità dell'islam». Lamentano che «la situazione della religione in Europa è caratterizzata dalla laicità». Abbiamo imparato negli ultimi secoli che coloro i quali non si riconoscono nei valori religiosi sono esseri pienamente morali, credenti in altro. E' falso che al di fuori della fede non ci sia che la dannazione. Per questo contrastare «il dilagare della cultura laicista, consumistica, relativistica» non deve mai indurre a ritenere senza anima, privi di valori, cittadini di serie "B", coloro che, esprimendo altre concezioni del matrimonio, della famiglia, del procreare, mettono in discussione tradizioni e costumi millenari.
«Coloro che tra noi disdegnano i valori di Occidente, identità e radici cristiane, - avverte concludendo il suo articolo - che almeno sappiano che proprio questo vuoto alimenta l'appetito dei militanti della Guerra santa islamica mondiale». Coloro che tra noi interpetano - mi viene di rispondere - modi di vita, fenomeni sociali e sviluppi scientifici come segni di «crisi morale e spirituale» dell'Occidente che almeno sappiano che proprio in questo giudizio si annida un'idea della decadenza dell'Occidente che rischia di saldarsi a quella che scatena l'odio dei nostri nemici jihadisti.
Non finiamo così per fare nostra la loro immagine disumanizzante dell'Occidente come terra del tramonto e della decadenza? Imputando a coloro che non si riconoscono nei valori tradizionali la debolezza dell'Occidente, non stiamo dando ragione ai nostri nemici? La nostra laicità li irrita, non la nostra cristianità. Ricompattandoci attorno alla nostra identità religiosa non diventiamo un po' come loro? Siamo noi "vuoti" o loro troppo "pieni" di identità religiosa? Perché coniugare la difesa dell'Occidente dal fondamentalismo islamico alla difesa, dalle decisioni dei parlamenti democratici, di un ordine morale e sociale che trova nella tradizione il proprio fondamento e la propria pretesa superiorità? Non sta forse nel mettere in discussione la tradizione e l'autorità la forza rigenerativa dell'identità occidentale?
Se l'Europa ha paura, è intimidita, remissiva, abbiamo certo il dovere morale, l'obiettivo culturale e politico, di non disertare dall'affermazione di valori e principi, di resistere al cinismo della realpolitik, a una falsa tolleranza che è indifferenza e remissività, ma non cediamo alla tentazione di riempire con l'autorità della religione e della tradizione quelli che a ben vedere sono vuoti di elaborazione culturale e di comprensione laica della realtà, assenza di visione e progettualità politica. Le risposte alle sfide di oggi, tanto a Bin Laden quanto alla clonazione terapeutica, vanno ricercate comunque nel campo della libertà, che è la vera caratteristica distintiva dell'Occidente che amiamo.
Ci vuole più laicità nelle società islamiche, non meno nelle nostre. Si vince convincendo i musulmani che attenersi al diritto positivo e al principio di separazione fra politica e religione non è apostasia.
«Coloro che tra noi disdegnano i valori di Occidente, identità e radici cristiane, - avverte concludendo il suo articolo - che almeno sappiano che proprio questo vuoto alimenta l'appetito dei militanti della Guerra santa islamica mondiale». Coloro che tra noi interpetano - mi viene di rispondere - modi di vita, fenomeni sociali e sviluppi scientifici come segni di «crisi morale e spirituale» dell'Occidente che almeno sappiano che proprio in questo giudizio si annida un'idea della decadenza dell'Occidente che rischia di saldarsi a quella che scatena l'odio dei nostri nemici jihadisti.
Non finiamo così per fare nostra la loro immagine disumanizzante dell'Occidente come terra del tramonto e della decadenza? Imputando a coloro che non si riconoscono nei valori tradizionali la debolezza dell'Occidente, non stiamo dando ragione ai nostri nemici? La nostra laicità li irrita, non la nostra cristianità. Ricompattandoci attorno alla nostra identità religiosa non diventiamo un po' come loro? Siamo noi "vuoti" o loro troppo "pieni" di identità religiosa? Perché coniugare la difesa dell'Occidente dal fondamentalismo islamico alla difesa, dalle decisioni dei parlamenti democratici, di un ordine morale e sociale che trova nella tradizione il proprio fondamento e la propria pretesa superiorità? Non sta forse nel mettere in discussione la tradizione e l'autorità la forza rigenerativa dell'identità occidentale?
Se l'Europa ha paura, è intimidita, remissiva, abbiamo certo il dovere morale, l'obiettivo culturale e politico, di non disertare dall'affermazione di valori e principi, di resistere al cinismo della realpolitik, a una falsa tolleranza che è indifferenza e remissività, ma non cediamo alla tentazione di riempire con l'autorità della religione e della tradizione quelli che a ben vedere sono vuoti di elaborazione culturale e di comprensione laica della realtà, assenza di visione e progettualità politica. Le risposte alle sfide di oggi, tanto a Bin Laden quanto alla clonazione terapeutica, vanno ricercate comunque nel campo della libertà, che è la vera caratteristica distintiva dell'Occidente che amiamo.
Ci vuole più laicità nelle società islamiche, non meno nelle nostre. Si vince convincendo i musulmani che attenersi al diritto positivo e al principio di separazione fra politica e religione non è apostasia.
Monday, February 27, 2006
Questa Europa un senso non ce l'ha
Non è la solita bega di cuginanza tra Italia e Francia. Della gravità del caso Suez/Enel, di cui avevo già parlato ieri, si sono accorti oggi due degli economisti che più stimo. Francesco Giavazzi, sul Corriere, rilancia il tema delle liberalizzazioni e invita a resistere alla forte tentazione di erigere a nostra volta barriere protezionistiche, seguendo la logica di una reciprocità che può sembrare semplice buon senso in questi casi. No, chiuderci in noi stessi non farebbe che peggiorare la nostra condizione.
Certo, al di là del nuovo trattato non ratificato, delle divisioni sull'Iraq, è l'evidente assenza di ciò che almeno ritenevamo acquisito, il mercato comune, ad affossare il sogno europeo: «... l'Europa non cresce proprio perché vi è troppo poca concorrenza, troppe protezioni, un'eccessiva interferenza dello Stato nell'economia. Per riprendere a crescere occorre aver il coraggio di liberare l'economia e spiegare agli elettori che ogni protezione dei produttori corrisponde a uno sfruttamento dei consumatori».
I privilegi dei produttori si traformano in danni per consumatori e lavoratori. Questo semplice concetto potrebbe risultare efficace per convincere gli elettori a sostenere riforme più coraggiose.
Anche Oscar Giannino, su Il Messaggero, esprime la propria disillusione per l'Europa e punta l'indice sulla Francia, che «ha dimostrato la propria concezione del mercato unico europeo: aperto alle acquisizioni francesi in casa altrui, blindato a quelle straniere in casa propria». Un comportamento che «ricorda la politica di piano e l'orgoglio dell'autarchia» e richiama alla memoria le guerre protezionistiche di fine '800.
Nell'accezione comune e anche, bisogna dirlo, nella storiografia "ufficiale", la Gran Bretagna è il paese cui viene sempre attribuito il ruolo di freno del processo d'integrazione europea. Pesano un pregiudizio anglofobico e il sospetto per la special relationship di Londra con gli Stati Uniti. Chissà che una storiografia più coraggiosa non riesca invece a rintracciare nella Francia quel germe anti-europeista che nei momenti clou ha prevalso impedendo all'Europa di fare il salto di qualità. Accadde con la CED, la Comunità europea di difesa, bocciata nel 1954 dalla Francia, che avrebbe rappresentato il volano per un progetto volto a creare una struttura federale o confederale. Accade oggi con la bocciatura della costituzione - causata dal suicidio di una classe politica, destra e sinistra, unita nell'alimentare le paure dei francesi giustificando così le politiche protezioniste e dirigiste - e con il caso Suez/Enel, colpo tremendo al mercato unico, che sembrava un dato acquisito.
L'intera storia del processo d'integrazione europea andrebbe insomma reinterpretata alla luce della rivalità tra la Francia dirigista e la Gran Bretagna mercatista. Le due potenze hanno finito per giocare il ruolo dei poli respingenti, con Londra naturalmente rivolta verso Washington, ma anche spinta oltreoceano da Parigi, gelosa del suo ruolo egemone in Europa. Oggi constatiamo sempre di più che le istituzioni europee hanno finito per assumere i caratteri burocratici e dirigisti di Parigi.
Certo, al di là del nuovo trattato non ratificato, delle divisioni sull'Iraq, è l'evidente assenza di ciò che almeno ritenevamo acquisito, il mercato comune, ad affossare il sogno europeo: «... l'Europa non cresce proprio perché vi è troppo poca concorrenza, troppe protezioni, un'eccessiva interferenza dello Stato nell'economia. Per riprendere a crescere occorre aver il coraggio di liberare l'economia e spiegare agli elettori che ogni protezione dei produttori corrisponde a uno sfruttamento dei consumatori».
I privilegi dei produttori si traformano in danni per consumatori e lavoratori. Questo semplice concetto potrebbe risultare efficace per convincere gli elettori a sostenere riforme più coraggiose.
Anche Oscar Giannino, su Il Messaggero, esprime la propria disillusione per l'Europa e punta l'indice sulla Francia, che «ha dimostrato la propria concezione del mercato unico europeo: aperto alle acquisizioni francesi in casa altrui, blindato a quelle straniere in casa propria». Un comportamento che «ricorda la politica di piano e l'orgoglio dell'autarchia» e richiama alla memoria le guerre protezionistiche di fine '800.
Nell'accezione comune e anche, bisogna dirlo, nella storiografia "ufficiale", la Gran Bretagna è il paese cui viene sempre attribuito il ruolo di freno del processo d'integrazione europea. Pesano un pregiudizio anglofobico e il sospetto per la special relationship di Londra con gli Stati Uniti. Chissà che una storiografia più coraggiosa non riesca invece a rintracciare nella Francia quel germe anti-europeista che nei momenti clou ha prevalso impedendo all'Europa di fare il salto di qualità. Accadde con la CED, la Comunità europea di difesa, bocciata nel 1954 dalla Francia, che avrebbe rappresentato il volano per un progetto volto a creare una struttura federale o confederale. Accade oggi con la bocciatura della costituzione - causata dal suicidio di una classe politica, destra e sinistra, unita nell'alimentare le paure dei francesi giustificando così le politiche protezioniste e dirigiste - e con il caso Suez/Enel, colpo tremendo al mercato unico, che sembrava un dato acquisito.
L'intera storia del processo d'integrazione europea andrebbe insomma reinterpretata alla luce della rivalità tra la Francia dirigista e la Gran Bretagna mercatista. Le due potenze hanno finito per giocare il ruolo dei poli respingenti, con Londra naturalmente rivolta verso Washington, ma anche spinta oltreoceano da Parigi, gelosa del suo ruolo egemone in Europa. Oggi constatiamo sempre di più che le istituzioni europee hanno finito per assumere i caratteri burocratici e dirigisti di Parigi.
Forse questa Rosa un senso ce l'ha
Forse questa "Rosa" così malaccio non va, e le bocciature più livorose nascondono degli invidiosi, se i direttori di due testate di centrodestra riconoscono che non tutto è vano della strategia di Pannella & Co.
Giuliano Ferrara su Il Foglio:
Giuliano Ferrara su Il Foglio:
«... il centro sinistra è uscito da quella tenaglia ideologica un po' malinconica del '96, o con Prodi o con il comandante Fausto. C'è un terzo uomo, un terzo soggetto, che non dice volgarità su Berlusconi, che ha un lungo tirocinio filoamericano e filoisraeliano, che garantisce quella parte di opinione pubblica, e la rappresenta, alla quale risultano stucchevoli, pesanti, indigeste le vecchie coordinate culturali e politiche del movimento operaio...»Paolo Pillitteri, su L'Opinone:
«Si può essere pro o contro la radicalsocialista Rosa nel pugno, se ne potranno denunciare i limiti o esaltare i meriti secondo i punti di vista ma non v’è chi, in buona fede, non possa non riconosce nella "nuova" creatura di Pannella l'unica vera, autentica novità della politica, tanto più capace di saper attrarre nuove intelligenze, nuovi soggetti, quanto più in grado di parlare la lingua della modernità. Rispetto ad una sinistra (per non dire della destra) che appare, di colpo, arcaica, risaputa, inadeguata, incerta nell’identità, divisa in non poche opzioni di fondo. C’è da giurarci che la lingua della "Rosa" batte e batterà proprio là dove il dente, della gauche, duole».
Sunday, February 26, 2006
Quale Europa con questa Francia?
«Nella patria di Colbert la mano pubblica non desta scandalo, ma solo quando è francese»
La Francia colbertista, dopo aver affossato la costituzione europea e, con tanti complici, la direttiva Bolkestein; dopo aver ostacolato una riforma blairiana del bilancio comunitario, lo spostamento di risorse dall'agricoltura (francese) all'innovazione a alla ricerca europea, schiaffeggia l'Italia piagnona.
Il premier De Villepin s'inventa una fusione tra Gaz de France (di proprità statale) e Suez Frenate (privata) per impedire che su quest'ultima Enel eserciti un'Opa. In sostanza, lo Stato interviene sul mercato e si compra un'impresa per evitare che venga acquistata da un'altra di un paese europeo. Ma l'Europa è unita solo quando conviene ai francesi?
A cospetto della politica industriale francese, statalista e dirigista, persino Tremonti fa la figura del liberista. Per il suo libro "Rischi fatali" viene definito «colbertista». «A me davano del colbertista e del protezionista, ma io ho parlato di duties and quotas, dazi e quote nei confronti della Cina, sul modello americano», ma che dire oggi della Francia e della sua mossa protezionista nei confronti di un paese europeo? Una guerra protezionista sarebbe letale per l'Europa, già legata dai troppi vincoli corporativi e dirigisti che frenano l'economia.
Critico sia con il governo francese, sia con l'azienda italiana, il commento di Mucchetti, sul Corriere della Sera di oggi:
La Francia colbertista, dopo aver affossato la costituzione europea e, con tanti complici, la direttiva Bolkestein; dopo aver ostacolato una riforma blairiana del bilancio comunitario, lo spostamento di risorse dall'agricoltura (francese) all'innovazione a alla ricerca europea, schiaffeggia l'Italia piagnona.
Il premier De Villepin s'inventa una fusione tra Gaz de France (di proprità statale) e Suez Frenate (privata) per impedire che su quest'ultima Enel eserciti un'Opa. In sostanza, lo Stato interviene sul mercato e si compra un'impresa per evitare che venga acquistata da un'altra di un paese europeo. Ma l'Europa è unita solo quando conviene ai francesi?
A cospetto della politica industriale francese, statalista e dirigista, persino Tremonti fa la figura del liberista. Per il suo libro "Rischi fatali" viene definito «colbertista». «A me davano del colbertista e del protezionista, ma io ho parlato di duties and quotas, dazi e quote nei confronti della Cina, sul modello americano», ma che dire oggi della Francia e della sua mossa protezionista nei confronti di un paese europeo? Una guerra protezionista sarebbe letale per l'Europa, già legata dai troppi vincoli corporativi e dirigisti che frenano l'economia.
Critico sia con il governo francese, sia con l'azienda italiana, il commento di Mucchetti, sul Corriere della Sera di oggi:
«La risposta del governo francese all'opa ostile sulla congiomerata Suez, sussurrata ma non ancora annunciata dall'Enel, dà la misura della gelosia con cui la Francia protegge le sue grandi imprese. Ma mette anche con le spalle al muro il machiavellismo tatticista dell'ex monopolio italiano e del suo azionista di riferimento».
Friday, February 24, 2006
Apriamo alle barzellette blasfeme
Apriamo, grazie a Wittgenstein, alle barzellette blasfeme, nella speranza che i musulmani comprendano che da noi l'islam non è la sola religione su cui è lecito fare dell'umorismo, e di non ricevere «meritatissime bastonate» da qualche solerte clericaletto in erba.
Sono gli ultimi giorni di Hitler e il fuhrer, a cui è chiara la sconfitta imminente, dà ordine alle sue gerarchie militari di sterminare tutti i prigionieri, dissidenti, ebrei, zingari, polacchi: "muoia Sansone con tutti i filistei". L'ordine raggiunge le dislocazioni naziste in tutta Europa e ogni soldato fino all'ultimo avamposto esegue la sua parte di sterminio finale. Un giovane ufficiale di stanza in Polonia guida i suoi soldati ad uccidere i prigionieri catturati fino a quel momento, e poi gli ebrei nei campi, e poi gli stessi polacchi, che cercano rifugio dove possono. I morti cadono uno dopo l'altro, alcuni scappano nelle chiese: i soldati entrano in chiesa, e sparano, e uccidono ancora. Lo stesso ufficiale avanza tra le navate con la luger in pugno e raggiunge l'altare, dove in un angolo, rannicchiato, sta un giovane prete polacco, che lo implora tremando di non sparare.
"Nein, io atesso uccidere te, perché questo è ordine ke mi ha dato mio fuhrer", e gli punta la pistola addosso...
"No, fermo, fermo, ti prego, non mi ammazzare, non farlo..."
"Io uccidere te, come ho ucciso gli altri, nemici di Cermania..."
"No, fermati..."
L'ufficiale sta premendo il grilletto.
"Fermati, devi sapere una cosa... Se non mi uccidi, io un giorno sarò Papa..."
L'ufficiale, esita, lo guarda, abbassa la pistola, e fa:
"Fa bene, ma dopo io!"
Sono gli ultimi giorni di Hitler e il fuhrer, a cui è chiara la sconfitta imminente, dà ordine alle sue gerarchie militari di sterminare tutti i prigionieri, dissidenti, ebrei, zingari, polacchi: "muoia Sansone con tutti i filistei". L'ordine raggiunge le dislocazioni naziste in tutta Europa e ogni soldato fino all'ultimo avamposto esegue la sua parte di sterminio finale. Un giovane ufficiale di stanza in Polonia guida i suoi soldati ad uccidere i prigionieri catturati fino a quel momento, e poi gli ebrei nei campi, e poi gli stessi polacchi, che cercano rifugio dove possono. I morti cadono uno dopo l'altro, alcuni scappano nelle chiese: i soldati entrano in chiesa, e sparano, e uccidono ancora. Lo stesso ufficiale avanza tra le navate con la luger in pugno e raggiunge l'altare, dove in un angolo, rannicchiato, sta un giovane prete polacco, che lo implora tremando di non sparare.
"Nein, io atesso uccidere te, perché questo è ordine ke mi ha dato mio fuhrer", e gli punta la pistola addosso...
"No, fermo, fermo, ti prego, non mi ammazzare, non farlo..."
"Io uccidere te, come ho ucciso gli altri, nemici di Cermania..."
"No, fermati..."
L'ufficiale sta premendo il grilletto.
"Fermati, devi sapere una cosa... Se non mi uccidi, io un giorno sarò Papa..."
L'ufficiale, esita, lo guarda, abbassa la pistola, e fa:
"Fa bene, ma dopo io!"
Capezzone sfida il volto materno dello Stato etico catto-comunista
Ieri sera micidiale uno-due su La7 Capezzone (8 e mezzo)-Rocca (Dalla parte degli Angeli). Il segretario dei Radicali italiani è stato ribattezzato da Ferrara «caimano» per aver tirato a Livia Turco dei tremendi fendenti, accompagnati però da un ampio sorriso da ragazzo della porta accanto. La povera Livia è stata trattata come la zia zitella un po' pazza e nulla ha potuto la zia Armeni che ha preso le sue difese. La Turco si conferma il volto materno dello Stato etico catto-comunista.
(Qui il video)
Merita una riflessione anche l'intervento di Cacciari, che chiameremo il filosofo "compilativo". Ha impartito ai presenti una lezione di filosofia politica che nulla aveva a che vedere con il tema della trasmissione o della laicità com'è discussa nell'attualità politica. Lo stato moderno europeo e occidentale, ha sostenuto, non può che essere laico nella sua essenza, perché i legislatori e i governi non danno ascolto ai teologi, ma piegano le loro decisioni alla contingenza e alla convenienza storico-politica. Insomma, "Il Principe" di Machiavelli, Westfalia, eccetera eccetera. Rutelli non in obbedienza alla fede, ma per convenienza avrebbe difeso la legge 40 sulla procreazione assistita. Ma cosa cambia ai fini della laicità del risultato?
Toh, che vecchia concezione di laicità, sei-ottocentesca. Qui ci sforziamo di dire, rispondendo a chi ci accusa di anticlericalismo ottocentesco, che la laicità cui ci riferiamo è già nuova. E' un concetto che ha sciacquato i suoi panni nel fiume rosso-sangue del secolo scorso, il '900, famoso secolo delle ideologie. Erano forse l'Unione sovietica e l'Iraq di Saddam stati laici? Diremmo di no. Perché il '900 ci ha insegnato che la laicità non fa dispetto alla religione, ma si contrappone a qualsiasi pretesa, confessionale, ideologica, o ateo-devota, di monopolizzare l'etica pubblica, negando pari dignità morale ad altre visioni etiche della vita. E' insomma, rifiuto dello stato etico, dell'etica di stato che s'infila nel diritto, ma che può essere di matrice sia confessionale che a-confessionale. Non importa perché, se per fede o per opportunismo, importa il segno dell'esito legislativo. Caro Cacciari, si aggiorni.
