In Tibet continuano, sia pure isolate, le proteste, ma ogni minima protesta viene stroncata e spesso chi protesta muore. La polizia cinese - riporta Asianews - ha picchiato a morte un monaco di 27 anni che distribuiva volantini in cui si invitavano i contadini a non coltivare la terra per protesta contro la persecuzione cinese e a pregare per i tibetani uccisi nelle proteste del 2008. «All'arrivo della polizia è fuggito, ma lo hanno preso e picchiato fino ad ucciderlo sul posto. Poi hanno gettato il corpo in un burrone, per nasconderlo. I monaci hanno recuperato il corpo e lo hanno portato alla polizia per sporgere denuncia, ma la polizia non ha voluto riceverla. Le autorità parlano di suicidio o di caduta accidentale».
Non va meglio ai cattolici. Mons. Giulio Jia Zhiguo, vescovo sotterraneo di Zhengding (Hebei), è stato sequestrato ieri pomeriggio (alle 16 ore locali) dalla polizia e portato in un luogo sconosciuto. «Da anni Mons. Jia - scrive Bernardo Cervellera - subisce sequestri e isolamenti che lo tengono lontano per mesi dalla sua comunità. Durante questi periodi la polizia cerca di indottrinarlo sulla politica religiosa del Partito e lo spinge ad aderire all'Associazione patriottica». Il nuovo sequestro avviene mentre in Vaticano si riunisce la Commissione plenaria sulla Chiesa in Cina.
Ma qualcosa continua a muoversi in Cina, nonostante tutto. Sono trascorsi quattro mesi dal lancio del manifesto Charta '08 e il regime vorrebbe far pensare al mondo che il movimento è già morto. «E' vero il contrario», scrive oggi il Wall Street Journal. Dal dicembre scorso oltre 8.500 cittadini cinesi hanno sottoscritto l'appello per una democrazia multipartitica. Ci vuole coraggio, dal momento che almeno 100 firmatari sarebbero stati arrestati, interrogati o intimiditi. Uno dei promotori, Liu Xiaobo, è detenuto in un luogo sconosciuto dall'8 dicembre. Tuttavia, l'iniziativa non perde il suo slancio e, anzi, ha aperto un sottile varco per le voci del dissenso, incentivando altre petizioni.
Tra di esse, una lettera aperta in cui importanti membri del Partito comunista chiedono più trasparenza e la petizione "Citizens' Oversight Group Appeal", in cui si chiede maggiore trasparenza da parte del governo. Il promotore, Guo Yongfeng, sostiene che oltre 10 mila persone l'hanno sottoscritta e che è stato tenuto agli arresti per due settimane mentre l'Assemblea del Popolo a Pechino era in sessione. «E' improbabile che queste petizioni portino a cambiamenti politici nel breve termine, ma come gli eventi dei mesi scorsi hanno dimostrato, non sono neanche inutili», commenta il Wall Street Journal. Charta '08 sta ancora circolando - soprattutto per email - e continua a fare proseliti. «E' segno che i suoi effetti continueranno a manifestarsi e che il giorno dei democratici verrà», conclude ottimisticamente il WSJ.
Tuesday, March 31, 2009
Sunday, March 29, 2009
Oggi al PdL basta l'attore, domani ci vorrà anche il copione
La nascita ufficiale del PdL è stato un evento di per sé importante e positivo, sia per il centrodestra che per il sistema politico. E' innegabile. Dico "ufficiale", perché bisogna riconoscere che il PdL è nato già da molto tempo nelle urne. Gli apparati di FI e An non hanno fatto altro che registrare una situazione in cui distinguere i loro elettorati stava diventando sempre più difficile. E' anche per questo, e per la presenza di un leader indiscusso, che la fusione è riuscita meglio ai partiti del centrodestra che al Pd. Perché prima del partito era già nato, forse già dal 1994, un "popolo" di elettori che avevano in comune più denominatori.
Ma onestamente, al di là di questo, che noia, ragazzi! Capisco l'entusiasmo dei presenti alla Fiera di Roma per la "storicità" del momento, in questo nostro paese politicamente così avaro di emozioni. Però, chi ha potuto ascoltare i discorsi di Berlusconi a mente fredda, non può non aver percepito un qualcosa di inevitabilmente stantio e persino una minore verve retorica. E' ovvio che molti giovani non se ne sono potuti accorgere, ma molti dei concetti espressi, delle formule usate, a volte addirittura intere frasi - sono sicuro che lo riconosceranno anche i più entusiasti - sono sempre gli stessi da anni. Nei suoi due interventi Berlusconi si è sforzato di inquadrare una prospettiva di lungo periodo, ma senza riuscirvi. Nessuna filosofia politica dominante (ma una spolverata di tutto purché non riconducibile alla sinistra ex Pci), nessuna originale idea di partito, nessuna nuova visione a guidare l'azione di governo. Solo vecchi slogan e tanta, troppa, contingenza governativa. Al di là del ricorso a parole fin troppo abusate come "futuro" e "giovani", hanno prevalso le preoccupazioni del giorno per giorno. Insomma, i due discorsi di Berlusconi sono stati nel complesso deludenti e ripetitivi.
Rimane il fatto che Berlusconi ha innovato la politica, il linguaggio e il sistema politico, e io credo in senso positivo. Questo non potrà mai toglierlelo nessuno. Ma non ha saputo cambiare lo stato e l'Italia. E dubito che riuscirà a farlo ora, anche se non solo per colpa sua. Poteva esserci risparmiata, per esempio, la parola d'ordine - riesumata solo per questi megalo-eventi - della "rivoluzione liberale". Un abito che, come ha osservato Alberto Mingardi, su il Riformista, Berlusconi non ha mai davvero indossato.
Liberale un cazzo! Lo ha praticamente scritto un insospettabile come Vittorio Feltri, su Libero, riferendosi al «superilliberale Testamento biologico in cui è condensato il pensiero cupo dei cattolici d'ala fondamentalista; una straordinaria dimostrazione di intolleranza verso le opinioni dei laici sul cosiddetto fine-vita; un capolavoro di arroganza confessionale che si regge su questo concetto: noi credenti vogliamo morire fra atroci tormenti e pretendiamo che voi non credenti facciate altrettanto. Se il provvedimento, dopo l'esame della Camera, diventerà legge, l'Italia potrà vantare uno Stato etico più rigido di quelli islamici. Bella rivoluzione liberale». Ma il discorso si potrebbe allargare alle questioni di politica economica.
In Italia sono urgenti una riforma del governo e una della rappresentanza. Berlusconi ha sostenuto con forza la necessità di rafforzare i poteri del premier ma è stato vago sulla strada da intraprendere per rendere politicamente fattibile questo auspicabile risultato. Su questo è stato più concreto Fini, richiamando il premier alle sue responsabilità, cioè a percorrere la via delle riforme costituzionali anziché la scorciatoia dello scontro con le altre istituzioni, come la presidenza della Repubblica e il Parlamento. Ma nessuno è stato chiaro abbastanza nel merito. Per rafforzare sia il governo che il Parlamento, serve una vera separazione dei poteri, bisogna abbandonare l'istituto della fiducia e passare all'elezione diretta del premier o del presidente; per quanto riguarda la rappresentanza, però - tema che neanche Fini ha toccato - è urgente una legge elettorale al 100% uninominale. Ormai deputati e senatori riconoscono come unico loro referente colui, il partito o il leader, che li ha candidati e non coloro - i cittadini - che li hanno eletti. Siamo in una situazione di totale vincolo di mandato partitico e il referendum di giugno, sul quale Fini ha invitato il PdL a esprimersi, non risolverebbe questo specifico problema.
Fini ha lanciato la sua sfida anche sulla laicità, sostenendo la necessità di modificare alla Camera la legge sul testamento biologico appena passata al Senato. E dalle cronache pare che Berlusconi si sia espresso pubblicamente, dicendosi persino su questo tema d'accordo con Fini. Come già al Congresso di scioglimento di An, Fini ha pronunciato un discorso da leader di una destra moderna ed europea, pragmatica, sicuramente post-ideologica, per forza di cose moderata. Privo di populismi, il suo è stato un discorso da popolare e non da conservatore. Come spiegavo la settimana scorsa, ha finalmente capito che il PdL è per lui una grande, irripetibile, opportunità per emanciparsi da una storia politica troppo minoritaria per permettergli di puntare in alto. Nonostante divergenze politiche, di carattere, e vecchie ruggini, non remerà contro Berlusconi e lavorerà per il successo di questo partito così importante per le sue ambizioni. E questa è una grossa differenza rispetto al Pd, dove le seconde file lavorano costantemente contro il leader del momento.
Eppure, nemmeno Fini ha offerto nulla di particolarmente nuovo sul piano delle idee. Sì, certo, da liberale mi ha fatto piacere la sua presa di posizione sul testamento biologico e la laicità; così come la sua spinta per le riforme istituzionali. Ma c'è da stendere un velo pietoso, per esempio, sul consenso che è emerso un po' da tutti gli oratori - anche e soprattutto da Fini - sulla cosiddetta "economia sociale di mercato". Un concetto francamente troppo ambiguo, dove colpi di liberismo e colpi di dirigismo si alternano e si intrecciano, non si sa quanto per pragmatismo e quanto per opportunismo, per non dispiacere alle proprie clientele e, quando è il caso, colpire quelle degli avversari politici, o per nascondere le proprie debolezze e incompetenze. Fini è già proiettato nella lunghissima rincorsa alla leadership post-berlusconiana, ma francamente non è detto che gli basteranno questi suoi bei discorsi moderati e di buon senso, perché l'impressione - o la speranza - è che nella successione si possa saltare una generazione.
Oggi è inutile cercare di capire quale sia la cultura politica del PdL: è Berlusconi. Lui fa e disfa e in un certo senso è logico che sia così, perché bisogna riconoscere che giusto o sbagliato, i voti li ha sempre presi lui per tutti. Credo che nonostante la natura carismatica della sua leadership, il PdL ha buone possibilità di sopravvivergli. Ma dopo Berlusconi, il PdL dovrà camminare con le sue idee. E allora sì, avrà più importanza di quanta ne ha oggi la cultura politica con la quale si presenterà agli elettori. Nel frattempo, sono questi gli anni in cui i giovani leader dovranno seminare, perché tra qualche anno il nuovo non sia il già vecchio dei Bersani e dei Franceschini del PdL.