Nel documentario sull'America Dalla parte degli Angeli, davvero ben fatto e intelligentemente filo americano, Rocca e Bonami, ciascuno secondo le proprie competenze, si sono concentrati a demolire alcuni stereotipi europei, e italiani, sugli americani. Idioti zoticoni? Cattivi e cinici? Non proprio. Tra le tante differenze, quella che mi pare davvero radicale tra Stati Uniti ed Europa (la Gran Bretagna in alcuni momenti storici fa eccezione) è che lì hanno idee. Le hanno perché le producono, investono per produrle, premiano chi le ha. Le idee circolano e così circolano le elites, mentre qui il potere è ben più oligarchico. Sono le nuove idee che consentono a un paese di «cambiar pelle» rimanendo se stesso.
(Qui il video)
Merita una riflessione anche l'intervento di Cacciari, che chiameremo il filosofo "compilativo". Ha impartito ai presenti una lezione di filosofia politica che nulla aveva a che vedere con il tema della trasmissione o della laicità com'è discussa nell'attualità politica. Lo stato moderno europeo e occidentale, ha sostenuto, non può che essere laico nella sua essenza, perché i legislatori e i governi non danno ascolto ai teologi, ma piegano le loro decisioni alla contingenza e alla convenienza storico-politica. Insomma, "Il Principe" di Machiavelli, Westfalia, eccetera eccetera. Rutelli non in obbedienza alla fede, ma per convenienza avrebbe difeso la legge 40 sulla procreazione assistita. Ma cosa cambia ai fini della laicità del risultato?
Toh, che vecchia concezione di laicità, sei-ottocentesca. Qui ci sforziamo di dire, rispondendo a chi ci accusa di anticlericalismo ottocentesco, che la laicità cui ci riferiamo è già nuova. E' un concetto che ha sciacquato i suoi panni nel fiume rosso-sangue del secolo scorso, il '900, famoso secolo delle ideologie. Erano forse l'Unione sovietica e l'Iraq di Saddam stati laici? Diremmo di no. Perché il '900 ci ha insegnato che la laicità non fa dispetto alla religione, ma si contrappone a qualsiasi pretesa, confessionale, ideologica, o ateo-devota, di monopolizzare l'etica pubblica, negando pari dignità morale ad altre visioni etiche della vita. E' insomma, rifiuto dello stato etico, dell'etica di stato che s'infila nel diritto, ma che può essere di matrice sia confessionale che a-confessionale. Non importa perché, se per fede o per opportunismo, importa il segno dell'esito legislativo. Caro Cacciari, si aggiorni.
Nel documentario sull'America Dalla parte degli Angeli, davvero ben fatto e intelligentemente filo americano, Rocca e Bonami, ciascuno secondo le proprie competenze, si sono concentrati a demolire alcuni stereotipi europei, e italiani, sugli americani. Idioti zoticoni? Cattivi e cinici? Non proprio. Tra le tante differenze, quella che mi pare davvero radicale tra Stati Uniti ed Europa (la Gran Bretagna in alcuni momenti storici fa eccezione) è che lì hanno idee. Le hanno perché le producono, investono per produrle, premiano chi le ha. Le idee circolano e così circolano le elites, mentre qui il potere è ben più oligarchico. Sono le nuove idee che consentono a un paese di «cambiar pelle» rimanendo se stesso.
E' un manifesto neo-tradizionalista
Dell'Occidente non si vogliono difendere solo, né soprattutto, i principi di libertà e democrazia, ma i valori tradizionali
Vogliono porre mano alla crisi dell'Occidente ma essi stessi sono intellettuali e politici in crisi. E' la crisi di fiducia nel liberalismo e nella democrazia che li porta a ritenere i saldi principi della tradizione fonte d'ispirazione politica prevalente ove siano in conflitto con l'autodeterminazione dell'individuo. Ricordano gli intellettuali tra le due guerre mondiali, che presi da un profondo scetticismo, in una sorta di "fuga dalla libertà", cercando chi un'alternativa chi un aggiustamento, finirono per rifugiarsi in nuovi vincoli autoritari, in sistemi politici che promettevano di eliminare l'insicurezza relativistica, di reagire al presunto livellamento di tutti i valori e di soddisfare il bisogno di ridurre la complessità del mondo moderno.
Basta una parola a svelare il manifesto: tradizione. Essa conta più che il nostro volere qui e ora, democraticamente espresso. La teoria liberaldemocratica, secondo Pera, avrebbe il difetto di privilegiare ora la libertà ora la democrazia, e non parlare mai di una «società buona». Occorre, dice, un «fondamento morale». Il fondamento morale si troverebbe nella «tradizione». Ma la tradizione dove si trova? Chi ne è depositario e interprete? Qui cominciano i problemi del conservatorismo. Sfiducia nella democrazia, ovvero nell'esito che può avere il rivolgersi al popolo per decidere, e sfiducia nella libertà, in quello a cui la libertà può portare, sia essa la libertà degli individui o quella dei popoli: il superamento della tradizione. Ha scritto von Hayek, nel saggio "Perché non sono un conservatore", che «uno dei tratti fondamentali dell'atteggiamento conservatore è il timore del cambiamento». Avverte d'istinto che le nuove idee mettono in discussione la tradizione, di cui difende l'autorità presunta superiore, e di conseguenza le avversa. Il liberale invece si caratterizza per «la fondamentale credenza nel potere a lungo termine delle idee», nella libera competizione e concorrenza fra esse.
I liberali sono persuasi che siamo noi, i cittadini di oggi, qui ed ora, a essere i pieni titolari del diritto di decidere, dello stesso diritto e della stessa responsabilità che ebbero i cittadini del tempo della Costituente. Possiamo soggettivamente ricondurci alla tradizione che vogliamo, ma non esiste nessuna tradizione che oggettivamente valga più del nostro sentire di adesso.
I periani scrivono un manifesto in difesa dell'Occidente. Dovrebbe quindi essere inclusivo di tutte le culture politiche della libertà e della democrazia, se sono questi i principi che si vogliono difendere. Invece esclude persino la cultura laica e liberale e si rivolge a un sentimento conservatore. Un manifesto che non riesce a esprimere nemmeno il prefisso neo- di neocon (un neoconservatore è un «conservatore che accetta la realtà moderna»), ma solo il suffisso -con. Non è un manifesto per l'Occidente, ma per un conservatorismo neanche neo. Per il neotradizionalismo.
Se lo scopo è la difesa dell'Occidente, il miglior modo di difenderlo è accusare di "tradimento" le altre famiglie politiche che hanno pur contribuito a questo Occidente democratico e liberale? E' vero che l'Occidente non sembra «capace di rispondere alla sfida», che «l'Europa è ferma», che l'antiamericanismo è un pericoloso virus, che l'integrazione degli immigrati manca di regole (soprattutto laiche), ma ciò non si deve a una «crisi morale e spirituale», che semmai lasciamo risolvere agli individui, ma a una crisi politica.
«Le nostre tradizioni sono messe in discussione. Il laicismo o il progressismo rinnegano i costumi millenari della nostra storia. Si sviliscono così i valori della vita, della persona, del matrimonio, della famiglia». Perché saldare la difesa dell'Occidente dal fondamentalismo islamico alla difesa, dalle decisioni dei Parlamenti democratici, di un ordine morale e sociale che trova nella tradizione il proprio fondamento? Forse dell'Occidente non si vogliono difendere solo, né soprattutto, i principi di libertà e democrazia, ma i valori tradizionali. C'è, in questo allarmismo, l'idea della decadenza dell'Occidente. I gay che qui si sposano, in Iran li impiccano. A ben vedere quei modi di vita, quei fenomeni sociali e gli sviluppi scientifici tanto anatemizzati come segni di «crisi morale e spirituale» dell'Occidente sono gli stessi che scatenano l'odio dei nostri nemici jihadisti. Così finiamo col fare nostra la loro immagine disumanizzante dell'Occidente come terra del tramonto e della decadenza.
Nonostante la determinazione con la quale Benedetto XVI combatte la sua battaglia al relativismo culturale possa esercitare un forte appeal, mettere sullo stesso piano, come la Santa Sede ha fatto, vignettisti e giornalisti da una parte, e coloro che in modo organizzato assaltano le ambasciate dall'altro, dimostra quanto sia nel migliore dei casi ingenuo arruolare la Chiesa cattolica nel campo dei difensori di libertà e democrazia. Anzi, aderendo alla battaglia culturale di Papa Ratzinger, i liberali finiscono col combattere una battaglia non loro, si ritrovano a fare da sponda a una "penetrazione" religiosa e culturale, il cui scopo è di fare breccia nel mondo laico per farne un veicolo, più o meno inconsapevole, di affermazione di un magistero morale, per esercitare un potere di condizionamento nella vita civile del paese.
Se l'Europa ha paura, è intimidita, remissiva, i liberali hanno certo il dovere morale, l'obiettivo culturale e politico, di non disertare dall'affermazione di valori e principi, di resistere al cinismo della realpolitik, a una falsa tolleranza che è indifferenza e remissività, ma non dovrebbero cedere alla tentazione di riempire con l'autorità della religione e della tradizione quelli che a ben vedere sono vuoti di elaborazione culturale e di comprensione laica della realtà, assenza di visione e progettualità politica.
Lo spiega bene Carmelo Palma ricordando Luca Coscioni (L'Opinione, 23.02.2006): «Luca Coscioni è stato protagonista di una battaglia di "verità", che molto ha a che fare con la questione dell'identità politica dell'Occidente».
Ciò che dobbiamo difendere non è, o non è solo, la nostra identità di occidentali, quindi fatta delle famose radici giudaico-cristiane, o greco-romane, o illuministe. E gli altri? Tutte le altre culture, le altre civiltà? Sono fuori? Cosa ne facciamo? Le regaliamo al fondamentalismo? Come vittime o come complici? Dev'essere chiaro al mondo che l'Occidente combatte il terrorismo non perché è anti-cristiano, ma per difendere principi che riteniamo universali: «WE hold these Truths to be self-evident, that all Men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the Pursuit of Happiness...». Ciò che dobbiamo difendere non è, o non è solo, la nostra civiltà, come se le altre, a cominciare da quella islamica, non meritino di vivere, ma è un modello di convivenza basato sulla libertà individuale e sulla democrazia, è un sistema di governo basato sulla separazione dei poteri, lo stato di diritto, la laicità dello Stato. Diritti soggettivi storicamente acquisiti per ogni essere umano. Sono insomma, principi che o sono universali, affermati ed esercitati come tali, o non sono.
Come facciamo a portare dalla "nostra" parte coloro che pur non facendo parte della nostra "civiltà" occidentale sono sotto l'attacco del fondamentalismo islamico e oppressi dalla tirannia? Come potrebbero sentirsi "con" noi se a noi importa manifestare «per l'Occidente»? Se non siamo consapevoli di ciò, abbiamo già perso, perché non riusciremo a portare dalla parte della libertà e della democrazia i cuori e le menti proprio di quel mondo che è persino più direttamente di noi sotto attacco.
Vogliono porre mano alla crisi dell'Occidente ma essi stessi sono intellettuali e politici in crisi. E' la crisi di fiducia nel liberalismo e nella democrazia che li porta a ritenere i saldi principi della tradizione fonte d'ispirazione politica prevalente ove siano in conflitto con l'autodeterminazione dell'individuo. Ricordano gli intellettuali tra le due guerre mondiali, che presi da un profondo scetticismo, in una sorta di "fuga dalla libertà", cercando chi un'alternativa chi un aggiustamento, finirono per rifugiarsi in nuovi vincoli autoritari, in sistemi politici che promettevano di eliminare l'insicurezza relativistica, di reagire al presunto livellamento di tutti i valori e di soddisfare il bisogno di ridurre la complessità del mondo moderno.
Basta una parola a svelare il manifesto: tradizione. Essa conta più che il nostro volere qui e ora, democraticamente espresso. La teoria liberaldemocratica, secondo Pera, avrebbe il difetto di privilegiare ora la libertà ora la democrazia, e non parlare mai di una «società buona». Occorre, dice, un «fondamento morale». Il fondamento morale si troverebbe nella «tradizione». Ma la tradizione dove si trova? Chi ne è depositario e interprete? Qui cominciano i problemi del conservatorismo. Sfiducia nella democrazia, ovvero nell'esito che può avere il rivolgersi al popolo per decidere, e sfiducia nella libertà, in quello a cui la libertà può portare, sia essa la libertà degli individui o quella dei popoli: il superamento della tradizione. Ha scritto von Hayek, nel saggio "Perché non sono un conservatore", che «uno dei tratti fondamentali dell'atteggiamento conservatore è il timore del cambiamento». Avverte d'istinto che le nuove idee mettono in discussione la tradizione, di cui difende l'autorità presunta superiore, e di conseguenza le avversa. Il liberale invece si caratterizza per «la fondamentale credenza nel potere a lungo termine delle idee», nella libera competizione e concorrenza fra esse.
I liberali sono persuasi che siamo noi, i cittadini di oggi, qui ed ora, a essere i pieni titolari del diritto di decidere, dello stesso diritto e della stessa responsabilità che ebbero i cittadini del tempo della Costituente. Possiamo soggettivamente ricondurci alla tradizione che vogliamo, ma non esiste nessuna tradizione che oggettivamente valga più del nostro sentire di adesso.
I periani scrivono un manifesto in difesa dell'Occidente. Dovrebbe quindi essere inclusivo di tutte le culture politiche della libertà e della democrazia, se sono questi i principi che si vogliono difendere. Invece esclude persino la cultura laica e liberale e si rivolge a un sentimento conservatore. Un manifesto che non riesce a esprimere nemmeno il prefisso neo- di neocon (un neoconservatore è un «conservatore che accetta la realtà moderna»), ma solo il suffisso -con. Non è un manifesto per l'Occidente, ma per un conservatorismo neanche neo. Per il neotradizionalismo.
Se lo scopo è la difesa dell'Occidente, il miglior modo di difenderlo è accusare di "tradimento" le altre famiglie politiche che hanno pur contribuito a questo Occidente democratico e liberale? E' vero che l'Occidente non sembra «capace di rispondere alla sfida», che «l'Europa è ferma», che l'antiamericanismo è un pericoloso virus, che l'integrazione degli immigrati manca di regole (soprattutto laiche), ma ciò non si deve a una «crisi morale e spirituale», che semmai lasciamo risolvere agli individui, ma a una crisi politica.
«Le nostre tradizioni sono messe in discussione. Il laicismo o il progressismo rinnegano i costumi millenari della nostra storia. Si sviliscono così i valori della vita, della persona, del matrimonio, della famiglia». Perché saldare la difesa dell'Occidente dal fondamentalismo islamico alla difesa, dalle decisioni dei Parlamenti democratici, di un ordine morale e sociale che trova nella tradizione il proprio fondamento? Forse dell'Occidente non si vogliono difendere solo, né soprattutto, i principi di libertà e democrazia, ma i valori tradizionali. C'è, in questo allarmismo, l'idea della decadenza dell'Occidente. I gay che qui si sposano, in Iran li impiccano. A ben vedere quei modi di vita, quei fenomeni sociali e gli sviluppi scientifici tanto anatemizzati come segni di «crisi morale e spirituale» dell'Occidente sono gli stessi che scatenano l'odio dei nostri nemici jihadisti. Così finiamo col fare nostra la loro immagine disumanizzante dell'Occidente come terra del tramonto e della decadenza.
Nonostante la determinazione con la quale Benedetto XVI combatte la sua battaglia al relativismo culturale possa esercitare un forte appeal, mettere sullo stesso piano, come la Santa Sede ha fatto, vignettisti e giornalisti da una parte, e coloro che in modo organizzato assaltano le ambasciate dall'altro, dimostra quanto sia nel migliore dei casi ingenuo arruolare la Chiesa cattolica nel campo dei difensori di libertà e democrazia. Anzi, aderendo alla battaglia culturale di Papa Ratzinger, i liberali finiscono col combattere una battaglia non loro, si ritrovano a fare da sponda a una "penetrazione" religiosa e culturale, il cui scopo è di fare breccia nel mondo laico per farne un veicolo, più o meno inconsapevole, di affermazione di un magistero morale, per esercitare un potere di condizionamento nella vita civile del paese.
Se l'Europa ha paura, è intimidita, remissiva, i liberali hanno certo il dovere morale, l'obiettivo culturale e politico, di non disertare dall'affermazione di valori e principi, di resistere al cinismo della realpolitik, a una falsa tolleranza che è indifferenza e remissività, ma non dovrebbero cedere alla tentazione di riempire con l'autorità della religione e della tradizione quelli che a ben vedere sono vuoti di elaborazione culturale e di comprensione laica della realtà, assenza di visione e progettualità politica.
Lo spiega bene Carmelo Palma ricordando Luca Coscioni (L'Opinione, 23.02.2006): «Luca Coscioni è stato protagonista di una battaglia di "verità", che molto ha a che fare con la questione dell'identità politica dell'Occidente».
«Le risposte - tanto a Bin Laden quanto alla clonazione terapeutica - sono spesso le stesse risposte, con lo stesso segno, la stessa logica, la stessa disperata, generosa, affannata necessità di fissare gli stessi "punti fermi", che però non sono affatto fermi, perché eravamo stati "noi" – non i nostri nemici – a metterli in discussione. Perché Coscioni ha posto dunque una questione di "verità"? Perché ha messo politicamente in crisi il modello di risposta, l'illusione di difendersi dal pericolo ricorrendo ad una razionalità ideologica, ad una falsa coscienza, che chiama "razionale" ciò che meglio esorcizza la paura».La soluzione sta nel «correre il rischio della libertà», e il problema nella «contraddizione maieutica fra l'esigenza di essere quello che siamo e vogliamo essere (un mondo di uomini che vivono liberamente e che fanno a proprio rischio le scelte essenziali della vita) e l'illusione di tornare a essere quello che eravamo, quando non avevamo "questi problemi", come se "questi problemi" dipendessero da un nostro incompreso tradimento».
«Coscioni ha incarnato questa contraddizione e l'ha fatta camminare nel corpo della politica. La radicalità dell'alternativa posta da Coscioni è semplice: o la modernità accetta, con tutti i rischi del caso, di rimanere, anche di fronte al pericolo, il "campo della libertà" in cui ciascuno, per come può e sa, gioca la sua "partita con la verità", oppure la nostra identità politica viene totalmente meno - e non saremmo più difesi, ma ancora più indeboliti da questa rinuncia: non saremo mai più forti rinunciando a sapere e ad usare rischiosamente del nostro sapere e della nostra libertà».Inoltre, e qui sta l'altra contraddizione del manifesto, se libertà e democrazia sono «valori universali validi ovunque», forse non dovremmo preoccuparci di paragonare le culture, le civiltà, per stabilirne la migliore, o di difendere l'Occidente piuttosto che l'umanità intera, ma dovremmo paragonare i sistemi politici, quelli sì. Lo scontro in atto è trasversale alle civiltà, per questo non ha senso schierarsi solo, o soprattutto, in difesa dell'Occidente. E' un errore che non hanno fatto neanche Bush e i neoconservatori americani. Non di Occidente contro Islam parlano ma, semmai, di guerra al terrorismo, all'islamo-fascismo, alla tirannia.
Ciò che dobbiamo difendere non è, o non è solo, la nostra identità di occidentali, quindi fatta delle famose radici giudaico-cristiane, o greco-romane, o illuministe. E gli altri? Tutte le altre culture, le altre civiltà? Sono fuori? Cosa ne facciamo? Le regaliamo al fondamentalismo? Come vittime o come complici? Dev'essere chiaro al mondo che l'Occidente combatte il terrorismo non perché è anti-cristiano, ma per difendere principi che riteniamo universali: «WE hold these Truths to be self-evident, that all Men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the Pursuit of Happiness...». Ciò che dobbiamo difendere non è, o non è solo, la nostra civiltà, come se le altre, a cominciare da quella islamica, non meritino di vivere, ma è un modello di convivenza basato sulla libertà individuale e sulla democrazia, è un sistema di governo basato sulla separazione dei poteri, lo stato di diritto, la laicità dello Stato. Diritti soggettivi storicamente acquisiti per ogni essere umano. Sono insomma, principi che o sono universali, affermati ed esercitati come tali, o non sono.
Come facciamo a portare dalla "nostra" parte coloro che pur non facendo parte della nostra "civiltà" occidentale sono sotto l'attacco del fondamentalismo islamico e oppressi dalla tirannia? Come potrebbero sentirsi "con" noi se a noi importa manifestare «per l'Occidente»? Se non siamo consapevoli di ciò, abbiamo già perso, perché non riusciremo a portare dalla parte della libertà e della democrazia i cuori e le menti proprio di quel mondo che è persino più direttamente di noi sotto attacco.
Thursday, February 23, 2006
Emorragia dai Ds. E scatta l'anatema togliattiano
Non c'è niente da fare. I Ds sono di legno, non capiscono. Non comprendono l'opportunità che la Rosa nel Pugno rappresenta nel centrosinistra per contrastare la sinistra massimalista sulla politica estera e le liberalizzazioni economiche, e i neocentristi della Margherita sulle libertà individuali. Non solo realismo però, non lo comprendono innanzitutto perché essi stessi non sono affatto convinti di quelle urgenze. Perché sono i Ds il vero partito-azienda che pur di tornare al potere, e per farlo devono raccogliere voti da ogni parte, hanno dovuto svuotare di ogni contenuto la loro iniziativa politica. E' ancora così forte la loro tendenza egemonica, retaggio della cultura dei due blocchi, che l'istinto è quello di intercettare istanze fra loro diversissime la cui rappresentanza dovrebbe essere lasciata ad altre forze politiche, con i rischi che ciò comporta. Per voler "contenere" tutto, non rappresentano più nulla.
Il «derby» di cui parlava ieri Cazzullo sul Corriere prosegue oggi su il Riformista, e con clamorosi autogol. Patetico quello di Livia Turco, più raffinato quello di Polito, ma leggendo entrambi Turci, De Giovanni e gli altri avranno rafforzate le ragioni della loro scelta. «Il partito democratico - diceva ieri Polito al Corriere - deve nascere proprio da qui, dal superamento del novecentismo, dalla contaminazione tra culture liberali, non dalla riedizione dell'alleanza residuale tra ex comunisti ed ex democristiani che trent'anni fa sognavano il compromesso storico».
E' proprio questo che sostengono i liberalsocialisti, ma il «compromesso» di cui Polito parla stamani invece, con il controcanto della Turco, assomiglia molto di più alla riedizione di quello "storico" catto-comunista. Riesce in un prodigioso stravolgimento. Legiferando sui temi etici in modo laico il cittadino, comunque la pensi, rimane libero di esercitare o meno una scelta. Ove una maggioranza deliberasse per regolamentare l'eutanasia la minoranza che fosse contraria non sarebbe affatto «coartata nei propri convincimenti etici», poiché rimarrebbe libera di non ricorrervi. Consentire a medico e paziente di praticare la procreazione assistita secondo propria scienza e coscienza non avrebbe obbligato nessuno ad avvalersene. Nel "nirvana" legislativo laico e liberale nessun individuo è «coartato».
I «figli del Pci» non vedono, nemmeno oggi, la contraddizione negli articoli 7 e 8 della costituzione? Il 7 non nega ciò che l'8 afferma? Ci sia la «battaglia delle idee», ma non truccata dai miliardi di euro e dai privilegi concordatari. Su questo Gramsci, Salvemini, Nenni, Bobbio, Scalfari, Montale, Jemolo erano tutti «estremisti»? Capisco, è indispensabile caricaturizzare, ma nel concreto: i Pacs del popolare Aznar o i matrimoni gay di Blair e Zapatero, l'eutanasia, la chiarezza del modello a-concordatario americano, tutti «sinistrismi»? Sia sulle liberalizzazioni con la sinistra massimalista, sia sulle libertà individuali con la Margherita, il «compromesso» dei Ds è la non-scelta. Si teme di «spaccare le masse», ma la democrazia non è ricerca ossessiva e utopistica dell'unanimità, o di valori e un'etica «condivisi». Presuppone anzi scelte di governo che permettano la convivenza proprio di valori ed etiche profondamente diversi.
E sono tre. Dopo Turci e De Giovanni, ecco Buglio, forse Bogi, Grillini se la rischia. M'immagino quella impagabile coppia di ottantenni, Pannella e Macaluso, mentre mettono a punto il loro disegno a una festa di compleanno, tra una tartina e un piatto di pasta al sugo. L'emorragia Ds si aggrava e la reazione dei vertici non nasconde l'irritazione, anzi ne fa politica nel modo peggiore. Nei retroscena sulle telefonate di Fassino («eppure ti avevo detto che per te ci sarebbe stato un posto al governo»), nella scomunica di Chiti («denigra le posizioni politiche del partito nel quale è stato fino a 24 ore fa»), nella reazione della dalemiana Velina rossa, che bolla Turci, De Giovanni e Buglio con una celebre frase di Togliatti, «pidocchi che si possono trovare sulla criniera di un cavallo di razza», riemerge prepotente e istintivo un riflesso stalinista, di un apparato che stritola i non-allineati e pretende anche che non "tradiscano" la causa.
Con ogni probabilità anche il liberal Ds Franco Debenedetti non sarà ricandidato, ma ha resistito alle sirene della Rosa. Eppure, dice, non si possono ignorare le ragioni dei Turci, dei Salvati, degli Ostellino, quel «certo pessimismo sulla possibilità di raggiungere quella sintesi tra socialismo e liberalismo che sarà centrale nel futuro partito democratico». Da loro lo separa la convinzione che «la liberalizzazione del paese non si realizza senza l'apporto decisivo dei Ds». C'è un "ma", pesante, che come avvertimento rivolge ai suoi leader: «... ma è essenziale che i Ds portino in Parlamento dei veri liberali. Almeno uno». Peccato che la Rosa nel Pugno debba chiudere le liste prima dei Ds, altrimenti anche Debenedetti, deluso dalle liste del suo partito, avrebbe accettato la candidatura con la Rosa. E' uno degli effetti anti-democratici della legge elettorale che neanche l'Unione ha voluto correggere, e oggi capiamo il perché.
Paolo Franchi invita i Ds alla calma e alla riflessione. La Rosa nel Pugno è «un alleato scomodo». E, «nel suo piccolo, anche un concorrente. Nonostante tutto, la saggezza politica, e una visione compiutamente pluralista della sinistra, dovrebbero indurre i Ds a considerare questo soggetto in formazione una ricchezza potenziale per l'Unione e (magari) pure per il futuro Partito democratico. Probabilmente, invece, lo considereranno un fastidio, o peggio. E sbaglieranno».
Pierluigi Battista intravede «il segnale di un sommovimento tellurico destinato a cambiare il profilo politico-culturale dello schieramento di centrosinistra». Riconosce che «gli scettici che hanno interpretato la nascita della Rosa nel Pugno come una sommatoria obbligata dalle circostanze tra la pattuglia radicale e uno dei frammenti della diaspora socialista forse dovranno ricredersi, perché nell'arcipelago del centrosinistra quel principio di fusione ha accelerato movimenti profondi». In particolare, «il marcato profilarsi di un'area culturale che nella Rosa nel Pugno trova l'espressione di una sensibilità liberale di cui il centrosinistra ha vitale bisogno e anche un'opzione occidentale senza tentennamenti... Può insomma accadere che... il nucleo del nascituro partito democratico contenga in sé un frammento di anima liberale di cui era sinora drammaticamente priva».
Le motivazioni addotte dai fuggitivi sono politiche e hanno solido fondamento. Turci: «Il mio malessere profondo è che, pur essendosi trasformata la cultura politica dei Ds, non è cambiato il sistema di potere. Si continua a governare dal centro, cooptando in termini più di fedeltà che di meriti. Nella mia vicenda politica all'interno del partito mi sono trovato quasi sempre in minoranza, prima da migliorista poi da socialdemocratico (e queste parole venivano usate contro di noi in termini di scherno), poi da riformista e da liberal. Ho pagato i miei prezzi per quelle scelte, perché in politica soprattutto nella tradizione comunista non c'è nulla di peggio che avere ragione in anticipo».
E ancora, meglio: «Il partito non si è ancora affrancato dal realismo togliattiano: non ha assimilato i valori liberali e laici della democrazia moderna ed è ispirato da quel cinismo che, come diceva Nenni, vuole che la politica venga "prima di tutto". Prima, persino, delle proprie idee e dei propri valori... Se non giuri fedeltà personale al Capo vieni messo da parte. Le idee non contano nulla: nei Ds vai avanti solo per cooptazione o perché appartieni a una cordata interna». La speranza ora è che la Rosa nel Pugno «diventi un interlocutore laico e liberale per la reimpostazione del Partito democratico. Che possa contribuire a evitare che diventi una riedizione in sedicesimo del compromesso storico».
De Giovanni spiega a il Riformista e a la Repubblica, che il problema dei Ds è non avere un pensiero limpido «sul ruolo dell'Italia nell'Occidente, sulla riforma dello stato sociale, sulle liberalizzazioni, sul declino dell'Europa. Persino il modo in cui hanno votato sulla direttiva Bolkestein è opaco». Aggiunge di non capire «che cosa siano veramente i Ds oggi. Mi domando quale sia la loro strategia politica e non trovo una risposta soddisfacente. Ormai sono una realtà anfibia, un aggregato di consenso e di potere». Quindi, l'investimento nella Rosa nel Pugno: «Sono attratto da un soggetto autenticamente riformista e liberale, il valore di questo partito è metapolitico, la sua importanza va al di là del programma». E' importante che «il nucleo del nascituro Patto democratico contenga un sé un frammento di anima liberale di cui sinora è drammaticamente privo».
Il «derby» di cui parlava ieri Cazzullo sul Corriere prosegue oggi su il Riformista, e con clamorosi autogol. Patetico quello di Livia Turco, più raffinato quello di Polito, ma leggendo entrambi Turci, De Giovanni e gli altri avranno rafforzate le ragioni della loro scelta. «Il partito democratico - diceva ieri Polito al Corriere - deve nascere proprio da qui, dal superamento del novecentismo, dalla contaminazione tra culture liberali, non dalla riedizione dell'alleanza residuale tra ex comunisti ed ex democristiani che trent'anni fa sognavano il compromesso storico».
E' proprio questo che sostengono i liberalsocialisti, ma il «compromesso» di cui Polito parla stamani invece, con il controcanto della Turco, assomiglia molto di più alla riedizione di quello "storico" catto-comunista. Riesce in un prodigioso stravolgimento. Legiferando sui temi etici in modo laico il cittadino, comunque la pensi, rimane libero di esercitare o meno una scelta. Ove una maggioranza deliberasse per regolamentare l'eutanasia la minoranza che fosse contraria non sarebbe affatto «coartata nei propri convincimenti etici», poiché rimarrebbe libera di non ricorrervi. Consentire a medico e paziente di praticare la procreazione assistita secondo propria scienza e coscienza non avrebbe obbligato nessuno ad avvalersene. Nel "nirvana" legislativo laico e liberale nessun individuo è «coartato».
I «figli del Pci» non vedono, nemmeno oggi, la contraddizione negli articoli 7 e 8 della costituzione? Il 7 non nega ciò che l'8 afferma? Ci sia la «battaglia delle idee», ma non truccata dai miliardi di euro e dai privilegi concordatari. Su questo Gramsci, Salvemini, Nenni, Bobbio, Scalfari, Montale, Jemolo erano tutti «estremisti»? Capisco, è indispensabile caricaturizzare, ma nel concreto: i Pacs del popolare Aznar o i matrimoni gay di Blair e Zapatero, l'eutanasia, la chiarezza del modello a-concordatario americano, tutti «sinistrismi»? Sia sulle liberalizzazioni con la sinistra massimalista, sia sulle libertà individuali con la Margherita, il «compromesso» dei Ds è la non-scelta. Si teme di «spaccare le masse», ma la democrazia non è ricerca ossessiva e utopistica dell'unanimità, o di valori e un'etica «condivisi». Presuppone anzi scelte di governo che permettano la convivenza proprio di valori ed etiche profondamente diversi.
E sono tre. Dopo Turci e De Giovanni, ecco Buglio, forse Bogi, Grillini se la rischia. M'immagino quella impagabile coppia di ottantenni, Pannella e Macaluso, mentre mettono a punto il loro disegno a una festa di compleanno, tra una tartina e un piatto di pasta al sugo. L'emorragia Ds si aggrava e la reazione dei vertici non nasconde l'irritazione, anzi ne fa politica nel modo peggiore. Nei retroscena sulle telefonate di Fassino («eppure ti avevo detto che per te ci sarebbe stato un posto al governo»), nella scomunica di Chiti («denigra le posizioni politiche del partito nel quale è stato fino a 24 ore fa»), nella reazione della dalemiana Velina rossa, che bolla Turci, De Giovanni e Buglio con una celebre frase di Togliatti, «pidocchi che si possono trovare sulla criniera di un cavallo di razza», riemerge prepotente e istintivo un riflesso stalinista, di un apparato che stritola i non-allineati e pretende anche che non "tradiscano" la causa.
Con ogni probabilità anche il liberal Ds Franco Debenedetti non sarà ricandidato, ma ha resistito alle sirene della Rosa. Eppure, dice, non si possono ignorare le ragioni dei Turci, dei Salvati, degli Ostellino, quel «certo pessimismo sulla possibilità di raggiungere quella sintesi tra socialismo e liberalismo che sarà centrale nel futuro partito democratico». Da loro lo separa la convinzione che «la liberalizzazione del paese non si realizza senza l'apporto decisivo dei Ds». C'è un "ma", pesante, che come avvertimento rivolge ai suoi leader: «... ma è essenziale che i Ds portino in Parlamento dei veri liberali. Almeno uno». Peccato che la Rosa nel Pugno debba chiudere le liste prima dei Ds, altrimenti anche Debenedetti, deluso dalle liste del suo partito, avrebbe accettato la candidatura con la Rosa. E' uno degli effetti anti-democratici della legge elettorale che neanche l'Unione ha voluto correggere, e oggi capiamo il perché.
Paolo Franchi invita i Ds alla calma e alla riflessione. La Rosa nel Pugno è «un alleato scomodo». E, «nel suo piccolo, anche un concorrente. Nonostante tutto, la saggezza politica, e una visione compiutamente pluralista della sinistra, dovrebbero indurre i Ds a considerare questo soggetto in formazione una ricchezza potenziale per l'Unione e (magari) pure per il futuro Partito democratico. Probabilmente, invece, lo considereranno un fastidio, o peggio. E sbaglieranno».
Pierluigi Battista intravede «il segnale di un sommovimento tellurico destinato a cambiare il profilo politico-culturale dello schieramento di centrosinistra». Riconosce che «gli scettici che hanno interpretato la nascita della Rosa nel Pugno come una sommatoria obbligata dalle circostanze tra la pattuglia radicale e uno dei frammenti della diaspora socialista forse dovranno ricredersi, perché nell'arcipelago del centrosinistra quel principio di fusione ha accelerato movimenti profondi». In particolare, «il marcato profilarsi di un'area culturale che nella Rosa nel Pugno trova l'espressione di una sensibilità liberale di cui il centrosinistra ha vitale bisogno e anche un'opzione occidentale senza tentennamenti... Può insomma accadere che... il nucleo del nascituro partito democratico contenga in sé un frammento di anima liberale di cui era sinora drammaticamente priva».
Le motivazioni addotte dai fuggitivi sono politiche e hanno solido fondamento. Turci: «Il mio malessere profondo è che, pur essendosi trasformata la cultura politica dei Ds, non è cambiato il sistema di potere. Si continua a governare dal centro, cooptando in termini più di fedeltà che di meriti. Nella mia vicenda politica all'interno del partito mi sono trovato quasi sempre in minoranza, prima da migliorista poi da socialdemocratico (e queste parole venivano usate contro di noi in termini di scherno), poi da riformista e da liberal. Ho pagato i miei prezzi per quelle scelte, perché in politica soprattutto nella tradizione comunista non c'è nulla di peggio che avere ragione in anticipo».
E ancora, meglio: «Il partito non si è ancora affrancato dal realismo togliattiano: non ha assimilato i valori liberali e laici della democrazia moderna ed è ispirato da quel cinismo che, come diceva Nenni, vuole che la politica venga "prima di tutto". Prima, persino, delle proprie idee e dei propri valori... Se non giuri fedeltà personale al Capo vieni messo da parte. Le idee non contano nulla: nei Ds vai avanti solo per cooptazione o perché appartieni a una cordata interna». La speranza ora è che la Rosa nel Pugno «diventi un interlocutore laico e liberale per la reimpostazione del Partito democratico. Che possa contribuire a evitare che diventi una riedizione in sedicesimo del compromesso storico».
De Giovanni spiega a il Riformista e a la Repubblica, che il problema dei Ds è non avere un pensiero limpido «sul ruolo dell'Italia nell'Occidente, sulla riforma dello stato sociale, sulle liberalizzazioni, sul declino dell'Europa. Persino il modo in cui hanno votato sulla direttiva Bolkestein è opaco». Aggiunge di non capire «che cosa siano veramente i Ds oggi. Mi domando quale sia la loro strategia politica e non trovo una risposta soddisfacente. Ormai sono una realtà anfibia, un aggregato di consenso e di potere». Quindi, l'investimento nella Rosa nel Pugno: «Sono attratto da un soggetto autenticamente riformista e liberale, il valore di questo partito è metapolitico, la sua importanza va al di là del programma». E' importante che «il nucleo del nascituro Patto democratico contenga un sé un frammento di anima liberale di cui sinora è drammaticamente privo».
Berlusconi: Guantanamo da chiudere subito
In una intervista all'emittente araba Al Jazeera, registrata martedì scorso e che sarà trasmessa integralmente domani: «Sì, ne ho parlato con molti miei colleghi e anch'io penso che si debba con la massima celerità procedere alla chiusura di questi centri dove si sono verificati episodi che tutto il mondo ha condannato».
Impagabile, Berlusconi riuscirebbe a vendere cammelli agli arabi.
Impagabile, Berlusconi riuscirebbe a vendere cammelli agli arabi.
Wednesday, February 22, 2006
Per chi non c'era
I funerali di Luca Coscioni, oggi a Orvieto, sono stati un momento indimenticabile per tutti, credo. Non c'era tristezza in fondo, ma molta emozione. Lacrime, sì, di una rabbia composta, di fratellanza, e sventolìo di bandiere bianche con al centro la rosa nel pugno. E forse la consapevolezza di partecipare a un evento irripetibile di alta politica. Nessun moralismo, nessuna retorica in questo. Luca era corpo politico, le centinaia di persone convenute in quella piazza lo erano. Un vero e proprio rito rigenerativo di una comunità di credenti. «Credenti in altro che nell'oro, nel potere e nella simonia».
L'Italia è per eccellenza il paese dove i migliori vengono riconosciuti solo da morti, per un attimo, per poi tornare a essere sepolti. La colpa di rappresentare un vissuto alternativo agli occhi trasecolanti di un potere oligarchico si paga con la rimozione, prima dalla vista, poi dalla memoria. Quindi è probabile che Luca e la sua storia di lotte politiche tornino, dopo questi pochi giorni in cui sono stati finalmente conosciuti al grande pubblico, nell'oblio.
Eppure, è forte, si avverte distintamente, la sensazione che rimarrà molto a chi ha partecipato a questo rito di rinascita politica. Anche a chi per la prima volta è venuto a contatto con questa storia, a chi rimanendone abbagliato ha chiuso gli occhi per istinto di autodifesa, rimarrà un qualcosa che oggi sappiamo essere ancora indecifrabile, un qualcosa di cui si è impregnati senza farci caso, una cifra indelebile che un giorno sarà espressione compiuta del proprio vissuto, come un gene che è lì, pronto ad attivarsi, prima o poi. Libertà di ricerca: morale, religiosa, di scienza, di conoscenza, e di coscienza. Sarò ottimista, ma ho percepito in modo netto questa fiducia.
Indimenticabili e vibranti le parole di Emma, mentre stringeva forte a sé Maria Antonietta, e di Marco. Uno dei discorsi più intensi, pieni, magnetici che gli ho sentito pronunciare. Il calare della sera, ma non dell'attenzione nel suo uditorio. Come al solito, l'eloquio di Pannella non era facile da seguire, con incredibile agilità saltava dall'attualità politica ai ricordi di Luca, passando da un piano all'altro del logos si rivolgeva ora al potere ora alla piazza. Ma ogni cosa era lì al suo posto, dotata del senso della libertà e del gusto della scoperta di quanto è già in noi e di quanto la desideriamo. Nonostante l'acuirsi del freddo nei presenti immobili e il trascorrere inesorabile del tempo, nessuno, neanche tra gli orvietani, lasciava la piazza o mostrava stanchezza o distoglieva lo sguardo dall'oratore. Anzi, altri accorrevano.
Oggi «siamo più forti di Luca, nel senso che siamo più forti grazie a Luca». Pieni di lui.
Ditemi, voi, se riuscite a provare tutto questo quando muore un embrione.
P.S. E' disponibile sul sito di Radio Radicale il video dei funerali. Consiglio a tutti di dedicarvi un po' del vostro tempo.
L'Italia è per eccellenza il paese dove i migliori vengono riconosciuti solo da morti, per un attimo, per poi tornare a essere sepolti. La colpa di rappresentare un vissuto alternativo agli occhi trasecolanti di un potere oligarchico si paga con la rimozione, prima dalla vista, poi dalla memoria. Quindi è probabile che Luca e la sua storia di lotte politiche tornino, dopo questi pochi giorni in cui sono stati finalmente conosciuti al grande pubblico, nell'oblio.
Eppure, è forte, si avverte distintamente, la sensazione che rimarrà molto a chi ha partecipato a questo rito di rinascita politica. Anche a chi per la prima volta è venuto a contatto con questa storia, a chi rimanendone abbagliato ha chiuso gli occhi per istinto di autodifesa, rimarrà un qualcosa che oggi sappiamo essere ancora indecifrabile, un qualcosa di cui si è impregnati senza farci caso, una cifra indelebile che un giorno sarà espressione compiuta del proprio vissuto, come un gene che è lì, pronto ad attivarsi, prima o poi. Libertà di ricerca: morale, religiosa, di scienza, di conoscenza, e di coscienza. Sarò ottimista, ma ho percepito in modo netto questa fiducia.
Indimenticabili e vibranti le parole di Emma, mentre stringeva forte a sé Maria Antonietta, e di Marco. Uno dei discorsi più intensi, pieni, magnetici che gli ho sentito pronunciare. Il calare della sera, ma non dell'attenzione nel suo uditorio. Come al solito, l'eloquio di Pannella non era facile da seguire, con incredibile agilità saltava dall'attualità politica ai ricordi di Luca, passando da un piano all'altro del logos si rivolgeva ora al potere ora alla piazza. Ma ogni cosa era lì al suo posto, dotata del senso della libertà e del gusto della scoperta di quanto è già in noi e di quanto la desideriamo. Nonostante l'acuirsi del freddo nei presenti immobili e il trascorrere inesorabile del tempo, nessuno, neanche tra gli orvietani, lasciava la piazza o mostrava stanchezza o distoglieva lo sguardo dall'oratore. Anzi, altri accorrevano.
Oggi «siamo più forti di Luca, nel senso che siamo più forti grazie a Luca». Pieni di lui.
Ditemi, voi, se riuscite a provare tutto questo quando muore un embrione.