Ad oggi, però, ha ragione Luca Ricolfi: Pd e PdL «sono entrambi partiti conservatori di massa, che si differenziano fra loro essenzialmente per gli interessi verso cui hanno un occhio di riguardo».
Ma onestamente, al di là di questo, che noia, ragazzi! Capisco l'entusiasmo dei presenti alla Fiera di Roma per la "storicità" del momento, in questo nostro paese politicamente così avaro di emozioni. Però, chi ha potuto ascoltare i discorsi di Berlusconi a mente fredda, non può non aver percepito un qualcosa di inevitabilmente stantio e persino una minore verve retorica. E' ovvio che molti giovani non se ne sono potuti accorgere, ma molti dei concetti espressi, delle formule usate, a volte addirittura intere frasi - sono sicuro che lo riconosceranno anche i più entusiasti - sono sempre gli stessi da anni. Nei suoi due interventi Berlusconi si è sforzato di inquadrare una prospettiva di lungo periodo, ma senza riuscirvi. Nessuna filosofia politica dominante (ma una spolverata di tutto purché non riconducibile alla sinistra ex Pci), nessuna originale idea di partito, nessuna nuova visione a guidare l'azione di governo. Solo vecchi slogan e tanta, troppa, contingenza governativa. Al di là del ricorso a parole fin troppo abusate come "futuro" e "giovani", hanno prevalso le preoccupazioni del giorno per giorno. Insomma, i due discorsi di Berlusconi sono stati nel complesso deludenti e ripetitivi.
Rimane il fatto che Berlusconi ha innovato la politica, il linguaggio e il sistema politico, e io credo in senso positivo. Questo non potrà mai toglierlelo nessuno. Ma non ha saputo cambiare lo stato e l'Italia. E dubito che riuscirà a farlo ora, anche se non solo per colpa sua. Poteva esserci risparmiata, per esempio, la parola d'ordine - riesumata solo per questi megalo-eventi - della "rivoluzione liberale". Un abito che, come ha osservato Alberto Mingardi, su il Riformista, Berlusconi non ha mai davvero indossato.
Liberale un cazzo! Lo ha praticamente scritto un insospettabile come Vittorio Feltri, su Libero, riferendosi al «superilliberale Testamento biologico in cui è condensato il pensiero cupo dei cattolici d'ala fondamentalista; una straordinaria dimostrazione di intolleranza verso le opinioni dei laici sul cosiddetto fine-vita; un capolavoro di arroganza confessionale che si regge su questo concetto: noi credenti vogliamo morire fra atroci tormenti e pretendiamo che voi non credenti facciate altrettanto. Se il provvedimento, dopo l'esame della Camera, diventerà legge, l'Italia potrà vantare uno Stato etico più rigido di quelli islamici. Bella rivoluzione liberale». Ma il discorso si potrebbe allargare alle questioni di politica economica.
In Italia sono urgenti una riforma del governo e una della rappresentanza. Berlusconi ha sostenuto con forza la necessità di rafforzare i poteri del premier ma è stato vago sulla strada da intraprendere per rendere politicamente fattibile questo auspicabile risultato. Su questo è stato più concreto Fini, richiamando il premier alle sue responsabilità, cioè a percorrere la via delle riforme costituzionali anziché la scorciatoia dello scontro con le altre istituzioni, come la presidenza della Repubblica e il Parlamento. Ma nessuno è stato chiaro abbastanza nel merito. Per rafforzare sia il governo che il Parlamento, serve una vera separazione dei poteri, bisogna abbandonare l'istituto della fiducia e passare all'elezione diretta del premier o del presidente; per quanto riguarda la rappresentanza, però - tema che neanche Fini ha toccato - è urgente una legge elettorale al 100% uninominale. Ormai deputati e senatori riconoscono come unico loro referente colui, il partito o il leader, che li ha candidati e non coloro - i cittadini - che li hanno eletti. Siamo in una situazione di totale vincolo di mandato partitico e il referendum di giugno, sul quale Fini ha invitato il PdL a esprimersi, non risolverebbe questo specifico problema.
Fini ha lanciato la sua sfida anche sulla laicità, sostenendo la necessità di modificare alla Camera la legge sul testamento biologico appena passata al Senato. E dalle cronache pare che Berlusconi si sia espresso pubblicamente, dicendosi persino su questo tema d'accordo con Fini. Come già al Congresso di scioglimento di An, Fini ha pronunciato un discorso da leader di una destra moderna ed europea, pragmatica, sicuramente post-ideologica, per forza di cose moderata. Privo di populismi, il suo è stato un discorso da popolare e non da conservatore. Come spiegavo la settimana scorsa, ha finalmente capito che il PdL è per lui una grande, irripetibile, opportunità per emanciparsi da una storia politica troppo minoritaria per permettergli di puntare in alto. Nonostante divergenze politiche, di carattere, e vecchie ruggini, non remerà contro Berlusconi e lavorerà per il successo di questo partito così importante per le sue ambizioni. E questa è una grossa differenza rispetto al Pd, dove le seconde file lavorano costantemente contro il leader del momento.