P.S. E' disponibile sul sito di Radio Radicale il video dei funerali. Consiglio a tutti di dedicarvi un po' del vostro tempo.
Tuesday, February 21, 2006
Scrivono di Luca Coscioni
Segnalo i commenti a mio avviso più degni di nota tra i numerosi editoriali dedicati a Luca Coscioni apparsi sui giornali di oggi. Dai quotidiani che si sono opposti alle idee di Luca sulla ricerca scientifica, e dai comunicati di cordoglio dei politici o delle alte cariche dello Stato che contro le sue battaglie si sono schierati non è giunto nulla di rilevante oltre la ben nota "ipocrisia istituzionale". Un paese in cui valore e rispetto vengono riconosciuti ai morti, non ai vivi, che ancora non si sono tolti di mezzo. Su qualcuno, la spiacevole sensazione di volersi aggiungere, per non sfigurare, a una lista già lunga di messaggi. Verrebbe da dire, vista la quantità delle reazioni e i paginoni sui giornali: "Ma allora sapevate chi era Luca e per cosa si stava battendo, e lo avete volutamente ignorato!".
Mi sarei aspettato, dai suoi avversari - da Berlusconi a Prodi, da Pera a Casini, da Il Foglio all'Avvenire - che nell'onorare la sua passione civile, muovessero qualche autocritica per i toni e gli argomenti usati durante la campagna referendaria nei confronti di Luca. E dei radicali, rei di «strumentalizzarlo», mentre, usava rispondere Luca a questa accusa, era lui a «strumentalizzare» i radicali.
«Quando qualcuno usa la parola sprezzante "laicismo" e vi intima di esibirne i valori dite: Luca Coscioni».
Furio Colombo (L'Unità)
«Luca Coscioni è il simbolo di una politica nuova, la sua grandezza è quella di aver moltiplicato la forza della propria condizione di malato al servizio di una politica che torna finalmente a essere pieno e vero Beruf weberiano. (...) Ci consegna l'eredità di uno dei rarissimi casi in cui la politica non è officium - funzione razionalizzante a vantaggio di sé e della propria parte, secondo gli strumenti e i canoni della scienza politica - ma munus, nel senso romano-repubblicano e cristiano del termine, una missione il cui scopo è realizzare un dono all'altro da sé e dai propri sodali, in nome di una comune appartenza umana.
(...)
Di quella battaglia radicale e libertaria che Marco Pannella ha avuto la caparbietà corrosiva di far vivere da una radice deliberatamente pugnace, rispetto all'eccesso di realismo che il più del liberalismo italiano ha spesso riservato alle arretratezze storiche del nostro paese quanto a diritti di individui e minoranze. Quanto Pannella risulti indigesto a tanti tradizionalisti, per la deliberata reiteratività provocatoria dei suoi metodi, attesta più delle difficoltà in cui la battaglia è combattuta, che della tenace coazione a ripetere di un carattere irriducibile.
(...)
Proprio le atroci esperienze della modernità e del secolo scorso "obbligano" noi sostenitori del progresso... ad ancorarci a un ideale forte di dignità umana che non può essere biologista. Come infatti era una contraddizione per la stessa dottrina cattolica, identificare nell'embrione la piena persona, come né Tommaso né Agostino né Edith Stein né del resto alcuna enciclica hanno mai affermato... l'antinichilismo vero è quello di chi, come Luca, ci ha insegnato che vita e salute, ricerca e diritti sono tutti compresi nell'orizzonte umano della dignità, un orizzonte che non confligge affatto né con la fede, con con l'Evangelo».
Oscar Giannino (il Riformista)
«L'ultimo ricordo, l'ultima fitta al cuore, l'ultima immagine di Luca Coscioni riempì di dolore e di tenerezza il maxischermo del congresso radicale, a Riccione, l'autunno scorso. Di colpo, nel silenzio calato sulla platea, si vide il volto di un uomo con gli occhi fissi, forse inespressivi, o forse fin troppo intensi perché ognuno in quella sala poteva leggervi qualcosa di sé».
Filippo Ceccarelli (La Repubblica)
«[Luca Coscioni] ci mostra che un'"altra" politica è possibile. Quella di chi si pone come obiettivo, prima dell'utile a sé e al proprio partito, un "dono" all'intera umanità. (...) Ci vincola a fare i conti criticamente e con rispetto con chi è convinto che per fede si debba dire no alla ricerca sulle staminali embrionali. E ad affrontare con dura determinazione chi, invece, si fa velo della altrui fede sincera per teorizzare che la scienza non è nient'altro che barbara tecnica che intende asservire l'uomo a temibili orizzonti alieni da ogni umanesimo».
Oscar Giannino (Il Messaggero)
«Una cosa è l'uso che si fa della scienza, un'altra è la libertà di ricerca scientifica. Non si può fare del primo problema, che nel mondo contemporaneo seriamente esiste, una ragione per impedire la seconda. Una scoperta scientifica è una verità che si aggiunge alle altre. La storia insegna che la verità si può ostacolare, ritardare, ma resta un bene insostituibile per l'umanità».
Piero Craveri (Il Mattino)
L'intervista a Maria Antonietta Coscioni
«Luca era un leader perché era in prima linea. Era in prima linea ed è caduto. Direi che è stato ammazzato anche dalla qualità di questo paese, della sua oligarchia, che lo corrompe e lo distrugge».
Marco Pannella (Radio Radicale)
Mi sarei aspettato, dai suoi avversari - da Berlusconi a Prodi, da Pera a Casini, da Il Foglio all'Avvenire - che nell'onorare la sua passione civile, muovessero qualche autocritica per i toni e gli argomenti usati durante la campagna referendaria nei confronti di Luca. E dei radicali, rei di «strumentalizzarlo», mentre, usava rispondere Luca a questa accusa, era lui a «strumentalizzare» i radicali.
«Quando qualcuno usa la parola sprezzante "laicismo" e vi intima di esibirne i valori dite: Luca Coscioni».
Furio Colombo (L'Unità)
«Luca Coscioni è il simbolo di una politica nuova, la sua grandezza è quella di aver moltiplicato la forza della propria condizione di malato al servizio di una politica che torna finalmente a essere pieno e vero Beruf weberiano. (...) Ci consegna l'eredità di uno dei rarissimi casi in cui la politica non è officium - funzione razionalizzante a vantaggio di sé e della propria parte, secondo gli strumenti e i canoni della scienza politica - ma munus, nel senso romano-repubblicano e cristiano del termine, una missione il cui scopo è realizzare un dono all'altro da sé e dai propri sodali, in nome di una comune appartenza umana.
(...)
Di quella battaglia radicale e libertaria che Marco Pannella ha avuto la caparbietà corrosiva di far vivere da una radice deliberatamente pugnace, rispetto all'eccesso di realismo che il più del liberalismo italiano ha spesso riservato alle arretratezze storiche del nostro paese quanto a diritti di individui e minoranze. Quanto Pannella risulti indigesto a tanti tradizionalisti, per la deliberata reiteratività provocatoria dei suoi metodi, attesta più delle difficoltà in cui la battaglia è combattuta, che della tenace coazione a ripetere di un carattere irriducibile.
(...)
Proprio le atroci esperienze della modernità e del secolo scorso "obbligano" noi sostenitori del progresso... ad ancorarci a un ideale forte di dignità umana che non può essere biologista. Come infatti era una contraddizione per la stessa dottrina cattolica, identificare nell'embrione la piena persona, come né Tommaso né Agostino né Edith Stein né del resto alcuna enciclica hanno mai affermato... l'antinichilismo vero è quello di chi, come Luca, ci ha insegnato che vita e salute, ricerca e diritti sono tutti compresi nell'orizzonte umano della dignità, un orizzonte che non confligge affatto né con la fede, con con l'Evangelo».
Oscar Giannino (il Riformista)
«L'ultimo ricordo, l'ultima fitta al cuore, l'ultima immagine di Luca Coscioni riempì di dolore e di tenerezza il maxischermo del congresso radicale, a Riccione, l'autunno scorso. Di colpo, nel silenzio calato sulla platea, si vide il volto di un uomo con gli occhi fissi, forse inespressivi, o forse fin troppo intensi perché ognuno in quella sala poteva leggervi qualcosa di sé».
Filippo Ceccarelli (La Repubblica)
«[Luca Coscioni] ci mostra che un'"altra" politica è possibile. Quella di chi si pone come obiettivo, prima dell'utile a sé e al proprio partito, un "dono" all'intera umanità. (...) Ci vincola a fare i conti criticamente e con rispetto con chi è convinto che per fede si debba dire no alla ricerca sulle staminali embrionali. E ad affrontare con dura determinazione chi, invece, si fa velo della altrui fede sincera per teorizzare che la scienza non è nient'altro che barbara tecnica che intende asservire l'uomo a temibili orizzonti alieni da ogni umanesimo».
Oscar Giannino (Il Messaggero)
«Una cosa è l'uso che si fa della scienza, un'altra è la libertà di ricerca scientifica. Non si può fare del primo problema, che nel mondo contemporaneo seriamente esiste, una ragione per impedire la seconda. Una scoperta scientifica è una verità che si aggiunge alle altre. La storia insegna che la verità si può ostacolare, ritardare, ma resta un bene insostituibile per l'umanità».
Piero Craveri (Il Mattino)
L'intervista a Maria Antonietta Coscioni
«Luca era un leader perché era in prima linea. Era in prima linea ed è caduto. Direi che è stato ammazzato anche dalla qualità di questo paese, della sua oligarchia, che lo corrompe e lo distrugge».
Marco Pannella (Radio Radicale)
Bastonatori a TocqueVille
Dicevamo della prospettiva di una saldatura degli integralismi, accomunati da un'insofferenza via via più accentuata verso le forme espressive più scomode e irriverenti nei confronti delle fedi. E' più facile, insomma, che nel nome del rispetto dovuto a tutte le religioni i cardinali Bertone, i Buttiglione o i Pisanu, s'accordino con i musulmani contro la libertà d'espressione e la cultura liberale, piuttosto che si alleino lealmente con i liberali per respingere l'attacco fondamentalista alle nostre libertà. Oggi gli integralisti cattolici sono spettatori dello scontro fra libertà d'espressione e islam, ma nell'infuriare dello scontro si rifà vivo in loro un istinto anti-democratico profondo, come un gene finora inespresso che si attiva al ricordo di quali e quanti sberleffi quel loro integralismo ha dovuto, e deve, ingoiare venendo a scontrarsi, e a soccombere, con il liberalismo.
TocqueVille non fa eccezione e di questo clima risente il commento di Otimaster, che si rammarica di esprimere solo ora, solo dopo il caso Calderoli, l'insofferenza per quelle vignette blasfeme, sulle quali, fino a oggi, si era a denti stretti adeguato al mainstream in difesa della libertà d'espressione:
«Io stesso da cattolico ho provato il desiderio di mettere al rogo chi ha offeso la mia religione, ma le centinaia d’anni civiltà occidentale su cui baso il mio pensiero hanno impedito che dal pensiero passassi ai fatti, ciò non toglie che se chi lo ha fatto si presentasse al mio cospetto e in modo provocatorio ripetesse tali offese difficilmente mi tratterrei dal dargli quattro meritatissime bastonate».
Nel suo caso possiamo rassicurarlo, in lui il gene dell'intolleranza è da sempre ben espresso.
TocqueVille non fa eccezione e di questo clima risente il commento di Otimaster, che si rammarica di esprimere solo ora, solo dopo il caso Calderoli, l'insofferenza per quelle vignette blasfeme, sulle quali, fino a oggi, si era a denti stretti adeguato al mainstream in difesa della libertà d'espressione:
«Io stesso da cattolico ho provato il desiderio di mettere al rogo chi ha offeso la mia religione, ma le centinaia d’anni civiltà occidentale su cui baso il mio pensiero hanno impedito che dal pensiero passassi ai fatti, ciò non toglie che se chi lo ha fatto si presentasse al mio cospetto e in modo provocatorio ripetesse tali offese difficilmente mi tratterrei dal dargli quattro meritatissime bastonate».
Nel suo caso possiamo rassicurarlo, in lui il gene dell'intolleranza è da sempre ben espresso.
S'intravede la saldatura degli integralismi
Vuoi vedere che adesso, in questo pazzo paese, ci tocca anche difendere l'ex ministro Calderoli? Indagato dalla procura di Roma ai sensi dell'articolo 404 del codice penale, offesa a una confessione religiosa mediante vilipendio, rischiamo di ritrovarcelo "martire" della libertà d'espressione. Sia chiaro, Calderoli andava dimissionato per la sua buffonata, indegna del suo ruolo istituzionale, ma consentitemi, non è uno strano paese, questo, dove nessuno chiede, per motivi un poco più seri, le dimissioni di un vicepresidente del Senato che licenzia un suo collaboratore perché gay o di un ministro che si permette di rivolgersi a una giornalista palestinese con l'appellativo di «signora abbronzata»?
Ormai è trascorso qualche giorno, ma ancora si finge di ignorare la ricostruzione degli incidenti di Bengasi e non si assume la corretta lettura delle tardive e violente reazioni alla pubblicazione delle vignette su Maometto. Autorevoli commentatori, con fonti altrettanto autorevoli, ci hanno raccontato che Gheddafi, ben prima che Calderoli si esibisse con la sua T-Shirt al Tg1, aveva inoltrato proteste formali al nostro ambasciatore in Libia per il presunto mancato rispetto di certi accordi, mentre si preparava ad aizzare la piazza contro il consolato di Bengasi, l'unico occidentale in città, per la pubblicazione delle vignette danesi sui nostri giornali. Come d'abitudine dei dittatori della regione, Gheddafi ha strumentalizzato l'ira degli integralisti allo scopo di ricattarci, per farsi costruire un'altra autostrada o scucirci qualche euro di più per il suo petrolio e il suo gas.
Il risultato è che il governo italiano si è fatto dettare le dimissioni di un ministro da Tripoli, ma, cosa più grave, anziché denunciare il ricatto, si è prestato al gioco, dando a credere all'opininone pubblica che la maglietta di Calderoli avesse a che vedere con i morti di Bengasi, mentre sapeva bene che quella in corso era una vera e propria crisi diplomatica tra Italia e Libia, dovuta ai soliti ricatti energetici e nazionalistici del dittatore libico. «Ci rendiamo conto - ha domandato polemicamente ieri Magdi Allam - che ci siamo affrettati e affannati a chiedere scusa a Gheddafi per un attentato terroristico al nostro consolato a Bengasi di cui lui è l'unico vero responsabile?»
E vuoi vedere che alla fine della fiera a rimetterci, sacrificata sull'altare del «dialogo» tra le religioni, è la libertà d'espressione? Su Calderoli in questi giorni si accaniscono con straordinaria sintonia cardinali, imam, sinistra politically correct e i Buttiglione di passaggio. Il «dialogo» sembra andare a gonfie vele. Il cardinale Bertone che auspica per Calderoli la condanna «ai lavori forzati in Cirenaica», il Papa e la sua equidistanza morale tra le vignette blasfeme e le violenze degli integralisti, che però non possono essere la risposta, il reato di vilipendio ritirato fuori da una solerte procura.
Sono tutti questi, elementi di «dialogo» con l'Islam? La mediazione tra le due grandi religioni monoteiste potrebbe giocarsi sui limiti, sul senso della misura, da porre all'esercizio della libertà d'espressione, i cui eccessi sono fastidiosi a entrambe. La censura veste spesso l'abito ingannevole del buon senso. Chi non riterrebbe di buon senso infatti che occorre rispettare le religioni, che è semplice buona creanza non offendere il credo altrui? Quando si tratta di suscettibilità e di espressione del pensiero però, a veder bene, il confine è piuttosto sfumato e ciascuno tende a tracciarlo in modo da non sentirsi "disturbato" nella propria opinione da quella altrui.
Pare proprio che la richiesta di una compressione della libertà d'espressione, o un'insofferenza via via più accentuata verso le forme espressive più scomode o irriverenti, nel nome del rispetto dovuto a tutte le religioni, possano accomunare l'islam europeo con la Chiesa cattolica, che in fondo sembra chiedere agli integralisti islamici non di non essere integralisti, ma di non essere violenti, di moderarsi, di farsi furbi, di essere integralisti non contra legem, ma servendosi della legge. Su tali basi potrebbero saldarsi i diversi integralismi a danno e avvilimento della cultura liberale, se non delle stesse regole democratiche. Il discorso sull'identità dell'Occidente finisce così per avere assunti più incerti.
Ha ragione Filippo Facci quando osserva che se persino «ciò che è legale», delle «banali» vignette, può essere ritenuto «provocatorio o quasi illegale se riferito a un determinato soggetto», allora non è più in discussione come "esportare" libertà e democrazia nel mondo islamico, ma «è in discussione il nostro diritto di essere occidentali in Occidente, il diritto di comportarci come abbiamo sempre fatto secondo dei dettami che abbiamo conquistato con orgoglio... Qui si parla d'altro: non che un certo Islam non si adegua ai tolleranti parametri occidentali, ma che un certo Islam sta ottenendo che l'Europa multiculturale usi due pesi e due misure al suo interno a seconda che i soggetti siano o meno musulmani».
Ormai è trascorso qualche giorno, ma ancora si finge di ignorare la ricostruzione degli incidenti di Bengasi e non si assume la corretta lettura delle tardive e violente reazioni alla pubblicazione delle vignette su Maometto. Autorevoli commentatori, con fonti altrettanto autorevoli, ci hanno raccontato che Gheddafi, ben prima che Calderoli si esibisse con la sua T-Shirt al Tg1, aveva inoltrato proteste formali al nostro ambasciatore in Libia per il presunto mancato rispetto di certi accordi, mentre si preparava ad aizzare la piazza contro il consolato di Bengasi, l'unico occidentale in città, per la pubblicazione delle vignette danesi sui nostri giornali. Come d'abitudine dei dittatori della regione, Gheddafi ha strumentalizzato l'ira degli integralisti allo scopo di ricattarci, per farsi costruire un'altra autostrada o scucirci qualche euro di più per il suo petrolio e il suo gas.
Il risultato è che il governo italiano si è fatto dettare le dimissioni di un ministro da Tripoli, ma, cosa più grave, anziché denunciare il ricatto, si è prestato al gioco, dando a credere all'opininone pubblica che la maglietta di Calderoli avesse a che vedere con i morti di Bengasi, mentre sapeva bene che quella in corso era una vera e propria crisi diplomatica tra Italia e Libia, dovuta ai soliti ricatti energetici e nazionalistici del dittatore libico. «Ci rendiamo conto - ha domandato polemicamente ieri Magdi Allam - che ci siamo affrettati e affannati a chiedere scusa a Gheddafi per un attentato terroristico al nostro consolato a Bengasi di cui lui è l'unico vero responsabile?»
E vuoi vedere che alla fine della fiera a rimetterci, sacrificata sull'altare del «dialogo» tra le religioni, è la libertà d'espressione? Su Calderoli in questi giorni si accaniscono con straordinaria sintonia cardinali, imam, sinistra politically correct e i Buttiglione di passaggio. Il «dialogo» sembra andare a gonfie vele. Il cardinale Bertone che auspica per Calderoli la condanna «ai lavori forzati in Cirenaica», il Papa e la sua equidistanza morale tra le vignette blasfeme e le violenze degli integralisti, che però non possono essere la risposta, il reato di vilipendio ritirato fuori da una solerte procura.
Sono tutti questi, elementi di «dialogo» con l'Islam? La mediazione tra le due grandi religioni monoteiste potrebbe giocarsi sui limiti, sul senso della misura, da porre all'esercizio della libertà d'espressione, i cui eccessi sono fastidiosi a entrambe. La censura veste spesso l'abito ingannevole del buon senso. Chi non riterrebbe di buon senso infatti che occorre rispettare le religioni, che è semplice buona creanza non offendere il credo altrui? Quando si tratta di suscettibilità e di espressione del pensiero però, a veder bene, il confine è piuttosto sfumato e ciascuno tende a tracciarlo in modo da non sentirsi "disturbato" nella propria opinione da quella altrui.
Pare proprio che la richiesta di una compressione della libertà d'espressione, o un'insofferenza via via più accentuata verso le forme espressive più scomode o irriverenti, nel nome del rispetto dovuto a tutte le religioni, possano accomunare l'islam europeo con la Chiesa cattolica, che in fondo sembra chiedere agli integralisti islamici non di non essere integralisti, ma di non essere violenti, di moderarsi, di farsi furbi, di essere integralisti non contra legem, ma servendosi della legge. Su tali basi potrebbero saldarsi i diversi integralismi a danno e avvilimento della cultura liberale, se non delle stesse regole democratiche. Il discorso sull'identità dell'Occidente finisce così per avere assunti più incerti.
Ha ragione Filippo Facci quando osserva che se persino «ciò che è legale», delle «banali» vignette, può essere ritenuto «provocatorio o quasi illegale se riferito a un determinato soggetto», allora non è più in discussione come "esportare" libertà e democrazia nel mondo islamico, ma «è in discussione il nostro diritto di essere occidentali in Occidente, il diritto di comportarci come abbiamo sempre fatto secondo dei dettami che abbiamo conquistato con orgoglio... Qui si parla d'altro: non che un certo Islam non si adegua ai tolleranti parametri occidentali, ma che un certo Islam sta ottenendo che l'Europa multiculturale usi due pesi e due misure al suo interno a seconda che i soggetti siano o meno musulmani».
Monday, February 20, 2006
Il maratoneta ci ha passato il testimone
... Sta a noi proseguire la sua marcia di libertà. Luca Coscioni, presidente di Radicali Italiani e dell'Associazione per la Libertà di Ricerca scientifica che porta il suo nome, si è spento a causa della malattia che lo teneva da anni prigioniero del suo corpo, la sclerosi laterale amiotrofica. Eppure la morte l'ha già sconfitta, combattendo non uno, ma tutti i suoi giorni da leone, da leader politico, contro un paese che i malati come lui li ammazza anzitempo. Lascia una società oggi più consapevole dell'importanza della libertà di ricerca scientifica e dei compagni determinati a proseguire battaglie per cui altri come lui non possono attendere.
Ciao, Luca, grazie, perché ci lasci pieni.
Luca Coscioni decideva, scandalosamente, di lasciarsi strumentalizzare dalla e per la battaglia politica in cui credeva. (...) Il gesto di Luca è perentorio: la malattia vuole impadronirsi di lui, e lui risponde cedendole se stesso, tutto se stesso, e così facendo, proprio così facendo, se ne impadronisce completamente, se ne appropria con la conoscenza e la consapevolezza crescenti, la domina, fino a trasformarla, brandendola con la forza inaudita di un'arma potentissima, la sua personale e riconoscibilissima arma nonviolenta con cui combattere la buona battaglia.
Fa questo Luca, ma lo fa aggiungendo scandalo a scandalo: lo fa da Radicale e coi Radicali. (...) Strumentalizzare la propria malattia, e cioè se stesso, e farsi strumentalizzare dai radicali: può esserci in Italia qualcosa di più tremendo e riprovevole? No, non può esserci. Non a caso Luca ha dovuto pagare cara questa sua scelta. Morto oggi a causa di quella malattia, certo. Ma colpito prima e di più, mille e mille volte, in questi anni, e con pari violenza, dall'indifferenza dei più, dal pietismo ipocrita di altri, dal dileggio di molti, dal compatimento degli imbecilli. Colpito, e da oggi perfino: morto. Ma morto in battaglia. Perché c'è morte e morte. Perché c'è una morte che è cessazione della vita, puro spegnersi, puro spreco di vita inutile. E c'è una morte che è invece dono della vita, che è dare la vita, e dare la vita per i propri amici. Luca oggi è morto: è morto a forza di dare la vita, e di darla per i propri amici. E non c'è amore più grande di questo. Non c'è.
Antonio Tombolini, su Lievito Riformatore
Coscioni, quel corpo malato che è diventato un simbolo, di Filippo Ceccarelli (La Repubblica)
Ciao, Luca, grazie, perché ci lasci pieni.
Luca Coscioni decideva, scandalosamente, di lasciarsi strumentalizzare dalla e per la battaglia politica in cui credeva. (...) Il gesto di Luca è perentorio: la malattia vuole impadronirsi di lui, e lui risponde cedendole se stesso, tutto se stesso, e così facendo, proprio così facendo, se ne impadronisce completamente, se ne appropria con la conoscenza e la consapevolezza crescenti, la domina, fino a trasformarla, brandendola con la forza inaudita di un'arma potentissima, la sua personale e riconoscibilissima arma nonviolenta con cui combattere la buona battaglia.
Fa questo Luca, ma lo fa aggiungendo scandalo a scandalo: lo fa da Radicale e coi Radicali. (...) Strumentalizzare la propria malattia, e cioè se stesso, e farsi strumentalizzare dai radicali: può esserci in Italia qualcosa di più tremendo e riprovevole? No, non può esserci. Non a caso Luca ha dovuto pagare cara questa sua scelta. Morto oggi a causa di quella malattia, certo. Ma colpito prima e di più, mille e mille volte, in questi anni, e con pari violenza, dall'indifferenza dei più, dal pietismo ipocrita di altri, dal dileggio di molti, dal compatimento degli imbecilli. Colpito, e da oggi perfino: morto. Ma morto in battaglia. Perché c'è morte e morte. Perché c'è una morte che è cessazione della vita, puro spegnersi, puro spreco di vita inutile. E c'è una morte che è invece dono della vita, che è dare la vita, e dare la vita per i propri amici. Luca oggi è morto: è morto a forza di dare la vita, e di darla per i propri amici. E non c'è amore più grande di questo. Non c'è.
Antonio Tombolini, su Lievito Riformatore
Coscioni, quel corpo malato che è diventato un simbolo, di Filippo Ceccarelli (La Repubblica)
Friday, February 17, 2006
Silenzio, parla D'Alema
Intervistando Massimo D'Alema a Radio Radicale. Bravissimo Falconio, anche se un po' emozionato. Troppo compiaciuto Landi di alcune risposte antiamericane e filopalestinesi di D'Alema. Impeccabile il direttore, Bordin, di cui si sono avvertiti distintamente gli "sbuffi" di perplessità (diretto', si sentiva che rideva).
Da D'Alema impegni e impegni, che mai si trasformano in fatti, in iniziativa politica. E poi sempre la stessa risposta fessa per quando non si sa come rispondere: «Noi siamo un grande partito». Direi grosso, non grande. L'impressione è di un grosso partito interessato alla presa del potere e sempre più non disposto, né forse in grado, di investire in una linea politica, su una nuova cultura politica. Prima di tutto l'unità catto-comunista, che è l'unica che consente di andare al governo: il Partito democratico. «Abbiamo chiamato i socialisti a esserne parte, prima ne erano parte, poi hanno deciso diversamente e io non voglio polemizzare». Qui, forse, qualcuno doveva intervenire per dire come in effetti sono andate le cose: Rutelli che rompe la Fed e sceglie la linea ruiniana; Boselli che guarda altrove e incontra Pannella; Rutelli che ritorna sui suoi passi: lista unica prima, Partito democratico poi; Ds in estrema debolezza accettano senza porsi il problema della laicità: via al revival del compromesso storico catto-comuinista.
Nella lotta al terrorismo, afferma D'Alema, da parte degli americani «massacro di civili con armi proibite». E' questa la «grande questione di civiltà». Può essere D'Alema ministro degli Esteri? E' il caso di rafforzare la sintonia Bonino-Rutelli su Israele e avanzare la candidatura Bonino alla Farnesina in alternativa a D'Alema, alimentando la rivalità.
Da D'Alema impegni e impegni, che mai si trasformano in fatti, in iniziativa politica. E poi sempre la stessa risposta fessa per quando non si sa come rispondere: «Noi siamo un grande partito». Direi grosso, non grande. L'impressione è di un grosso partito interessato alla presa del potere e sempre più non disposto, né forse in grado, di investire in una linea politica, su una nuova cultura politica. Prima di tutto l'unità catto-comunista, che è l'unica che consente di andare al governo: il Partito democratico. «Abbiamo chiamato i socialisti a esserne parte, prima ne erano parte, poi hanno deciso diversamente e io non voglio polemizzare». Qui, forse, qualcuno doveva intervenire per dire come in effetti sono andate le cose: Rutelli che rompe la Fed e sceglie la linea ruiniana; Boselli che guarda altrove e incontra Pannella; Rutelli che ritorna sui suoi passi: lista unica prima, Partito democratico poi; Ds in estrema debolezza accettano senza porsi il problema della laicità: via al revival del compromesso storico catto-comuinista.
Nella lotta al terrorismo, afferma D'Alema, da parte degli americani «massacro di civili con armi proibite». E' questa la «grande questione di civiltà». Può essere D'Alema ministro degli Esteri? E' il caso di rafforzare la sintonia Bonino-Rutelli su Israele e avanzare la candidatura Bonino alla Farnesina in alternativa a D'Alema, alimentando la rivalità.
Il "secolo" s'è preso il crocifisso
Allora è vero, per i laici non è del tutto una sconfitta la sentenza con cui il Consiglio di Stato ha stabilito che il crocifisso resti appeso nelle aule scolastiche. Occorrre «pazienza e misura», come dice Malvino, perché dichiarando il crocifisso non già "oggetto di culto", ma "simbolo idoneo ad esprimere l'elevato fondamento dei valori civili", «nella bruta sostanza è la sconfitta di chi si batte per l'eliminazione di ogni residuale fattispecie del principio di "religione di Stato"», ma d'altra parte è «una sconfitta di chi, all'opposto, nulla di male vedrebbe nella riaffermazione del concetto albertino della "religione Cattolica, Apostolica e Romana [come] sola religione dello Stato"». La sentenza del Consiglio di Stato «secolarizza spietatamente la Passione».
Così anche Salon Voltaire: una sentenza che, «come se niente fosse, en passant, nega la religiosità del simbolo unico, il più alto, del Cattolicesimo: il crocifisso. (...) I cattolici integralisti... lungi dall'arrabbiarsi... plaudono, sorridono, credono di aver vinto. Preferiscono, da ottusi, essere considerati tradizionalisti piuttosto che cattolici. (...) Minchioni è dire poco: non si accorgono che Gesù è stato "ridotto allo stato laicale"».
L'avanzata del secolarismo è lenta ma inarrestabile, e si nasconde laddove conservatori e chierici non possono arrivare.
Così anche Salon Voltaire: una sentenza che, «come se niente fosse, en passant, nega la religiosità del simbolo unico, il più alto, del Cattolicesimo: il crocifisso. (...) I cattolici integralisti... lungi dall'arrabbiarsi... plaudono, sorridono, credono di aver vinto. Preferiscono, da ottusi, essere considerati tradizionalisti piuttosto che cattolici. (...) Minchioni è dire poco: non si accorgono che Gesù è stato "ridotto allo stato laicale"».
L'avanzata del secolarismo è lenta ma inarrestabile, e si nasconde laddove conservatori e chierici non possono arrivare.
Da Alesina una lezione utile anche per la Rosa
Certo, il programma dell'Unione esce a pezzi dall'editoriale di ieri di Alberto Alesina su il Sole24Ore, che indirettamente porta anche in superfice alcune incongruenze e lacune della linea della Rosa nel Pugno, che di quella coalizione dovrebbe essere la spina liberalizzatrice nel fianco. Vediamo perché.
Alesina punta l'indice sulle 280 pagine di programma, esempio della «verbosità della nostra cultura politica», della sua «vacua ampollosità pianificatoria»; «parla di tutto (e quasi del contrario di tutto) e non dà alcuna idea delle priorità, né spiega come tutte le proposte di spesa pubblica (e ce ne sono tante) siano compatibili con la critica situazione del bilancio». In ultimo, come più osservatori hanno rilevato, quel mare di parole servono «a dare alternativamente un colpo al cerchio della sinistra conservatrice di Bertinotti e un altro alla botte del riformismo innovatore».
Ma l'economista del Sole individua anche una «ragione profonda» della prolissità del programma:
«È insita nella cultura della sinistra europea, sia laica sia cattolica, la convinzione che lo Stato debba intervenire molto per far ben funzionare l'economia e la società. In questo, purtroppo, la sinistra italiana non si differenzia dalla destra, la quale è in gran parte altrettanto se non più statalista. Quindi, se servono tanto Stato e una programmazione pervasiva, se bisogna spingere i mercati in questa o quella direzione con la politica industriale (ancora stiamo a parlare di politica industriale nel 2006), se occorrono infrastrutture sempre più ampie (le beniamine dei governi di ogni colore) e un'università solo e sempre pubblica più grande, è chiaro che ci vogliono 284 pagine per spiegare bene ogni dettaglio».
Ed è patetica, ai limiti della comicità, la risposta di Tiziano Treu, oggi su Europa. «Meschinità» quelle di Alesina, perché una situazione complessa come quella italiana richiede un programma complesso. Poi Treu si avventura a voler riprendere alcuni dei punti sollevati dall'economista, sostenendo che in realtà nel programma ci sono. E qui scatta la risata, poiché Treu complica le cose ancora di più, aggiunge verbosità a verbosità, dà implicitamente ragione ad Alesina riempiendo di se e di ma, di distinguo, le sue argomentazioni. Come non prendere come un segno di resa l'ultimo capoverso, dove Treu rinvia alle 12 pagine di presentazione redatte da Prodi?
L'esempio proposto da Alesina però chiama in causa anche la priorità programmatica declamata dalla Rosa nel Pugno, la «difesa» della scuola pubblica. La sinistra insiste sul ruolo della ricerca, e «per potenziarla» sopra tutto si prevede «l'incremento del finanziamento pubblico». «Dovrebbe essere ormai chiaro - obietta Alesina - che il difetto della nostra università, e della scuola più in generale, non è la mancanza di fondi pubblici ma l'impossibilità di creare gli incentivi corretti, licenziando insegnanti, ricercatori e professori incapaci (o, almeno, pagandoli molto meno dei loro colleghi più produttivi) e spostando l'onere del finanziamento dei costi universitari, dai contribuenti agli utenti».
Al posto delle «pagine gialle», Alesina suggeriva «tre proposte da attuare subito», da spiegare in sei cartelle: «liberalizzare tutti i mercati dei beni e dei servizi, comprese le professioni, mettendo finalmente al centro dell'attenzione e dell'azione gli interessi dei consumatori»; «eliminare completamente i divieti e i costi di licenziamento, introducendo sussidi alla disoccupazione, anche generosi, ma legati all'attiva ricerca di un posto di lavoro con un'applicazione inflessibile delle regole sia per chi viola le norme anticoncorrenziali sia per chi un lavoro non lo accetta o non lo cerca»; «ridurre drasticamente i costi amministrativi e burocratici per le imprese».
Sono questi alcuni dei punti della stessa "agenda Giavazzi", cui la Rosa nel Pugno ha aderito. Quando però si vanno a elencare si rischia di dimenticarne qualcuno. E' il caso del «reddito minimo di cittadinanza», associato spesso da Boselli o dalla Bonino alla liberalizzazione dei servizi e delle professioni, mentre Giavazzi, e Alesina, parlano piuttosto di «sussidio di disoccupazione». S'intende la stessa cosa? E' bene chiarirlo, perché con la prima espressione, dal suono vetero-statalista, viene in mente un assegno vitalizio, mentre la seconda è più idonea a dare l'idea di un sostegno a termine legato alla ricerca di un nuovo lavoro. Comunque il sussidio, che andrebbe a sostituire la cassa integrazione, è inscindibile dall'«eliminare completamente i divieti e i costi di licenziamento», cioè da quella «libertà di licenziamento» che troviamo nell'"agenda Giavazzi", e in Alesina, ma non tra le priorità della Rosa nel Pugno.
La fine del socialismo reale in Europa, il fallimento delle politiche stataliste delle socialdemocrazie, offrono un'occasione unica per il liberalsocialismo, per dimostrare che liberali e socialisti sono sinonimi, per l'innesto dei liberali in una sinistra, appunto e finalmente, liberale, ma a patto di non dare spazio a rigurgiti statalisti, altrimenti il liberalsocialismo ritorna a essere nell'immaginario di tutti l'utopia dell'Ircocervo crociano, cioè un paradosso. Alla Rosa l'onere della prova.
Alesina punta l'indice sulle 280 pagine di programma, esempio della «verbosità della nostra cultura politica», della sua «vacua ampollosità pianificatoria»; «parla di tutto (e quasi del contrario di tutto) e non dà alcuna idea delle priorità, né spiega come tutte le proposte di spesa pubblica (e ce ne sono tante) siano compatibili con la critica situazione del bilancio». In ultimo, come più osservatori hanno rilevato, quel mare di parole servono «a dare alternativamente un colpo al cerchio della sinistra conservatrice di Bertinotti e un altro alla botte del riformismo innovatore».
Ma l'economista del Sole individua anche una «ragione profonda» della prolissità del programma:
«È insita nella cultura della sinistra europea, sia laica sia cattolica, la convinzione che lo Stato debba intervenire molto per far ben funzionare l'economia e la società. In questo, purtroppo, la sinistra italiana non si differenzia dalla destra, la quale è in gran parte altrettanto se non più statalista. Quindi, se servono tanto Stato e una programmazione pervasiva, se bisogna spingere i mercati in questa o quella direzione con la politica industriale (ancora stiamo a parlare di politica industriale nel 2006), se occorrono infrastrutture sempre più ampie (le beniamine dei governi di ogni colore) e un'università solo e sempre pubblica più grande, è chiaro che ci vogliono 284 pagine per spiegare bene ogni dettaglio».
Ed è patetica, ai limiti della comicità, la risposta di Tiziano Treu, oggi su Europa. «Meschinità» quelle di Alesina, perché una situazione complessa come quella italiana richiede un programma complesso. Poi Treu si avventura a voler riprendere alcuni dei punti sollevati dall'economista, sostenendo che in realtà nel programma ci sono. E qui scatta la risata, poiché Treu complica le cose ancora di più, aggiunge verbosità a verbosità, dà implicitamente ragione ad Alesina riempiendo di se e di ma, di distinguo, le sue argomentazioni. Come non prendere come un segno di resa l'ultimo capoverso, dove Treu rinvia alle 12 pagine di presentazione redatte da Prodi?
L'esempio proposto da Alesina però chiama in causa anche la priorità programmatica declamata dalla Rosa nel Pugno, la «difesa» della scuola pubblica. La sinistra insiste sul ruolo della ricerca, e «per potenziarla» sopra tutto si prevede «l'incremento del finanziamento pubblico». «Dovrebbe essere ormai chiaro - obietta Alesina - che il difetto della nostra università, e della scuola più in generale, non è la mancanza di fondi pubblici ma l'impossibilità di creare gli incentivi corretti, licenziando insegnanti, ricercatori e professori incapaci (o, almeno, pagandoli molto meno dei loro colleghi più produttivi) e spostando l'onere del finanziamento dei costi universitari, dai contribuenti agli utenti».
Al posto delle «pagine gialle», Alesina suggeriva «tre proposte da attuare subito», da spiegare in sei cartelle: «liberalizzare tutti i mercati dei beni e dei servizi, comprese le professioni, mettendo finalmente al centro dell'attenzione e dell'azione gli interessi dei consumatori»; «eliminare completamente i divieti e i costi di licenziamento, introducendo sussidi alla disoccupazione, anche generosi, ma legati all'attiva ricerca di un posto di lavoro con un'applicazione inflessibile delle regole sia per chi viola le norme anticoncorrenziali sia per chi un lavoro non lo accetta o non lo cerca»; «ridurre drasticamente i costi amministrativi e burocratici per le imprese».
Sono questi alcuni dei punti della stessa "agenda Giavazzi", cui la Rosa nel Pugno ha aderito. Quando però si vanno a elencare si rischia di dimenticarne qualcuno. E' il caso del «reddito minimo di cittadinanza», associato spesso da Boselli o dalla Bonino alla liberalizzazione dei servizi e delle professioni, mentre Giavazzi, e Alesina, parlano piuttosto di «sussidio di disoccupazione». S'intende la stessa cosa? E' bene chiarirlo, perché con la prima espressione, dal suono vetero-statalista, viene in mente un assegno vitalizio, mentre la seconda è più idonea a dare l'idea di un sostegno a termine legato alla ricerca di un nuovo lavoro. Comunque il sussidio, che andrebbe a sostituire la cassa integrazione, è inscindibile dall'«eliminare completamente i divieti e i costi di licenziamento», cioè da quella «libertà di licenziamento» che troviamo nell'"agenda Giavazzi", e in Alesina, ma non tra le priorità della Rosa nel Pugno.
La fine del socialismo reale in Europa, il fallimento delle politiche stataliste delle socialdemocrazie, offrono un'occasione unica per il liberalsocialismo, per dimostrare che liberali e socialisti sono sinonimi, per l'innesto dei liberali in una sinistra, appunto e finalmente, liberale, ma a patto di non dare spazio a rigurgiti statalisti, altrimenti il liberalsocialismo ritorna a essere nell'immaginario di tutti l'utopia dell'Ircocervo crociano, cioè un paradosso. Alla Rosa l'onere della prova.
Cinque anni di governo socialdemocratico
A farci aprire gli occhi è, anche stavolta, è Francesco Giavazzi, dal Corriere della Sera, sui 5 anni di un governo che si era presentato come liberale, ma che ha governato come uno dei più sprovveduti governi socialdemocratici.
Nel 2001, l'economia italiana viaggiava e i conti pubblici erano discreti, tanto da far ritenere a Berlusconi e a Tremonti «che la crescita continuasse, consentendo di tagliare le tasse, aumentare la spesa sociale e finanziare le opere pubbliche senza intaccare gli equilibri di bilancio». Ma fu così solo sino all'11 settembre 2001. A quel punto, il «primo errore» del governo: «anziché ridurre subito le tasse... Berlusconi si occupò solo di come fermare i suoi processi; Tremonti perse l'estate in una futile polemica con il suo predecessore», mentre negli stessi mesi Bush «condusse in porto la più grande riduzione delle tasse della storia degli Stati Uniti».
Dopo l'11 settembre Berlusconi commise il «secondo errore». «Aveva di fronte a sé due strade: sfidare Bruxelles e procedere comunque con la riduzione delle tasse, contando, come Ronald Reagan, che il taglio fiscale avrebbe stimolato la crescita e quindi si sarebbe ripagato da solo. Oppure cambiare strategia e puntare su privatizzazioni e liberalizzazioni, misure che non costano nulla ma che avrebbero anch'esse — a mio parere ancor più che il taglio delle tasse — stimolato la crescita».
Oltre a non scegliere né una strada né l'altra, entrambe liberali, «lasciò che la spesa corrente delle amministrazioni pubbliche corresse: in tre anni, nonostante i decreti taglia-spese e i poteri speciali attribuiti al Ragioniere generale dello Stato, i consumi pubblici crebbero di 2 punti rispetto al pil, gli stipendi dei dipendenti di mezzo punto».
E oggi? Oggi «quel 6% di avanzo nei conti pubblici nel frattempo ce lo siamo mangiati». Con quei soldi potevano essere finanziati un cospicuo taglio delle aliquote fiscali, o l'innovazione e la ricerca scientifica. E invece sono andati persi in burocrazia.