Eppure, nemmeno Fini ha offerto nulla di particolarmente nuovo sul piano delle idee. Sì, certo, da liberale mi ha fatto piacere la sua presa di posizione sul testamento biologico e la laicità; così come la sua spinta per le riforme istituzionali. Ma c'è da stendere un velo pietoso, per esempio, sul consenso che è emerso un po' da tutti gli oratori - anche e soprattutto da Fini - sulla cosiddetta "economia sociale di mercato". Un concetto francamente troppo ambiguo, dove colpi di liberismo e colpi di dirigismo si alternano e si intrecciano, non si sa quanto per pragmatismo e quanto per opportunismo, per non dispiacere alle proprie clientele e, quando è il caso, colpire quelle degli avversari politici, o per nascondere le proprie debolezze e incompetenze. Fini è già proiettato nella lunghissima rincorsa alla leadership post-berlusconiana, ma francamente non è detto che gli basteranno questi suoi bei discorsi moderati e di buon senso, perché l'impressione - o la speranza - è che nella successione si possa saltare una generazione.
Oggi è inutile cercare di capire quale sia la cultura politica del PdL: è Berlusconi. Lui fa e disfa e in un certo senso è logico che sia così, perché bisogna riconoscere che giusto o sbagliato, i voti li ha sempre presi lui per tutti. Credo che nonostante la natura carismatica della sua leadership, il PdL ha buone possibilità di sopravvivergli. Ma dopo Berlusconi, il PdL dovrà camminare con le sue idee. E allora sì, avrà più importanza di quanta ne ha oggi la cultura politica con la quale si presenterà agli elettori. Nel frattempo, sono questi gli anni in cui i giovani leader dovranno seminare, perché tra qualche anno il nuovo non sia il già vecchio dei Bersani e dei Franceschini del PdL.
Ad oggi, però, ha ragione Luca Ricolfi: Pd e PdL «sono entrambi partiti conservatori di massa, che si differenziano fra loro essenzialmente per gli interessi verso cui hanno un occhio di riguardo».
Possiamo pensare che sia un male, perché l'Italia avrebbe bisogno d'innovazione più che di conservazione dell'esistente. Si può pensare anche, tuttavia, che la comune ispirazione conservatrice della destra e della sinistra non sia altro, in fondo, che l'espressione politica di quel che noi stessi siamo. Un popolo in cui l'aspirazione al cambiamento si manifesta a ondate improvvise, come ribellismo anarcoide, su un sottofondo costante, duraturo, pietroso fatto di particolarismo, di tenace attaccamento ai nostri interessi immediati, individuali e di gruppo. Se questo è ciò che siamo, non deve stupire che da noi le forze del cambiamento siano minoranza sia a destra sia a sinistra, e che alla fine della storia, dopo un quindicennio di seconda Repubblica, la competizione politica fondamentale sia diventata una sfida fra due conservatorismi. Diversi soltanto per le cose che vogliono conservare. Così, chi vuole un vero cambiamento non sa chi votare, e chi vuole votare non può aspettarsi un vero cambiamento.Nella morsa di due statalismi, scrivevo qualche settimana fa. Berlusconi almeno parla di cambiamento, anche se non lo pratica, ma la sua fortuna è che non conta se e quanto lo pratichi davvero, perché tanto gli altri si arroccano a difesa dell'esistente. Oggi ci tiriamo su il morale dicendoci che tutto sommato l'Italia sta meno peggio di altri. Magra consolazione, e soprattutto tesi discutibile, ma quando la crisi finirà e gli altri ricominceranno a correre e a superarci, rimpiangeremo il tempo e le occasioni perdute oggi.
La nostra cultura politica resta, nonostante ogni velleità modernizzatrice, fondamentalmente figlia delle tre grandi ideologie del secolo scorso, il comunismo, il fascismo, il cattolicesimo. Oggi la patina ideologica si è ritirata quasi completamente, come un ghiacciaio sciolto dall'effetto serra, ma la scorza più dura - fatta di statalismo, dirigismo, paternalismo è ben in vista, e si sta anzi irrobustendo: la crisi economica aumenta la domanda di protezione e di tutela, mentre la libertà individuale sta diventando una sorta di bene di lusso, che viene dopo la sicurezza economica e personale.Ebbene, chi rinuncia alla libertà economica e individuale per la sicurezza e la protezione sociale, non avrà né la prima né le seconde.
Thursday, March 26, 2009
La Cina spadroneggia e alza il tiro delle sue pretese/2
Il tema che da qualche mese più appassiona gli analisti è se, e in che misura, il mondo uscirà dalla crisi con un nuovo ordine economico internazionale; e se, e quanto, il potere si sposterà da occidente verso oriente, dagli Stati Uniti alla Cina. Ha fatto molto scalpore quindi la proposta "shock" - tra la boutade e la provocazione - lanciata due giorni fa dal presidente della Banca centrale cinese: sostituire in futuro il dollaro come valuta di riserva internazionale con una moneta unica mondiale gestita dal Fondo monetario internazionale. La relazione del governatore Zhou Xiaochuan, insolitamente pubblicata anche in inglese, dà il segno delle ambizioni di Pechino alla vigilia del G20 che si aprirà a Londra il prossimo 2 aprile. Una proposta ad oggi irrealistica, ma che indica la volontà della Cina di vedersi risconosciuto un peso maggiore all'interno delle istituzioni economiche internazionali come il Fondo monetario, la Banca mondiale e il WTO, oggi ancora troppo americano-centriche rispetto alla accresciuta influenza della Cina sull'economia globale.