Nel 2001, l'economia italiana viaggiava e i conti pubblici erano discreti, tanto da far ritenere a Berlusconi e a Tremonti «che la crescita continuasse, consentendo di tagliare le tasse, aumentare la spesa sociale e finanziare le opere pubbliche senza intaccare gli equilibri di bilancio». Ma fu così solo sino all'11 settembre 2001. A quel punto, il «primo errore» del governo: «anziché ridurre subito le tasse... Berlusconi si occupò solo di come fermare i suoi processi; Tremonti perse l'estate in una futile polemica con il suo predecessore», mentre negli stessi mesi Bush «condusse in porto la più grande riduzione delle tasse della storia degli Stati Uniti».
Dopo l'11 settembre Berlusconi commise il «secondo errore». «Aveva di fronte a sé due strade: sfidare Bruxelles e procedere comunque con la riduzione delle tasse, contando, come Ronald Reagan, che il taglio fiscale avrebbe stimolato la crescita e quindi si sarebbe ripagato da solo. Oppure cambiare strategia e puntare su privatizzazioni e liberalizzazioni, misure che non costano nulla ma che avrebbero anch'esse — a mio parere ancor più che il taglio delle tasse — stimolato la crescita».
Oltre a non scegliere né una strada né l'altra, entrambe liberali, «lasciò che la spesa corrente delle amministrazioni pubbliche corresse: in tre anni, nonostante i decreti taglia-spese e i poteri speciali attribuiti al Ragioniere generale dello Stato, i consumi pubblici crebbero di 2 punti rispetto al pil, gli stipendi dei dipendenti di mezzo punto».
E oggi? Oggi «quel 6% di avanzo nei conti pubblici nel frattempo ce lo siamo mangiati». Con quei soldi potevano essere finanziati un cospicuo taglio delle aliquote fiscali, o l'innovazione e la ricerca scientifica. E invece sono andati persi in burocrazia.
La scuola e la rosa
Nel rassicurare Malvino che non ho subìto nessun trauma da ragazzo ;-) ma cerco solo di fare tesoro delle mie esperienze e delle mie conoscenze, segnalo, e scusate se insisto, la mia lettera su il Riformista di oggi.
Caro direttore, pur aderendo all'agenda liberalizzatrice di Giavazzi, la Rosa nel Pugno si attarda con un'arretrata «difesa» della scuola pubblica. Inspiegabile per chi si è scelto Blair come modello: traducendo il suo «Education!» in «Scuola pubblica!», Boselli lo "tradisce". Blair sa che l'interesse pubblico non sta nel mezzo, la scuola statale, ma nel bene, l'istruzione. E ciò che conta non è la proprietà, pubblica o privata, dell'ente che lo fornisce. Occorre ricordare a chi è artefice del modello Radio Radicale che la dicotomia pubblico/privato nei servizi è superata? Non si tratta più di capire come far entrare i soldi pubblici nelle scuole private, ma come far entrare i soldi privati in quelle pubbliche. Dicono bene Della Vedova e Palma: «Il monopolio pubblico e i finanziamenti ai privati sono due facce della stessa medaglia: sono distorsioni indissolubilmente intrecciate e dipendenti dall'orientamento anti-mercato delle politiche sulla scuola». Il no al finanziamento delle scuole private non deve coniugarsi a una mera «difesa» della scuola pubblica, ma a un'idea di riforma complessiva e blairiana dell'istruzione, che introduca gli irrinunciabili principi di meritocrazia (una «performance related pay» per i docenti) e concorrenza (competizione tra istituti per finanziamenti misti statali/privati). Lo Stato da gestore diventa controllore di standard minimi nazionali. Certo, in Gran Bretagna lo Stato non finanzia la Chiesa, l'ora di religione è "multifaith", e sui docenti non c'è placet vescovile.
Caro direttore, pur aderendo all'agenda liberalizzatrice di Giavazzi, la Rosa nel Pugno si attarda con un'arretrata «difesa» della scuola pubblica. Inspiegabile per chi si è scelto Blair come modello: traducendo il suo «Education!» in «Scuola pubblica!», Boselli lo "tradisce". Blair sa che l'interesse pubblico non sta nel mezzo, la scuola statale, ma nel bene, l'istruzione. E ciò che conta non è la proprietà, pubblica o privata, dell'ente che lo fornisce. Occorre ricordare a chi è artefice del modello Radio Radicale che la dicotomia pubblico/privato nei servizi è superata? Non si tratta più di capire come far entrare i soldi pubblici nelle scuole private, ma come far entrare i soldi privati in quelle pubbliche. Dicono bene Della Vedova e Palma: «Il monopolio pubblico e i finanziamenti ai privati sono due facce della stessa medaglia: sono distorsioni indissolubilmente intrecciate e dipendenti dall'orientamento anti-mercato delle politiche sulla scuola». Il no al finanziamento delle scuole private non deve coniugarsi a una mera «difesa» della scuola pubblica, ma a un'idea di riforma complessiva e blairiana dell'istruzione, che introduca gli irrinunciabili principi di meritocrazia (una «performance related pay» per i docenti) e concorrenza (competizione tra istituti per finanziamenti misti statali/privati). Lo Stato da gestore diventa controllore di standard minimi nazionali. Certo, in Gran Bretagna lo Stato non finanzia la Chiesa, l'ora di religione è "multifaith", e sui docenti non c'è placet vescovile.
Thursday, February 16, 2006
One-issue-voter e altri appunti
«Non vivo della mia omosessualità, ho un lavoro». Così Imma Battaglia, dichiarando il proprio sostegno alla Rosa nel Pugno, perché si è rotta della solita sinistra, perché non le basta più che sia solo contro Berlusconi. Bene. Eppure quella frase («Non vivo della mia omosessualità, ho un lavoro») deve indurre di nuovo a riflettere sul rischio di essere percepiti come single-issue-party. Diversificare il prodotto, si sa, paga. E che si tratti di gay o lesbiche, coppia di fatto o altro, quella frase deve suonare come campanello d'allarme del rischio di una campagna elettorale volta a incontrare il consenso di specifiche categorie di elettori.
Ognuno di noi si riconosce in più "identità" e difficilmente accorda il suo voto a una forza politica che tocca solo una di quelle identità. Dopo una pacca sulle spalle d'incoraggiamento - eh sì che ci voleva qualcuno come voi, che tirasse fuori questo tema - in cabina elettorale si tende a valutare la visione d'insieme, l'idea di società e di governo che quella forza politica esprime e nella quale, certo, trova consonanza culturale e di interessi. Il tema delle coppie di fatto riguarda centinaia di migliaia di persone, ma sarà il singolo issue su cui queste stesse persone, pure interessate, effettueranno la loro scelta di voto? O forse saranno più preoccupate dell'economia, più sensibili alla lotta ai privilegi e allo spreco, 8 per mille compreso, alla giustizia e alla sicurezza? «Non vivo della mia omosessualità, ho un lavoro», ci ricorda Imma Battaglia.
La libertà può, anzi deve essere per un liberale un tema di governo, ma non se viene parcellizzata, se è prescritta in pillole, a ciascuna categoria la sua. Allora non scatta ciò che avrebbe dovuto scattare al referendum, la sensazione di una battaglia di libertà, e non di nicchia o per addetti ai lavori, di uno scontro politico nel senso pieno del termine per la modernizzazione complessiva della società.
A me pare che per raggiungere l'obiettivo minimo del 3% la Rosa nel Pugno stia soprattutto rivolgendosi a quelle categorie di elettori che rivendicano ciascuna i suoi diritti. Intendiamoci, non ho certezze, dal punto di vista elettorale può funzionare. Può succedere che le varie categorie cui ci si rivolge sostengano la Rosa nel Pugno e che la sommatoria la porti al 3%. Dico, però, valutiamo con attenzione come e a chi vogliamo comunicare.
Altra impressione non supportata da dati di fatto è che i leader della Rosa stiano cercando di parlare al popolo della sinistra, diessino in particolare, per lanciargli il seguente messaggio: i vostri leader stanno mettendo in piedi con la Margherita un revival catto-comunista, un compromesso storico «bonsai», com'è stato definito, svendendo i temi laici e le libertà individuali. Sappiate, si conclude il messaggio "virtuale", che votando la Rosa nel Pugno tenete alti quei temi e con uguale determinazione mandate a casa Berlusconi.
Anche questa è una strategia che può funzionare, se un poco di comunicazione passa, ma è molto ambiziosa. Se condotta alle estreme conseguenze potrebbe portare alla quasi totale sostituzione dello zoccolo duro dell'elettorato radicale degli ultimi dieci anni, circa il 2%, con un nuovo tipo di elettorato eroso in prevalenza dai Ds. Il massimo sarebbe conservare l'uno e incamerare l'altro. La strategia alternativa sarebbe quella di rivolgersi, piuttosto, agli elettori delusi dal governo Berlusconi, erodendo consensi al campo più riformatore della CdL. In ogni caso, anche qui, si tratta di valutare con attenzione come e a chi comunicare.
Infine, questa priorità della «difesa» della scuola pubblica. Un modo, per lo Sdi, di assicurarsi l'appoggio della Uil e di ricompattare un elettorato vicino al mondo della scuola, insegnanti con rispettive famiglie. Molte, in questo caso, le riserve di merito e di tattica elettorale.
Ognuno di noi si riconosce in più "identità" e difficilmente accorda il suo voto a una forza politica che tocca solo una di quelle identità. Dopo una pacca sulle spalle d'incoraggiamento - eh sì che ci voleva qualcuno come voi, che tirasse fuori questo tema - in cabina elettorale si tende a valutare la visione d'insieme, l'idea di società e di governo che quella forza politica esprime e nella quale, certo, trova consonanza culturale e di interessi. Il tema delle coppie di fatto riguarda centinaia di migliaia di persone, ma sarà il singolo issue su cui queste stesse persone, pure interessate, effettueranno la loro scelta di voto? O forse saranno più preoccupate dell'economia, più sensibili alla lotta ai privilegi e allo spreco, 8 per mille compreso, alla giustizia e alla sicurezza? «Non vivo della mia omosessualità, ho un lavoro», ci ricorda Imma Battaglia.
La libertà può, anzi deve essere per un liberale un tema di governo, ma non se viene parcellizzata, se è prescritta in pillole, a ciascuna categoria la sua. Allora non scatta ciò che avrebbe dovuto scattare al referendum, la sensazione di una battaglia di libertà, e non di nicchia o per addetti ai lavori, di uno scontro politico nel senso pieno del termine per la modernizzazione complessiva della società.
A me pare che per raggiungere l'obiettivo minimo del 3% la Rosa nel Pugno stia soprattutto rivolgendosi a quelle categorie di elettori che rivendicano ciascuna i suoi diritti. Intendiamoci, non ho certezze, dal punto di vista elettorale può funzionare. Può succedere che le varie categorie cui ci si rivolge sostengano la Rosa nel Pugno e che la sommatoria la porti al 3%. Dico, però, valutiamo con attenzione come e a chi vogliamo comunicare.
Altra impressione non supportata da dati di fatto è che i leader della Rosa stiano cercando di parlare al popolo della sinistra, diessino in particolare, per lanciargli il seguente messaggio: i vostri leader stanno mettendo in piedi con la Margherita un revival catto-comunista, un compromesso storico «bonsai», com'è stato definito, svendendo i temi laici e le libertà individuali. Sappiate, si conclude il messaggio "virtuale", che votando la Rosa nel Pugno tenete alti quei temi e con uguale determinazione mandate a casa Berlusconi.
Anche questa è una strategia che può funzionare, se un poco di comunicazione passa, ma è molto ambiziosa. Se condotta alle estreme conseguenze potrebbe portare alla quasi totale sostituzione dello zoccolo duro dell'elettorato radicale degli ultimi dieci anni, circa il 2%, con un nuovo tipo di elettorato eroso in prevalenza dai Ds. Il massimo sarebbe conservare l'uno e incamerare l'altro. La strategia alternativa sarebbe quella di rivolgersi, piuttosto, agli elettori delusi dal governo Berlusconi, erodendo consensi al campo più riformatore della CdL. In ogni caso, anche qui, si tratta di valutare con attenzione come e a chi comunicare.
Infine, questa priorità della «difesa» della scuola pubblica. Un modo, per lo Sdi, di assicurarsi l'appoggio della Uil e di ricompattare un elettorato vicino al mondo della scuola, insegnanti con rispettive famiglie. Molte, in questo caso, le riserve di merito e di tattica elettorale.
Il Parlamento europeo approva la ormai ex-Bolkestein
Dopo due anni dal varo in Commissione, la cosiddetta direttiva Bolkestein sulla liberalizzazione dei servizi nei paesi dell'Ue è stata approvata oggi dal Parlamento europeo (394 voti a favore, 213 contro e 34 astensioni), ma con un testo, frutto del compromesso fra i due maggiori gruppi, PSE-PPE, profondamente mutato da quello di partenza. Ora quindi tornerà all'esame del Consiglio europeo e poi di nuovo all'assemblea di Strasburgo per il secondo passaggio. Esclusi dalla liberalizzazione i servizi bancari e finanziari, trasporti, porti, servizi sociali, sanità pubblica e privata, audiovisivi, giochi d'azzardo, agenzie per lavoro temporaneo, sicurezza. Cioè, praticamente una direttiva di liberalizzazione dei servizi esclusi tutti i servizi!
Il PE ha deciso inoltre che le leggi che il prestatore dei servizi dovrà rispettare sono quelle del paese dove opera e non dello stato di origine dell'azienda, come prevedeva il testo originario dall'ex commissario olandese Frits Bolkestein. «Abbiamo completamente ribaltato la direttiva Bolkestein, l'abbiamo fatto in un'ottica sociale in favore dei paesi membri», ha dichiarato la relatrice, la socialdemocratica tedesca Evelyne Gebhardt: «Da testo neoliberale è diventato un progetto della gente». Che vergogna, un testo neoliberale :-((
La Commissione europea ha espresso «soddisfazione», mentre per quanto riguarda il voto delle forze politiche italiane, il centrosinistra si è spaccato tra riformisti e sinistra massimalista, a favore Ds e Margherita, contro i Comunisti italiani e Rifondazione; ma anche l'attuale maggioranza di governo ha votato in tre modi diversi: a favore Forza Italia e Udc, asetensione da parte di An, contro la Lega. A una direttiva svuotata del suo portato originario di liberalizzazione ha votato contro Emma Bonino. E secondo me ha fatto bene: un "No" contro il compromesso al ribasso di PSE e PPE, ma per ragioni opposte al no ideologico delle sinistre massimaliste. «Oggi vincono gli intereressi corporativi... Chi perde è l'Europa».
Il PE ha deciso inoltre che le leggi che il prestatore dei servizi dovrà rispettare sono quelle del paese dove opera e non dello stato di origine dell'azienda, come prevedeva il testo originario dall'ex commissario olandese Frits Bolkestein. «Abbiamo completamente ribaltato la direttiva Bolkestein, l'abbiamo fatto in un'ottica sociale in favore dei paesi membri», ha dichiarato la relatrice, la socialdemocratica tedesca Evelyne Gebhardt: «Da testo neoliberale è diventato un progetto della gente». Che vergogna, un testo neoliberale :-((
La Commissione europea ha espresso «soddisfazione», mentre per quanto riguarda il voto delle forze politiche italiane, il centrosinistra si è spaccato tra riformisti e sinistra massimalista, a favore Ds e Margherita, contro i Comunisti italiani e Rifondazione; ma anche l'attuale maggioranza di governo ha votato in tre modi diversi: a favore Forza Italia e Udc, asetensione da parte di An, contro la Lega. A una direttiva svuotata del suo portato originario di liberalizzazione ha votato contro Emma Bonino. E secondo me ha fatto bene: un "No" contro il compromesso al ribasso di PSE e PPE, ma per ragioni opposte al no ideologico delle sinistre massimaliste. «Oggi vincono gli intereressi corporativi... Chi perde è l'Europa».
Questa scuola è indifendibile/scusate se insisto
Scusate se insisto, oggi su L'Opinione più o meno l'articolo pubblicato lunedì su Notizie Radicali. Come avrete capito, questa "priorità" di retroguardia della Rosa nel Pugno sulla difesa dellla scuola pubblica proprio non mi va giù. Tatticismo? Convinzione? Uscite a casaccio? In tutti i casi l'argomento merita riflessioni più approfondite, perché a quanto pare sarà una priorità, e non una semplice posizione, della campagna elettorale. E siccome, povero illuso, credo sempre che non si prendano voti su A per poi fare B, io insisto.
Leggi l'articolo
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Wednesday, February 15, 2006
Già, dov'erano i radicali?
Faccio mio questo post di una new entry nella blogosfera, un blog, La Fuitina, che conserva l'anonimato, anche se qualche sospetto lo nutro. «Dove erano i radicali mentre la Bolkestein affondava?». La Bolkestein è quella normativa sulla liberalizzazione dei servizi, approvata dalla Commissione europea guidata da Romano Prodi, che traduce in Europa, con un paio d'anni d'anticipo, uno dei punti della cosiddetta "agenda Giavazzi". Eppure, non sembra che in sede europea i due eurodeputati radicali ne abbiano fatto una battaglia, né che in Italia si siano spesi per sostenerla e per denunciare con la massima energia che popolari e socialisti si sono accordati per svuotarla di ogni significato:
«Mentre a Torre Argentina si giocava a battaglia navale con l'agenda Giavazzi, all'Europarlamento si affondava la portaerei Bolkenstein. Della direttiva, votata nel 2004 all'unanimità dalla Commissione europea guidata da Romano Prodi, e volta ad abbattere molti ostacoli alla circolazione dei servizi e a rafforzare la competitività, la crescita e l'occupazione all'interno dell'Unione europea, approdava a Strasburgo soltanto la carcassa, privata di forza ed efficacia nella bufera di deroghe e compromessi. Sorprende che i radicali, che vantano due valorosi eurodeputati, abbiano mostrato scarso impegno nella difesa del provvedimento, che pure avrebbe rappresentato uno tsunami per le lobby d'Italia tratteggiate da Francesco Giavazzi...»Un consiglio a La Fuitina: darei meno per scontata l'analisi di fondo da cui il blog nutre uno scetticismo pregiudiziale per l'esperimento liberalsocialista.
P.S. E se Ferrando avesse ragione?
No, non fraintendete cari lettori, se conoscete un poco JimMomo dovreste sapere che non può avere di questi dubbi. E' solo che questo caso di Ferrando mi pare abbia suscitato a sinistra uno sconcerto al quanto ipocrita. Il più classico sacrificio del capro espiatorio per ripulirsi la coscienza. Per il trotzkista Ferrando sono legittimi l'attentato di Nassiryia e altri attacchi ai nostri militari in Iraq, perché atti di resistenza e autodeterminazione del popolo iracheno contro gli occupanti oppressori occidentali.
Ma siamo sicuri che nell'Unione sia il solo Ferrando a pensarla a quel modo? La posizione ufficiale della coalizione, così pare anche dal programma da poco sottoscritto in pompa magna, non è forse che le truppe americane, inglesi, italiane, eccetera sono truppe di «occupazione» di una guerra illegittima? Si badi, qui il significato di «occupazione» non è quello tecnico, per esempio utilizzato nei documenti dell'Onu (le potenze «occupanti» che hanno la responsabilità dell'amministrazione dei territori «occupati»), ma ha l'accezione negativa dell'occupante illegittimo. E dunque, se questa è la posizione ufficiale dell'Unione, se in Iraq ci sono truppe di «occupazione» di una guerra illegittima, ne consegue che, come dice Ferrando, contro di esse siano legittime azioni di guerriglia.
La posizione dell'Unione è ben più complessa e scivolosa di quanto il centrodestra sia stato capace di farla apparire e non basta l'epurazione di un Ferrando per chiarirla.
Ma siamo sicuri che nell'Unione sia il solo Ferrando a pensarla a quel modo? La posizione ufficiale della coalizione, così pare anche dal programma da poco sottoscritto in pompa magna, non è forse che le truppe americane, inglesi, italiane, eccetera sono truppe di «occupazione» di una guerra illegittima? Si badi, qui il significato di «occupazione» non è quello tecnico, per esempio utilizzato nei documenti dell'Onu (le potenze «occupanti» che hanno la responsabilità dell'amministrazione dei territori «occupati»), ma ha l'accezione negativa dell'occupante illegittimo. E dunque, se questa è la posizione ufficiale dell'Unione, se in Iraq ci sono truppe di «occupazione» di una guerra illegittima, ne consegue che, come dice Ferrando, contro di esse siano legittime azioni di guerriglia.
La posizione dell'Unione è ben più complessa e scivolosa di quanto il centrodestra sia stato capace di farla apparire e non basta l'epurazione di un Ferrando per chiarirla.
Bonino-Rutelli: da coltivare la sintonia su Israele
Oggi Piero Ostellino, sul Corriere della Sera, ha dedicato il suo editoriale a Francesco Rutelli, che con inedita chiarezza bipartisan ha fatto sapere di condividere la svolta impressa da Berlusconi alla politica estera italiana nei confronti di Israele: «Una delle poche cose positive fatte dal governo Berlusconi è stato migliorare i rapporti con Israele». Se vincerà le elezioni, l'Unione «continuerà sulla linea di tale rapporto positivo». Certo, nell'Unione ci sono posizioni molto diverse da quelli di Rutelli, e non è escluso che alla fine prevalgano. Qualcosa, perché ciò non accada, potrebbe e dovrebbe fare la Rosa nel Pugno, aprendo nel centrosinistra, oltre al fronte laicità, anche un fronte sulla politica estera, che la vedrebbe dialogare con Rutelli, almeno su questo, e contrapporsi alla sinistra estremista. Anche perché, si sa, "diversificare" il prodotto paga.
Basterebbe proseguire sulla linea dell'intervista rilasciata oggi al Corriere da Emma Bonino, che per una volta può dirsi soddisfatta per quanto detto dall'ex compagno radicale. «Bene, perché noi della Rosa nel Pugno, che siamo per l'ingresso di Israele nell'Unione Europa, la consideriamo una delle poche cose di politica estera in cui il centrodestra ha dato un segnale positivo». Sulla politica estera del governo il giudizio è positivo: «C'è stata un'evoluzione negli ultimi anni rispetto alle posizioni filoarabe della Dc, e Fini su Israele ha fatto passi molto importanti negli ultimi anni». La politica estera dell'Unione invece, nel programma appena presentato, fa appello a «una delega in bianco a organismi internazionali comatosi».
Ecco, proprio a partire dall'adesione di Israele nell'Ue e nella Nato, potrebbe partire il dialogo con Rutelli, che se fosse coerente con quanto detto potrebbe sponsorizzare la Bonino alla Farnesina scalzando la candidatura di D'Alema. Quel D'Alema che si sta sempre più accreditando come il prosecutore delle vecchie politiche filopalestinesi degli anni '70 e '80. Prima, in un'intervista concessa al blogger Azioneparallela, tenne a rimarcare la differenza di Hamas dal nazismo. Hamas, osserva la Bonino, «gode di uno sconto preventivo nel centrosinistra». In fondo, osservò D'Alema, che male c'è a trattare con Hamas oggi, non mi sono forse recato in visita da Netanyahu da presidente del Consiglio? E' questa l'equivalenza, un Netanyahu vale Hamas.
Ma l'ultima D'Alema l'ha combinata a Matrix, quando condannando le dichiarazioni del trotzkista Ferrando, per il quale è stato legittimo l'attentato di Nassiryia come atto di resistenza all'occupazione, non trova di meglio che attenuarne la gravità affermando che «anche chi usa il fosforo bianco [gli americani] è un assassino...», riferendosi a un fatto mai accertato e a un tipo d'arma comunque consentito. «Da un candidato alla Farnesina mi aspetto una visione più sfumata delle cose», può ironizzare la concorrente Bonino. In una sinistra responsabile D'Alema si sarebbe già giocato la Farnesina, ma vista la situazione è il caso che Rutelli e Bonino pensino a come dargli la spinta decisiva.
I due invece divergono sulle politiche di integrazione. «Su questioni come l'integrazione dei musulmani per esempio siamo distanti perchè io sono per integrarli come individui mentre Rutelli è a favore della consulta di Pisanu perchè pensa all'integrazione delle comunità». La Bonino quindi sulla linea Magdi Allam e Francis Fukuyama. «Viviamo in un Paese in cui essere liberali, filoccidentali e legalitari è qualcosa tra il peccato e il reato», è la condivisibile considerazione conclusiva della Bonino.
Basterebbe proseguire sulla linea dell'intervista rilasciata oggi al Corriere da Emma Bonino, che per una volta può dirsi soddisfatta per quanto detto dall'ex compagno radicale. «Bene, perché noi della Rosa nel Pugno, che siamo per l'ingresso di Israele nell'Unione Europa, la consideriamo una delle poche cose di politica estera in cui il centrodestra ha dato un segnale positivo». Sulla politica estera del governo il giudizio è positivo: «C'è stata un'evoluzione negli ultimi anni rispetto alle posizioni filoarabe della Dc, e Fini su Israele ha fatto passi molto importanti negli ultimi anni». La politica estera dell'Unione invece, nel programma appena presentato, fa appello a «una delega in bianco a organismi internazionali comatosi».
Ecco, proprio a partire dall'adesione di Israele nell'Ue e nella Nato, potrebbe partire il dialogo con Rutelli, che se fosse coerente con quanto detto potrebbe sponsorizzare la Bonino alla Farnesina scalzando la candidatura di D'Alema. Quel D'Alema che si sta sempre più accreditando come il prosecutore delle vecchie politiche filopalestinesi degli anni '70 e '80. Prima, in un'intervista concessa al blogger Azioneparallela, tenne a rimarcare la differenza di Hamas dal nazismo. Hamas, osserva la Bonino, «gode di uno sconto preventivo nel centrosinistra». In fondo, osservò D'Alema, che male c'è a trattare con Hamas oggi, non mi sono forse recato in visita da Netanyahu da presidente del Consiglio? E' questa l'equivalenza, un Netanyahu vale Hamas.
Ma l'ultima D'Alema l'ha combinata a Matrix, quando condannando le dichiarazioni del trotzkista Ferrando, per il quale è stato legittimo l'attentato di Nassiryia come atto di resistenza all'occupazione, non trova di meglio che attenuarne la gravità affermando che «anche chi usa il fosforo bianco [gli americani] è un assassino...», riferendosi a un fatto mai accertato e a un tipo d'arma comunque consentito. «Da un candidato alla Farnesina mi aspetto una visione più sfumata delle cose», può ironizzare la concorrente Bonino. In una sinistra responsabile D'Alema si sarebbe già giocato la Farnesina, ma vista la situazione è il caso che Rutelli e Bonino pensino a come dargli la spinta decisiva.
I due invece divergono sulle politiche di integrazione. «Su questioni come l'integrazione dei musulmani per esempio siamo distanti perchè io sono per integrarli come individui mentre Rutelli è a favore della consulta di Pisanu perchè pensa all'integrazione delle comunità». La Bonino quindi sulla linea Magdi Allam e Francis Fukuyama. «Viviamo in un Paese in cui essere liberali, filoccidentali e legalitari è qualcosa tra il peccato e il reato», è la condivisibile considerazione conclusiva della Bonino.
Unioni gay trionfo dei valori tradizionali
Lo dicevo qualche tempo fa, che Pacs, matrimoni gay et similia rappresentano in fondo il trionfo dei valori tradizionali e una rivincita per la famiglia. In uno studio pubblicato in Gran Bretagna sul Journal of Epidemiology and Community Health il professor Michael King, della University College Medical School, sostiene infatti che «il riconoscimento sociale dei matrimoni tra persone dello stesso sesso aiuta ad abbattere i pregiudizi e a migliorare la stabilità delle coppie, nonché a ridurre l'esclusione sociale spesso inflitta a gay e lesbiche».
Senza voler apparire indelicati, si può affermare che anche i gay crescono, si fanno adulti, mettono la testa a posto e reclamano una stabilità di coppia sancita da autorità pubbliche. Sgombrando il campo da ogni equivoco, ciò che voglio dire è che si emancipano da quella condizione di eterni minori sentimentalmente cui la società li ha ritratti, e quindi relegati. C'è, in questa fase, un qualcosa dell'adolescente che abbandona il ribellismo contro i valori tradizionali, per aderirvi allo stesso tempo rinnovandoli.
I conservatori dovrebbero liberarsi dell'ossessione del "diverso" e rallegrarsi di questo desiderio sempre più vivo negli omosessuali di aderire ai valori tradizionali piuttosto che combatterli. Il matrimonio, sia etero che omosessuale, è conservatore per definizione. Dato che i rapporti gay esisteranno sempre, a quale funzione sociale pensa il legislatore che decida di mantenere queste relazioni nell'insicurezza, senza sbocchi, prive di un progetto comune?
UPDATE: a conferma di quanto sostenevo, Imma Battaglia, in nome del «cambiamento culturale» lancia una «sfida» anche a Berlusconi: «Se lui fosse pronto a incontrarci... Quando chiediamo di veder riconosciute le nostre unioni familiari, anche noi collaboriamo alla ricostruzione di valori morali: siamo tutti figli». Per non parlare di Andrew Sullivan.
Senza voler apparire indelicati, si può affermare che anche i gay crescono, si fanno adulti, mettono la testa a posto e reclamano una stabilità di coppia sancita da autorità pubbliche. Sgombrando il campo da ogni equivoco, ciò che voglio dire è che si emancipano da quella condizione di eterni minori sentimentalmente cui la società li ha ritratti, e quindi relegati. C'è, in questa fase, un qualcosa dell'adolescente che abbandona il ribellismo contro i valori tradizionali, per aderirvi allo stesso tempo rinnovandoli.
I conservatori dovrebbero liberarsi dell'ossessione del "diverso" e rallegrarsi di questo desiderio sempre più vivo negli omosessuali di aderire ai valori tradizionali piuttosto che combatterli. Il matrimonio, sia etero che omosessuale, è conservatore per definizione. Dato che i rapporti gay esisteranno sempre, a quale funzione sociale pensa il legislatore che decida di mantenere queste relazioni nell'insicurezza, senza sbocchi, prive di un progetto comune?
UPDATE: a conferma di quanto sostenevo, Imma Battaglia, in nome del «cambiamento culturale» lancia una «sfida» anche a Berlusconi: «Se lui fosse pronto a incontrarci... Quando chiediamo di veder riconosciute le nostre unioni familiari, anche noi collaboriamo alla ricostruzione di valori morali: siamo tutti figli». Per non parlare di Andrew Sullivan.
Monday, February 13, 2006
Non lascerò morire la libertà. E voi?
«Non tutto è perso in Europa», scrive Emanuele Ottolenghi su National Review. C'è una «maggioranza silenziosa» pronta a essere risvegliata, un movimento d'opinione possibile per la difesa della libertà d'espressione. Certo, la totale assenza di risposta dell'Europa alle violenze provocate dagli integralisti per la pubblicazione delle vignette danesi su Maometto (il commissario Frattini ha addirittura proposto un codice di "autocensura" per i media) induce a ritenere che lo spirito di Monaco, che nel 1938 significò la catastrofe per l'Europa, sia ancora «vivo e vegeto». A giudicare dalle reazioni si direbbe che la violenza, islamica, paga.
Forse tra i governi, ma non nell'opinione pubblica, insoddisfatta per la debolezza dimostrata dalla classe politica di fronte all'intimidazione islamista. Un recente sondaggio sulla minaccia nucleare iraniana rivela che ampie maggioranze di cittadini britannici, francesi, tedeschi e austriaci sono «preoccupati». Ma la sorpresa è che coloro che si dichiarano favorevoli a operazioni militari mirate sono più di quelli che le escludono in ogni caso.
Eppure, «sarebbe folle supporre che non ci sia spazio per movimenti e partiti politici che possano preservare la libertà e tener testa agli islamisti». I sondaggi mostrano che l'opinione pubblica europea non è così insensibile alle reali intenzioni degli islamisti. Il fatto che l'azione militare contro i siti nucleari iraniani venga presa in considerazione se gli altri tentativi non funzionano, prova che «anche gli europei, se messi di fronte a un muro, si svegliano a affrontano la realtà». Ciò di cui c'è bisogno ora è sostenere con buoni argomenti che esiste una «vera alternativa democratica» alle visioni correnti. «Là fuori ce n'è di gente che sosterrebbe questo messaggio, sta solo aspettando una sveglia. Una volta indicata la via, reclamerà gli spazi pubblici. Perché ciò accada, occorre che uomini e donne di buona volontà si alzino in piedi e dicano forte e con orgoglio: "Non lasceremo morire la libertà"».
Forse tra i governi, ma non nell'opinione pubblica, insoddisfatta per la debolezza dimostrata dalla classe politica di fronte all'intimidazione islamista. Un recente sondaggio sulla minaccia nucleare iraniana rivela che ampie maggioranze di cittadini britannici, francesi, tedeschi e austriaci sono «preoccupati». Ma la sorpresa è che coloro che si dichiarano favorevoli a operazioni militari mirate sono più di quelli che le escludono in ogni caso.
«... there is a European constituency for a blunter, more self-assured foreign policy that believes in Western values and refuses to cave in to pressure and blackmail; and there is an awareness (...) that some of the threats that come from the East are real, not the sinister concoctions of the "neo-cons"».«L'apatia è il marchio della maggioranza silenziosa europea». Intimidita dai fanatici islamici, scoraggiata dai propri politici, che preferiscono «arruffianarsi» l'islam radicale piuttosto che difendere i propri principi, «non sorprende che i suoi punti di vista rimangano inespressi». La sola voce nelle piazze è quella dei fanatici islamici. Occupano il sistema mediatico e il dibattito pubblico con i loro messaggi di «odio e intolleranza». Coloro cui sta a cuore esprimere apertamente lo sdegno europeo in difesa dei valori occidentali e della libertà vengono di solito definiti «fascisti» o «estremisti», spesso senza distinguerli dagli islamisti.
Eppure, «sarebbe folle supporre che non ci sia spazio per movimenti e partiti politici che possano preservare la libertà e tener testa agli islamisti». I sondaggi mostrano che l'opinione pubblica europea non è così insensibile alle reali intenzioni degli islamisti. Il fatto che l'azione militare contro i siti nucleari iraniani venga presa in considerazione se gli altri tentativi non funzionano, prova che «anche gli europei, se messi di fronte a un muro, si svegliano a affrontano la realtà». Ciò di cui c'è bisogno ora è sostenere con buoni argomenti che esiste una «vera alternativa democratica» alle visioni correnti. «Là fuori ce n'è di gente che sosterrebbe questo messaggio, sta solo aspettando una sveglia. Una volta indicata la via, reclamerà gli spazi pubblici. Perché ciò accada, occorre che uomini e donne di buona volontà si alzino in piedi e dicano forte e con orgoglio: "Non lasceremo morire la libertà"».
Caro Concordato, quanto ci costi!
Ha provato a fare i conti Gianluca Polverari, su Confronti.net, contestualizzando il suo «inventario dei principali benefici di cui godono le istituzioni cattoliche in Italia» con appunti storici, politici, giuridici su quell'istinto «risarcitorio» manifestato dalla classe politica italiana verso la Chiesa. Una Chiesa «più uguale» delle altre, prebende che dimostrano una «disparità di trattamento rispetto alle altre confessioni», «finanziamenti che, lungi dal poter essere annoverati solo come una congrua corresponsione a fronte di una indiscutibile funzione sociale da esse esercitata, arrivano perlopiù a configurare situazioni di anacronistico privilegio».
L'inventario, relativo al 2004, non è esaustivo, avverte Polverari, anche perché vi ha escluso «i fondi destinati al sostegno degli organismi cattolici di carità o impegnati nella cooperazione allo sviluppo». Le voci più rilevanti: i 310 milioni di euro per scelta espressa dei contribuenti italiani nell'8 per mille; i 472.594.000 dalle scelte non espresse (per un totale complessivo di oltre 782.700.000 euro); per gli insegnanti di religione lo Stato sborsa 477.735.207 euro, somma cui deve aggiungersi il costo relativo alla loro equiparazione a tutti gli effetti agli altri docenti di ruolo, disposto dalla legge 186/2003 e pari a 19.289.150 euro; 30 milioni di euro sotto forma di buoni scuola, il 59% a vantaggio delle strutture cattoliche, circa 17.700.000 euro; un finanziamento diretto annuale per le scuole non statali pari a 527.474.474 euro, il 49% dei quali alle scuole cattoliche, per 258.462.492 euro; l'ultima arrivata, l'esenzione totale degli immobili ecclesiastici dal pagamento dell'Ici, disposta da una norma interpretativa contenuta nella legge 248/2005, che comporterà, secondo l'Anci, un ammanco per le già magre casse degli enti comunali per 700 milioni di euro, a quasi esclusivo vantaggio della Conferenza episcopale italiana.
Questi e tanti altri oboli.
Un'altra segnalazione. Mettete tra i vostri preferiti Salon Voltaire, che ogni giorno offre post interessanti e ben scritti come questo: «Ma chi sono i Radicali? Il pannellismo, variabile geniale del liberal-socialismo». Un percorso tra passato e presente, in cui l'autore ha il merito di rivedere alcune di quelle critiche un po' scontate su Pannella e i radicali che egli stesso aveva condiviso: «Va riconosciuto con onestà e col senno di poi, che poi è l'intelligenza delle persone mature, che se i Radicali fossero stati più simili agli altri partiti, sarebbero stati, sì, più accettati dalla classe politica, ma probabilmente sarebbero spariti da tempo, o si sarebbero ridotti a fare da inutili testimoni come corrente in un partito altrui». Se fossero stati come gli rimproveravamo di non voler essere, pare dire, non staremmo qui a parlarne.
La nuova sfida è con l'Unione, «non sappiamo come andrà a finire... se Bonino, Pannella e Capezzone riusciranno a imporre temi liberali e liberisti alla Sinistra. Ci sembra difficile (...) Ma prima di dichiararli perdenti pensiamoci bene. Avranno vinto anche solo se la Sinistra si interrogherà sulla propria contorta identità. Del resto, l'inserimento o meno delle proposte radicali nelle 200 pagine del programma dell'Unione, dove c'è tutto e il contrario di tutto, non aggiungerebbe nulla alla storia del movimento di Pannella. Quel che è certo, è che perfino le ultime scelte - discutibili quanto si vuole - di quest'uomo nato nel 1930 che oggi sembra rinato, sono sufficienti per riconoscergli, nonostante i passati "errori", il ruolo del politico più originale dell'Italia degli ultimi trent'anni. Non c'è che dire, dobbiamo ammetterlo: Pannella, proprio perché "aveva torto", aveva ragione».
L'inventario, relativo al 2004, non è esaustivo, avverte Polverari, anche perché vi ha escluso «i fondi destinati al sostegno degli organismi cattolici di carità o impegnati nella cooperazione allo sviluppo». Le voci più rilevanti: i 310 milioni di euro per scelta espressa dei contribuenti italiani nell'8 per mille; i 472.594.000 dalle scelte non espresse (per un totale complessivo di oltre 782.700.000 euro); per gli insegnanti di religione lo Stato sborsa 477.735.207 euro, somma cui deve aggiungersi il costo relativo alla loro equiparazione a tutti gli effetti agli altri docenti di ruolo, disposto dalla legge 186/2003 e pari a 19.289.150 euro; 30 milioni di euro sotto forma di buoni scuola, il 59% a vantaggio delle strutture cattoliche, circa 17.700.000 euro; un finanziamento diretto annuale per le scuole non statali pari a 527.474.474 euro, il 49% dei quali alle scuole cattoliche, per 258.462.492 euro; l'ultima arrivata, l'esenzione totale degli immobili ecclesiastici dal pagamento dell'Ici, disposta da una norma interpretativa contenuta nella legge 248/2005, che comporterà, secondo l'Anci, un ammanco per le già magre casse degli enti comunali per 700 milioni di euro, a quasi esclusivo vantaggio della Conferenza episcopale italiana.
Questi e tanti altri oboli.
Un'altra segnalazione. Mettete tra i vostri preferiti Salon Voltaire, che ogni giorno offre post interessanti e ben scritti come questo: «Ma chi sono i Radicali? Il pannellismo, variabile geniale del liberal-socialismo». Un percorso tra passato e presente, in cui l'autore ha il merito di rivedere alcune di quelle critiche un po' scontate su Pannella e i radicali che egli stesso aveva condiviso: «Va riconosciuto con onestà e col senno di poi, che poi è l'intelligenza delle persone mature, che se i Radicali fossero stati più simili agli altri partiti, sarebbero stati, sì, più accettati dalla classe politica, ma probabilmente sarebbero spariti da tempo, o si sarebbero ridotti a fare da inutili testimoni come corrente in un partito altrui». Se fossero stati come gli rimproveravamo di non voler essere, pare dire, non staremmo qui a parlarne.
La nuova sfida è con l'Unione, «non sappiamo come andrà a finire... se Bonino, Pannella e Capezzone riusciranno a imporre temi liberali e liberisti alla Sinistra. Ci sembra difficile (...) Ma prima di dichiararli perdenti pensiamoci bene. Avranno vinto anche solo se la Sinistra si interrogherà sulla propria contorta identità. Del resto, l'inserimento o meno delle proposte radicali nelle 200 pagine del programma dell'Unione, dove c'è tutto e il contrario di tutto, non aggiungerebbe nulla alla storia del movimento di Pannella. Quel che è certo, è che perfino le ultime scelte - discutibili quanto si vuole - di quest'uomo nato nel 1930 che oggi sembra rinato, sono sufficienti per riconoscergli, nonostante i passati "errori", il ruolo del politico più originale dell'Italia degli ultimi trent'anni. Non c'è che dire, dobbiamo ammetterlo: Pannella, proprio perché "aveva torto", aveva ragione».
Questa scuola è indifendibile
Con Tony Blair o con i Cobas?
Detto questo, e lieti di questo, che dire della strenua «difesa della scuola pubblica» per la quale in questi giorni si sta spendendo Enrico Boselli, e con lui la Rosa nel Pugno? Imbarazzante. Imbarazzante per una soggetto politico che si è scelto Blair come proprio riferimento sui temi dell'innovazione e delle liberalizzazioni. Imbarazzante perché lo slogan di Blair non era state school state school state school, ma al contrario, education education education. Più che a parafrasarlo Boselli riesce a "tradirlo". Imbarazzante per un soggetto politico che fa, giustamente, della libertà di ricerca scientifica una propria battaglia, che però diventa di tutta evidenza inconciliabile con una difesa corporativa, sulla linea dei Cobas, dello status quo nell'istruzione pubblica. Bisogna ancora ricordare, nell'anno 2006, che a rendere di interesse pubblico un servizio non è la proprietà, pubblica o privata, dell'ente che lo fornisce?
La dicotomia pubblico/privato per quanto concerne i servizi - di cui, non dimentichiamolo mai visto che si parla di liberalizzazioni, istruzione e sanità fanno parte - è superata. Il ruolo dello stato è inteso non più come gestore, ma come regolatore dei servizi. Oggi non si tratta più di capire come far entrare i soldi pubblici nelle scuole private, ma come far entrare i soldi privati in quelle pubbliche. La condivisibile contrarietà al finanziamento pubblico delle scuole private non può però attestarsi sulla linea della «difesa della scuola pubblica», ma casomai rientrare in un'idea, meglio un progetto, di riforma complessiva e blairiana dell'istruzione. Si vedrà, allora, come siano arretrati e scontati certi discorsi puramente "difensivi".