«Come se il dollaro non avesse già abbastanza problemi», ha commentato il Wall Street Journal, Geithner ieri «ha abboccato» e ha risposto che è «abbastanza aperto» a considerare la cosa. Immediatamente il dollaro è andato giù portandosi dietro i mercati azionari, prima che il segretario al Tesoro «si riprendesse» dicendo che «il dollaro rimane la valuta di riserva dominante nel mondo. E penso che continuerà ad esserlo a lungo». «Lo status del dollaro come valuta di riserva dà agli Stati Uniti enormi vantaggi - osserva il WSJ - e dovrebbe essere difeso strenuamente. Significa che non dobbiamo ripagare i nostri debiti in valuta straniera e che il nostro costo del denaro è più a buon mercato».
Tuttavia, avverte il quotidiano Usa, «significa anche che gli Stati Uniti non conducono la politica monetaria solo per se stessi, ma anche per molta parte del mondo» e che «quando gli Stati Uniti cadono nella tentazione di svalutare la loro moneta, procurano degli shock all'intero sistema economico globale». Il Tesoro e la Federal Reserve, spiega il WSJ, stanno «inondando» il mondo di dollari per interrompere la recessione. E' ovvio quindi che «il mondo si stia giustamente innervosendo», per il rischio che il dollaro perda troppo valore, impoverendo le riserve soprattutto di chi, come la Cina, ha investito in asset e titoli di Stato americani. La Banca centrale cinese è il primo detentore di T-Bills, i Bot americani, per 750 miliardi di dollari. A settembre, la Cina ha scalzato il Giappone come primo creditore di Washington. Inevitabile quindi che la questione del rifinanziamento del debito pubblico Usa sia stata al centro della missione di H. Clinton, che ha portato a Pechino un messaggio chiaro:
La Cina continuerà a finanziare il debito Usa? Tutto sembra indicare di sì, ma quale sarà il prezzo politico che chiederà all'America? Innanzitutto, dobbiamo aspettarci che non voglia subire passivamente la politica economica del suo principale debitore e che voglia contare di più nella governance globale. Per questo molti analisti e commentatori negli Stati Uniti chiedono al governo di affrontare con urgenza il problema del debito pubblico, riducendo la dipendenza dai creditori (e rivali) esteri e recuperando così spazi di manovra nella politica estera e di sicurezza.
Un'analisi dell'istituto di geopolitica e intelligence Stratfor spiega che in realtà la Cina non ha altre possibilità che investire il proprio surplus commerciale «in asset americani in generale, e nel debito Usa in particolare». La tanto temuta «opzione nucleare» - la possibilità cioè che la Cina schianti l'America abbandonando all'improvviso tutti gli asset - «non è un'opzione». Vendere tutti i Bot americani in massa non è possibile. Il volume è tale che non possono essere scambiati velocemente e, quindi, solo iniziare a farlo comporterebbe il crollo dei titoli in questione, e di conseguenza la distruzione di tutti i risparmi accumulati dai cinesi in questi anni.
Harold James, su Foreign Policy, azzarda invece un suggestivo parallelo tra la Grande Depressione degli anni '30 e la crisi attuale. La Gran Bretagna era la potenza finanziaria dominante nel XIX secolo, ma uscì finanziariamente stremata dalla Prima guerra mondiale e piena di debiti proprio nei confronti degli Stati Uniti. Oggi, gli Stati Uniti sembrano giocare il ruolo della Gran Bretagna degli anni '30 - un'economia altamente indebitata - e la Cina il ruolo di principale creditore come gli Stati Uniti di allora. Nel mezzo dell'attuale crisi finanziaria, la Cina ha di fronte lo stesso «dilemma» americano degli anni '30 nei confronti dell'Europa: «Ingoiare il rospo e aiutare a salvare gli stessi paesi che ci hanno condotti in questa situazione, o guardare ai suoi interessi di breve termine?».
La Cina avrebbe fondati motivi per prendere sia l'una che l'altra strada. Per ora sembra non volersi tirare indietro, anche se chiederà certamente di contare di più nelle istituzioni economiche internazionali, ma secondo Harold James potrebbe anche chiedere al «vecchio mondo» qualcosa di difficile da accettare: «La transizione da un modello americano a un modello cinese di capitalismo, che - come negli anni '30 - non sarebbe un cambiamento facile per noi».
«Come se il dollaro non avesse già abbastanza problemi», ha commentato il Wall Street Journal, Geithner ieri «ha abboccato» e ha risposto che è «abbastanza aperto» a considerare la cosa. Immediatamente il dollaro è andato giù portandosi dietro i mercati azionari, prima che il segretario al Tesoro «si riprendesse» dicendo che «il dollaro rimane la valuta di riserva dominante nel mondo. E penso che continuerà ad esserlo a lungo». «Lo status del dollaro come valuta di riserva dà agli Stati Uniti enormi vantaggi - osserva il WSJ - e dovrebbe essere difeso strenuamente. Significa che non dobbiamo ripagare i nostri debiti in valuta straniera e che il nostro costo del denaro è più a buon mercato».