Come non dare atto a Bendetto della Vedova di affermare cose esatte quando dice che «il monopolio pubblico e le "mance" per i privati [quindi anche il finanziamento alle scuole private] sono due facce della stessa medaglia: sono distorsioni indissolubilmente intrecciate e dipendenti dall'orientamento "antimercato" delle politiche pubbliche»? Ma è utile proseguire: «La bancarotta sociale, finanziaria e culturale della scuola pubblica non dipende da una qualche forma di "privatizzazione" strisciante (la quota di mercato "privato" nel sistema dell'istruzione, se si escludono le scuole per l'infanzia, è intorno al 5%: praticamente nulla). Al contrario, dipende dallo sclerotismo monopolistico di una scuola statale fatta a misura degli insegnanti, più che degli studenti, in cui le remunerazioni dei docenti e il finanziamento degli istituti è una variabile indipendente (...) dalla qualità dell'istruzione fornita».
E ancora, niente parla meglio dei dati: la scuola italiana «è fra le più costose del mondo (...) I risultati degli studenti italiani sono fra i peggiori d'Europa.(...) Gli insegnanti in Italia sono una marea: il rapporto fra insegnanti e studenti è quasi il doppio di quello francese, tedesco e inglese nella scuola primaria, del 50% superiore in quella secondaria inferiore, di circa il 20% nella secondaria superiore». «All'inizio degli anni 90 - ricorda Della Vedova - i radicali iniziarono a proporre una alternativa di sistema che, con i buoni scuola e i buoni sanità, assegnasse direttamente ai cittadini e alle famiglie il potere di spesa derivante dalla contribuzione obbligatoria e introducesse, per questa via, positivi elementi di concorrenza, creando, anche in questi servizi pubblici, un mercato che oggi, a tutta evidenza, non c'è».
Se l'obiettivo è la qualità dell'istruzione, se al centro devono ritornare gli studenti e le loro famiglie, come consumatori cui è lasciata la possibilità e la responsabilità della scelta, nella scuola come nella sanità, i mezzi non possono che essere concorrenza spietata e meritocrazia, proprio i due principi su cui Blair ha fondato le sue riforme scolastiche.
Meritocrazia, innanzitutto nei confronti del corpo docente. Blair ha introdotto la «performance related pay». Ai gradoni retributivi per scatti d'anzianità ha aggiunto un gradone per merito. I docenti possono integrare il loro stipendio base in modo anche molto cospicuo superando test annuali di valutazione, che non si basano su improbabili corsi d'aggiornamento appaltati ai sindacati, ma sulla conoscenza dell'attualità della materia insegnata, sulla competenza dimostrata nella scelta dei metodi pedagogici e soprattutto sui risultati degli allievi dell'insegnante in questione accertati con una rilevazione quantitativa. Quali risultati ottengono gli studenti del prof. Smith agli esami nazionali? Se il prof. Smith va molto male in più test viene licenziato. Una "tolleranza zero" contro le inefficienze scolastiche e l'impreparazione del personale che troverebbe sulla nostra strada l'opposizione dei sindacati degli insegnanti.
Concorrenza. Blair è partito dalla constatazione che l'istruzione statale non avesse speranze di essere all'altezza dei compiti che le sono affidati finché non fosse messa sotto pressione dalla competizione. Ci ha visto giusto e ha mirato a creare competizione tra istituti presi singolarmente, non secondo lo stereotipo dei due blocchi, statale contro privato. Blair ha aperto la scuola ai finanziatori privati — aziende, fondazioni, onlus, enti religiosi, anche associazioni di genitori — che hanno quindi voce in capitolo sulla gestione dell'istituto e sui programmi. Ospedali e scuole possono benissimo diventare joint venture «pubblico-private», decentralizzate e indipendenti dal governo centrale. È la devoluzione e la liberalizzazione dei servizi pubblici.
Ai finanziamenti privati si aggiungono quelli statali. Oltre a un Programma nazionale (National Curriculum), gli istituti che si specializzano in una disciplina particolare - arti, scienze, lingue moderne o «affari e imprese» - possono acquisire lo status di istituti «specializzati», ricevendo crediti governativi supplementari, ma solo se reperiscono 50 mila sterline (71 mila euro) da fonti esterne, principalmente dalle imprese. Lo Stato quindi non si accolla più l'onere della gestione, ma l'onere del controllo del rispetto di standard minimi generali. L'Office for Standards in Education (Ofsted) pratica ispezioni molto rigorose negli istituti e la Teacher Training Agency si occupa della formazione iniziale e permanente dei professori. Per creare un mercato dell'istruzione in cui gli studenti e le loro famiglie fossero davvero liberi di scegliere da consumatori è stato adottato un sistema definito «opened up to real parent power», aperto a un potere effettivamente nelle mani dei genitori. Fermi restando i programmi nazionali, e tutti i controlli governativi sulla qualità e sull'efficienza, ogni singola scuola dovrà rendere conto delle proprie scelte didattiche non al governo nazionale o locale, bensì direttamente alle famiglie degli alunni.
Certo, fatta la riforma, servono sempre dei soldi per finanziarla, ma teniamo presente che Blair li ha trovati tagliando ben 80 mila posti di lavoro del pubblico impiego, risparmiando oltre un punto di Pil britannico, e chiudendo le scuole più disastrate.
E' vero, qui in Italia abbiamo un problema: il Vaticano. Oggi sono i vescovi a designare gli insegnanti di religione, rilasciando — e revocando — un certificato di idoneità in virtù di un giudizio evidentemente etico e morale, mentre è lo Stato a sobbarcarsi gli oneri della loro retribuzione. L'immissione in ruolo degli insegnanti di religione, circa 20 mila, pone l'ulteriore problema che da qui al 2008 su tre docenti assunti dalla scuola pubblica uno sarà di fatto indicato dalle gerarchie ecclesiastiche. Un fenomeno che Boselli ha efficacemente definito «cassa d'integrazione per il Vaticano». Sono questioni che vanno risolte alla radice ma proprio nell'ottica di una riforma blairiana, e non della difesa dello status quo, sempre che sia Blair il nostro riferimento e non i Cobas. In Gran Bretagna lo Stato non finanzia la Chiesa, nell'insegnamento della religione prevale un approccio "multifaith", con priorità alle tradizioni cristiane ma non confessionale, che non ammette idoneità sui docenti da parte delle autorità ecclesiastiche. Tuttavia, il fatto che da noi le scuole private siano quasi tutte di proprietà di enti ecclesiastici non deve farci rinunciare a creare un sistema di istituti in competizione tra loro con finanziamenti misti e in cui lo Stato sia controllore e non più gestore.
P.S. Il luogo comune contro i buoni scuola
I buoni scuola non sono che welfare, spesa pubblica. Per questo, se non altro, andrebbero considerati con cautela. Ma contro di essi non vale l'obiezione del «senza oneri per lo stato», condizione che la costituzione pone nel riconoscere a enti privati la libertà di istituire scuole e università.
Supponiamo che il costo medio annuo per alunno sia, per le scuole pubbliche, mantenute dallo Stato, cioè dai contribuenti, anche da coloro che mandano i figli alle private, corrispondente alla cifra X (valore dell'edilizia scolastica, costi del personale, di gestione, del materiale didattico, eccetera...). Lo Stato deve garantire a tutti i ragazzi, visto che basta iscriversi, un posto sui banchi delle sue scuole. Calcolando per ciascun ragazzo un X costo medio annuo, per ciascuno che invece si iscrive a istituti privati lo Stato non spende il relativo costo medio X. Lo risparmia, perché è a carico delle famiglie che fanno quella scelta, trovandosi così a pagare due volte per l'istruzione del figlio: una prima, come contribuenti, allo Stato; una seconda, la retta alla scuola privata. Ad alcune famiglie l'istruzione dei figli è pagata dallo Stato, ad altre no, anzi pagano doppio. Si direbbe: chi glielo fa fare, si iscrivano alla scuola statale se vogliono l'istruzione gratuita!
Ma questa è un'obiezione oltre che classista anche statalista, perché altera la libera scelta del consumatore ad acquistare sul mercato il prodotto che ritiene migliore. E infatti è la logica per la quale non c'è concorrenza tra istituti. Se attraverso le tasse pago lo Stato perché fornisca un'istruzione a mio figlio, ma il servizio è scadente, dovrei avere indietro i miei soldi per recarmi da un altro fornitore di istruzione. Poniamo il caso che lo Stato dica: tutti i cittadini hanno diritto a un telefonino. I telefonini Tim li passa lo Stato, basta fare richiesta. Dunque, lo Stato s'è impegnato con me, ma se io decido di prendermi un Omnitel pagandolo di tasca mia perché funziona meglio, lo Stato nel mio caso risparmia. Se il Tim lo paga 100 euro e l'Omnitel io lo pago 150, lo Stato pagandomi un buono telefonino di 99,99 euro non ci rimette nulla oltre la spesa prevista.
Dunque, non è corretto parlare di «oneri» per lo Stato fin quando il valore del voucher scolastico non superi X-1. Inoltre, sarebbe interessante calcolare questo X costo medio annuo per alunno a carico del sistema scolastico statale, perché non sono affatto convinto che venga fuori una cifra di molto inferiore alla retta annuale di una scuola privata.
Oscar Giannino, su il Riformista, ci invitava a guardare alla Svezia, che nel 1992 ha introdotto una riforma che prevede il voucher alle famiglie.
Detto questo, e lieti di questo, che dire della strenua «difesa della scuola pubblica» per la quale in questi giorni si sta spendendo Enrico Boselli, e con lui la Rosa nel Pugno? Imbarazzante. Imbarazzante per una soggetto politico che si è scelto Blair come proprio riferimento sui temi dell'innovazione e delle liberalizzazioni. Imbarazzante perché lo slogan di Blair non era state school state school state school, ma al contrario, education education education. Più che a parafrasarlo Boselli riesce a "tradirlo". Imbarazzante per un soggetto politico che fa, giustamente, della libertà di ricerca scientifica una propria battaglia, che però diventa di tutta evidenza inconciliabile con una difesa corporativa, sulla linea dei Cobas, dello status quo nell'istruzione pubblica. Bisogna ancora ricordare, nell'anno 2006, che a rendere di interesse pubblico un servizio non è la proprietà, pubblica o privata, dell'ente che lo fornisce?
La dicotomia pubblico/privato per quanto concerne i servizi - di cui, non dimentichiamolo mai visto che si parla di liberalizzazioni, istruzione e sanità fanno parte - è superata. Il ruolo dello stato è inteso non più come gestore, ma come regolatore dei servizi. Oggi non si tratta più di capire come far entrare i soldi pubblici nelle scuole private, ma come far entrare i soldi privati in quelle pubbliche. La condivisibile contrarietà al finanziamento pubblico delle scuole private non può però attestarsi sulla linea della «difesa della scuola pubblica», ma casomai rientrare in un'idea, meglio un progetto, di riforma complessiva e blairiana dell'istruzione. Si vedrà, allora, come siano arretrati e scontati certi discorsi puramente "difensivi".
Come non dare atto a Bendetto della Vedova di affermare cose esatte quando dice che «il monopolio pubblico e le "mance" per i privati [quindi anche il finanziamento alle scuole private] sono due facce della stessa medaglia: sono distorsioni indissolubilmente intrecciate e dipendenti dall'orientamento "antimercato" delle politiche pubbliche»? Ma è utile proseguire: «La bancarotta sociale, finanziaria e culturale della scuola pubblica non dipende da una qualche forma di "privatizzazione" strisciante (la quota di mercato "privato" nel sistema dell'istruzione, se si escludono le scuole per l'infanzia, è intorno al 5%: praticamente nulla). Al contrario, dipende dallo sclerotismo monopolistico di una scuola statale fatta a misura degli insegnanti, più che degli studenti, in cui le remunerazioni dei docenti e il finanziamento degli istituti è una variabile indipendente (...) dalla qualità dell'istruzione fornita».
E ancora, niente parla meglio dei dati: la scuola italiana «è fra le più costose del mondo (...) I risultati degli studenti italiani sono fra i peggiori d'Europa.(...) Gli insegnanti in Italia sono una marea: il rapporto fra insegnanti e studenti è quasi il doppio di quello francese, tedesco e inglese nella scuola primaria, del 50% superiore in quella secondaria inferiore, di circa il 20% nella secondaria superiore». «All'inizio degli anni 90 - ricorda Della Vedova - i radicali iniziarono a proporre una alternativa di sistema che, con i buoni scuola e i buoni sanità, assegnasse direttamente ai cittadini e alle famiglie il potere di spesa derivante dalla contribuzione obbligatoria e introducesse, per questa via, positivi elementi di concorrenza, creando, anche in questi servizi pubblici, un mercato che oggi, a tutta evidenza, non c'è».
Se l'obiettivo è la qualità dell'istruzione, se al centro devono ritornare gli studenti e le loro famiglie, come consumatori cui è lasciata la possibilità e la responsabilità della scelta, nella scuola come nella sanità, i mezzi non possono che essere concorrenza spietata e meritocrazia, proprio i due principi su cui Blair ha fondato le sue riforme scolastiche.
Meritocrazia, innanzitutto nei confronti del corpo docente. Blair ha introdotto la «performance related pay». Ai gradoni retributivi per scatti d'anzianità ha aggiunto un gradone per merito. I docenti possono integrare il loro stipendio base in modo anche molto cospicuo superando test annuali di valutazione, che non si basano su improbabili corsi d'aggiornamento appaltati ai sindacati, ma sulla conoscenza dell'attualità della materia insegnata, sulla competenza dimostrata nella scelta dei metodi pedagogici e soprattutto sui risultati degli allievi dell'insegnante in questione accertati con una rilevazione quantitativa. Quali risultati ottengono gli studenti del prof. Smith agli esami nazionali? Se il prof. Smith va molto male in più test viene licenziato. Una "tolleranza zero" contro le inefficienze scolastiche e l'impreparazione del personale che troverebbe sulla nostra strada l'opposizione dei sindacati degli insegnanti.
Concorrenza. Blair è partito dalla constatazione che l'istruzione statale non avesse speranze di essere all'altezza dei compiti che le sono affidati finché non fosse messa sotto pressione dalla competizione. Ci ha visto giusto e ha mirato a creare competizione tra istituti presi singolarmente, non secondo lo stereotipo dei due blocchi, statale contro privato. Blair ha aperto la scuola ai finanziatori privati — aziende, fondazioni, onlus, enti religiosi, anche associazioni di genitori — che hanno quindi voce in capitolo sulla gestione dell'istituto e sui programmi. Ospedali e scuole possono benissimo diventare joint venture «pubblico-private», decentralizzate e indipendenti dal governo centrale. È la devoluzione e la liberalizzazione dei servizi pubblici.
Ai finanziamenti privati si aggiungono quelli statali. Oltre a un Programma nazionale (National Curriculum), gli istituti che si specializzano in una disciplina particolare - arti, scienze, lingue moderne o «affari e imprese» - possono acquisire lo status di istituti «specializzati», ricevendo crediti governativi supplementari, ma solo se reperiscono 50 mila sterline (71 mila euro) da fonti esterne, principalmente dalle imprese. Lo Stato quindi non si accolla più l'onere della gestione, ma l'onere del controllo del rispetto di standard minimi generali. L'Office for Standards in Education (Ofsted) pratica ispezioni molto rigorose negli istituti e la Teacher Training Agency si occupa della formazione iniziale e permanente dei professori. Per creare un mercato dell'istruzione in cui gli studenti e le loro famiglie fossero davvero liberi di scegliere da consumatori è stato adottato un sistema definito «opened up to real parent power», aperto a un potere effettivamente nelle mani dei genitori. Fermi restando i programmi nazionali, e tutti i controlli governativi sulla qualità e sull'efficienza, ogni singola scuola dovrà rendere conto delle proprie scelte didattiche non al governo nazionale o locale, bensì direttamente alle famiglie degli alunni.
Certo, fatta la riforma, servono sempre dei soldi per finanziarla, ma teniamo presente che Blair li ha trovati tagliando ben 80 mila posti di lavoro del pubblico impiego, risparmiando oltre un punto di Pil britannico, e chiudendo le scuole più disastrate.
E' vero, qui in Italia abbiamo un problema: il Vaticano. Oggi sono i vescovi a designare gli insegnanti di religione, rilasciando — e revocando — un certificato di idoneità in virtù di un giudizio evidentemente etico e morale, mentre è lo Stato a sobbarcarsi gli oneri della loro retribuzione. L'immissione in ruolo degli insegnanti di religione, circa 20 mila, pone l'ulteriore problema che da qui al 2008 su tre docenti assunti dalla scuola pubblica uno sarà di fatto indicato dalle gerarchie ecclesiastiche. Un fenomeno che Boselli ha efficacemente definito «cassa d'integrazione per il Vaticano». Sono questioni che vanno risolte alla radice ma proprio nell'ottica di una riforma blairiana, e non della difesa dello status quo, sempre che sia Blair il nostro riferimento e non i Cobas. In Gran Bretagna lo Stato non finanzia la Chiesa, nell'insegnamento della religione prevale un approccio "multifaith", con priorità alle tradizioni cristiane ma non confessionale, che non ammette idoneità sui docenti da parte delle autorità ecclesiastiche. Tuttavia, il fatto che da noi le scuole private siano quasi tutte di proprietà di enti ecclesiastici non deve farci rinunciare a creare un sistema di istituti in competizione tra loro con finanziamenti misti e in cui lo Stato sia controllore e non più gestore.
P.S. Il luogo comune contro i buoni scuola
I buoni scuola non sono che welfare, spesa pubblica. Per questo, se non altro, andrebbero considerati con cautela. Ma contro di essi non vale l'obiezione del «senza oneri per lo stato», condizione che la costituzione pone nel riconoscere a enti privati la libertà di istituire scuole e università.
Supponiamo che il costo medio annuo per alunno sia, per le scuole pubbliche, mantenute dallo Stato, cioè dai contribuenti, anche da coloro che mandano i figli alle private, corrispondente alla cifra X (valore dell'edilizia scolastica, costi del personale, di gestione, del materiale didattico, eccetera...). Lo Stato deve garantire a tutti i ragazzi, visto che basta iscriversi, un posto sui banchi delle sue scuole. Calcolando per ciascun ragazzo un X costo medio annuo, per ciascuno che invece si iscrive a istituti privati lo Stato non spende il relativo costo medio X. Lo risparmia, perché è a carico delle famiglie che fanno quella scelta, trovandosi così a pagare due volte per l'istruzione del figlio: una prima, come contribuenti, allo Stato; una seconda, la retta alla scuola privata. Ad alcune famiglie l'istruzione dei figli è pagata dallo Stato, ad altre no, anzi pagano doppio. Si direbbe: chi glielo fa fare, si iscrivano alla scuola statale se vogliono l'istruzione gratuita!
Ma questa è un'obiezione oltre che classista anche statalista, perché altera la libera scelta del consumatore ad acquistare sul mercato il prodotto che ritiene migliore. E infatti è la logica per la quale non c'è concorrenza tra istituti. Se attraverso le tasse pago lo Stato perché fornisca un'istruzione a mio figlio, ma il servizio è scadente, dovrei avere indietro i miei soldi per recarmi da un altro fornitore di istruzione. Poniamo il caso che lo Stato dica: tutti i cittadini hanno diritto a un telefonino. I telefonini Tim li passa lo Stato, basta fare richiesta. Dunque, lo Stato s'è impegnato con me, ma se io decido di prendermi un Omnitel pagandolo di tasca mia perché funziona meglio, lo Stato nel mio caso risparmia. Se il Tim lo paga 100 euro e l'Omnitel io lo pago 150, lo Stato pagandomi un buono telefonino di 99,99 euro non ci rimette nulla oltre la spesa prevista.
Dunque, non è corretto parlare di «oneri» per lo Stato fin quando il valore del voucher scolastico non superi X-1. Inoltre, sarebbe interessante calcolare questo X costo medio annuo per alunno a carico del sistema scolastico statale, perché non sono affatto convinto che venga fuori una cifra di molto inferiore alla retta annuale di una scuola privata.
Oscar Giannino, su il Riformista, ci invitava a guardare alla Svezia, che nel 1992 ha introdotto una riforma che prevede il voucher alle famiglie.
«Se una scuola privata risponde ai requisiti di qualità formativa dell'Agenzia nazionale per l'educazione [è dunque in questa sede che vanno affrontate le delicate questioni attinenti alle scuole confessionali], le famiglie possono girarle il voucher che equivale al costo medio per il contribuente di una scuola pubblica-pubblica di analogo tipo. Sono ammessi istituti religiosi e no, a scopo di lucro come no. Da meno dell'1% sul totale dell'offerta formativa 13 anni fa, oggi gli istituti privati-pubblici sono saliti all'11%. I loro iscritti hanno risultati migliori negli studi, e gli istituti sono insediati soprattutto dove le scuole pubbliche-pubbliche offrivano servizi e rendimenti peggiori. Risultati del tutto analoghi sono quelli vantati dalle simili Charter Schools introdotte anni fa a Chicago, per combattere il degrado che era divenuto intollerabile dell'istruzione pubblica-pubblica. Sono i più poveri a emergere meglio che nelle scuole disastrate di Stato, i bilanci pubblici sono sgravati dei dipendenti, e alla fine anche le scuole solo pubbliche sono costrette a migliorare, se non vogliono chiudere i battenti».
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