Tuttavia, avverte il quotidiano Usa, «significa anche che gli Stati Uniti non conducono la politica monetaria solo per se stessi, ma anche per molta parte del mondo» e che «quando gli Stati Uniti cadono nella tentazione di svalutare la loro moneta, procurano degli shock all'intero sistema economico globale». Il Tesoro e la Federal Reserve, spiega il WSJ, stanno «inondando» il mondo di dollari per interrompere la recessione. E' ovvio quindi che «il mondo si stia giustamente innervosendo», per il rischio che il dollaro perda troppo valore, impoverendo le riserve soprattutto di chi, come la Cina, ha investito in asset e titoli di Stato americani. La Banca centrale cinese è il primo detentore di T-Bills, i Bot americani, per 750 miliardi di dollari. A settembre, la Cina ha scalzato il Giappone come primo creditore di Washington. Inevitabile quindi che la questione del rifinanziamento del debito pubblico Usa sia stata al centro della missione di H. Clinton, che ha portato a Pechino un messaggio chiaro:
«Apprezziamo molto la costante fiducia del governo cinese verso i titoli del Tesoro americano. Sono certa che sia una fiducia ben riposta. America e Cina si riprenderanno dalla crisi economica e insieme guideremo la crescita mondiale».Ma i cinesi temono che l'esplosione del debito pubblico Usa possa provocare una caduta del dollaro, il che decurterebbe il valore delle loro riserve. Tuttavia, se non comprano i Buoni del Tesoro Usa emessi per pagare il piano anti-crisi e i salvataggi bancari, il mercato americano, sbocco principale delle esportazioni cinesi, non sarà più in grado di sostenere l'economia del gigante asiatico. La crisi infatti spaventa anche Pechino. Di recente la Banca mondiale ha ancora una volta ritoccato al ribasso le sue previsioni sulla crescita cinese nel 2009, fissandole a +6,5 per cento, molto meno dell'obiettivo (+8 per cento) che la leadership di Pechino si è prefissata per prevenire tensioni sociali e disoccupazione. Se quindi gli Stati Uniti dipendono dalla Cina per i loro debiti, la Cina dipende dai mercati americani, e mondiali, per le sue esportazioni e la sua crescita.
La Cina continuerà a finanziare il debito Usa? Tutto sembra indicare di sì, ma quale sarà il prezzo politico che chiederà all'America? Innanzitutto, dobbiamo aspettarci che non voglia subire passivamente la politica economica del suo principale debitore e che voglia contare di più nella governance globale. Per questo molti analisti e commentatori negli Stati Uniti chiedono al governo di affrontare con urgenza il problema del debito pubblico, riducendo la dipendenza dai creditori (e rivali) esteri e recuperando così spazi di manovra nella politica estera e di sicurezza.
Un'analisi dell'istituto di geopolitica e intelligence Stratfor spiega che in realtà la Cina non ha altre possibilità che investire il proprio surplus commerciale «in asset americani in generale, e nel debito Usa in particolare». La tanto temuta «opzione nucleare» - la possibilità cioè che la Cina schianti l'America abbandonando all'improvviso tutti gli asset - «non è un'opzione». Vendere tutti i Bot americani in massa non è possibile. Il volume è tale che non possono essere scambiati velocemente e, quindi, solo iniziare a farlo comporterebbe il crollo dei titoli in questione, e di conseguenza la distruzione di tutti i risparmi accumulati dai cinesi in questi anni.
Harold James, su Foreign Policy, azzarda invece un suggestivo parallelo tra la Grande Depressione degli anni '30 e la crisi attuale. La Gran Bretagna era la potenza finanziaria dominante nel XIX secolo, ma uscì finanziariamente stremata dalla Prima guerra mondiale e piena di debiti proprio nei confronti degli Stati Uniti. Oggi, gli Stati Uniti sembrano giocare il ruolo della Gran Bretagna degli anni '30 - un'economia altamente indebitata - e la Cina il ruolo di principale creditore come gli Stati Uniti di allora. Nel mezzo dell'attuale crisi finanziaria, la Cina ha di fronte lo stesso «dilemma» americano degli anni '30 nei confronti dell'Europa: «Ingoiare il rospo e aiutare a salvare gli stessi paesi che ci hanno condotti in questa situazione, o guardare ai suoi interessi di breve termine?».
La Cina avrebbe fondati motivi per prendere sia l'una che l'altra strada. Per ora sembra non volersi tirare indietro, anche se chiederà certamente di contare di più nelle istituzioni economiche internazionali, ma secondo Harold James potrebbe anche chiedere al «vecchio mondo» qualcosa di difficile da accettare: «La transizione da un modello americano a un modello cinese di capitalismo, che - come negli anni '30 - non sarebbe un cambiamento facile per noi».
Follia da stato etico + farsa tutta italiota
Perso per perso, tanto vale che la legge sul testamento biologico sia la più assurda e incostituzionale possibile, cosicché la Corte costituzionale non potrà esimersi dal bocciarla non appena gli capiterà sotto tiro.
Ciò che è successo oggi al Senato però la dice lunga sul comatoso e credo irrecuperabile stato della politica italiana.
Iniziamo col dire che quanto accaduto ci conferma ancora una volta che da cittadini faremmo meglio a esercitare tutti gli spazi di libertà esistenti in concreto senza riporre alcuna fiducia che lo Stato sappia risolvere a nostro vantaggio le ambiguità, e anche ipocrisie, che sorgono in quel gap - in una certa misura inevitabile - tra la legge e la realtà della vita quotidiana.
Nel merito, la legge che il Parlamento sta partorendo è tecnicamente nazistoide. L'articolo 32 della Costituzione è manifestatamente stato scritto avendo in mente le atrocità commesse pochi anni prima dal regime nazista. Questa legge sembra invece farci tornare al tempo in cui lo Stato etico del Terzo Reich disponeva dei corpi dei suoi cittadini malati per condurvi i suoi strani esperimenti. Tali ai miei occhi appaiono situazioni in cui un paziente, non importa quanto consapevole, è obbligato ad alcuni trattamenti sanitari che, senza alcuna speranza di migliorarne la qualità della vita, intervengono sadicamente a prolungarne l'agonia. Davvero bizzarri esperimenti che solo menti malate possono partorire.
Si confonde il diritto alla vita con un inquietante "dovere alla vita". Si parla di centralità della persona, ma si stabilisce che la persona non dispone nemmeno del proprio corpo, sul quale non è né il medico né un famigliare a dire l'ultima parola, ma lo Stato. E non lo fa neanche di volta in volta, caso per caso, ma stabilendo una volta per sempre un esito univoco a situazioni diversissime tra di loro.
La maggioranza ha dato prova di un livello di fanatismo totalitario oltre ogni più negativa previsione. Una massa di invasati, che sembrano non rendersi conto di quanto la legge che hanno votato sia folle anche nella sua palese inapplicabilità. Per assicurarsi che nessuno venga "lasciato andare" bisognerebbe mettere in campo risorse - umane e materiali - inimmaginabili per qualsiasi servizio sanitario nazionale e apparato repressivo.
Impressiona poi la compattezza della maggioranza. E' davvero impensabile che i 150 che hanno votato quel testo (o la maggior parte di loro) non lo ritengano in coscienza assurdo. Ciò ci induce a qualche riflessione su una legge elettorale che sembra aver sì determinato un esito quasi bipartitico, ma che ha praticamente adulterato il concetto stesso di rappresentanza. E' chiaro ormai che deputati e senatori riconoscono come unico loro referente colui, il partito o il leader, che li ha candidati e non coloro - i cittadini - che li hanno eletti. Siamo in una situazione di totale vincolo di mandato partitico. E' urgente, ancor di più in Italia, dove sembra che prevalga più che in altri paesi l'istinto del gregge, avere i collegi uninominali.
Non esente da colpe anche il Pd, che non ha potuto (voluto), a causa delle sue divisioni interne, condurre una limpida battaglia di libertà, cercando invece compromessi al ribasso che avrebbero portato a una legge comunque restrittiva oltre il sopportabile della libertà individuale, ma pericolosamente più passabile agli occhi della Corte. Ma è colpa anche di quanti pur in buona fede, anche contro l'evidenza della direzione favorevole che andavano prendendo le sentenze nei casi Welby ed Englaro, hanno continuato a invocare una legge che con qualunque maggioranza avrebbe ristretto gli spazi di libertà già esistenti nell'ordinamento.
Infine, vi invito a constatare voi stessi l'imprevedibile momento di lucidità - dopo almeno cinque o sei anni - del senatore Marcello Pera.
Ciò che è successo oggi al Senato però la dice lunga sul comatoso e credo irrecuperabile stato della politica italiana.
Iniziamo col dire che quanto accaduto ci conferma ancora una volta che da cittadini faremmo meglio a esercitare tutti gli spazi di libertà esistenti in concreto senza riporre alcuna fiducia che lo Stato sappia risolvere a nostro vantaggio le ambiguità, e anche ipocrisie, che sorgono in quel gap - in una certa misura inevitabile - tra la legge e la realtà della vita quotidiana.
Nel merito, la legge che il Parlamento sta partorendo è tecnicamente nazistoide. L'articolo 32 della Costituzione è manifestatamente stato scritto avendo in mente le atrocità commesse pochi anni prima dal regime nazista. Questa legge sembra invece farci tornare al tempo in cui lo Stato etico del Terzo Reich disponeva dei corpi dei suoi cittadini malati per condurvi i suoi strani esperimenti. Tali ai miei occhi appaiono situazioni in cui un paziente, non importa quanto consapevole, è obbligato ad alcuni trattamenti sanitari che, senza alcuna speranza di migliorarne la qualità della vita, intervengono sadicamente a prolungarne l'agonia. Davvero bizzarri esperimenti che solo menti malate possono partorire.
Si confonde il diritto alla vita con un inquietante "dovere alla vita". Si parla di centralità della persona, ma si stabilisce che la persona non dispone nemmeno del proprio corpo, sul quale non è né il medico né un famigliare a dire l'ultima parola, ma lo Stato. E non lo fa neanche di volta in volta, caso per caso, ma stabilendo una volta per sempre un esito univoco a situazioni diversissime tra di loro.
La maggioranza ha dato prova di un livello di fanatismo totalitario oltre ogni più negativa previsione. Una massa di invasati, che sembrano non rendersi conto di quanto la legge che hanno votato sia folle anche nella sua palese inapplicabilità. Per assicurarsi che nessuno venga "lasciato andare" bisognerebbe mettere in campo risorse - umane e materiali - inimmaginabili per qualsiasi servizio sanitario nazionale e apparato repressivo.
Impressiona poi la compattezza della maggioranza. E' davvero impensabile che i 150 che hanno votato quel testo (o la maggior parte di loro) non lo ritengano in coscienza assurdo. Ciò ci induce a qualche riflessione su una legge elettorale che sembra aver sì determinato un esito quasi bipartitico, ma che ha praticamente adulterato il concetto stesso di rappresentanza. E' chiaro ormai che deputati e senatori riconoscono come unico loro referente colui, il partito o il leader, che li ha candidati e non coloro - i cittadini - che li hanno eletti. Siamo in una situazione di totale vincolo di mandato partitico. E' urgente, ancor di più in Italia, dove sembra che prevalga più che in altri paesi l'istinto del gregge, avere i collegi uninominali.
Non esente da colpe anche il Pd, che non ha potuto (voluto), a causa delle sue divisioni interne, condurre una limpida battaglia di libertà, cercando invece compromessi al ribasso che avrebbero portato a una legge comunque restrittiva oltre il sopportabile della libertà individuale, ma pericolosamente più passabile agli occhi della Corte. Ma è colpa anche di quanti pur in buona fede, anche contro l'evidenza della direzione favorevole che andavano prendendo le sentenze nei casi Welby ed Englaro, hanno continuato a invocare una legge che con qualunque maggioranza avrebbe ristretto gli spazi di libertà già esistenti nell'ordinamento.
Infine, vi invito a constatare voi stessi l'imprevedibile momento di lucidità - dopo almeno cinque o sei anni - del senatore Marcello Pera.
Wednesday, March 25, 2009
La Cina spadroneggia e alza il tiro delle sue pretese
Il rilancio della cooperazione Usa-Cina fino al livello della "partnership strategica", il declassamento dei diritti umani a tema di secondo ordine, esiti della recente visita di H. Clinton, devono aver galvanizzato il regime di Pechino, il cui attivismo nella repressione interna, nella censura di internet, e nell'intimidazione internazionale continua a mietere successi senza trovare opposizioni nemmeno verbali.
Partiamo dagli ultimi episodi in ordine di tempo. Ieri il governo cinese ha bloccato il sito YouTube e ingaggiato una surreale battaglia a colpi di censura contro una creatura mitica, il "grass-mud horse" ("caoníma"), frutto della fantasia dei blogger cinesi per ridicolizzare la recente campagna contro la pornografia e i siti immorali lanciata dal partito, nonché la propaganda sulla "società armoniosa". In un cartone animato questa creatura combatte contro "l'invasione dei granchi di fiume" al ritmo di un rap che fra l'ironico, lo scurrile e l'irriverente, denuncia i soprusi del governo e le ripetute violazioni dei diritti umani. Secondo le nuove direttive, su forum, chat e altri social network, dev'essere impedita la diffusione di tutto ciò che possa richiamare il "caoníma". Il blocco di YouTube serve inoltre a impedire la diffusione di un video – un «falso» per Pechino – che documenta i brutali pestaggi di alcuni tibetani, tra cui dei monaci, ad opera delle forze di sicurezza cinesi, durante le proteste del marzo dello scorso anno.
Anche nel 2008, secondo Amnesty International, la Cina detiene il record mondiale delle condanne a morte (1.718, il 72%, ma potrebbero molte di più). Inoltre, può vantarsi di aver inventato le esecuzioni mobili: per risparmiare tempo e denaro i condannati vengono fatti salire su dei pullman, dove viene fatta loro l'iniezione letale mentre vengono trasportati in ospedale per l'espianto degli organi.
Ma il regime cinese spadroneggia anche a livello internazionale. Oltre a non aver mosso un dito contro la dittatura birmana e quella sudanese, per la crisi del Darfur (la Bbc ha documentato l'anno scorso gli aiuti cinesi, anche militari, al regime di al-Bashir), Pechino ha di recente ottenuto che il governo del Sudafrica negasse al Dalai Lama il visto per entrare nel paese fino al termine dei Mondiali di calcio del 2010.
Ma approfittando della crisi, e dei sorrisi di H. Clinton, la Cina ha persino lanciato un paio di provocazioni niente male direttamente agli Stati Uniti. Il 7 marzo, a circa 120 chilometri a sudovest dell'Isola di Hainan, 5 navi hanno circondato e minacciato la nave Usa "Impeccable", che si è vista costretta a manovre di emergenza per evitare la collisione. Acque internazionali per gli Usa, sulle quali però Pechino rivendica la sua sovranità. Sta alzando il tiro delle sue rivendicazioni territoriali sul Mar Cinese Meridionale, zona strategica dal punto di vista commerciale (vi passa un intenso traffico e oltre la metà del petrolio del mondo). Nonostante la crisi aumenta le spese militari del 15% e pattuglia le acque intorno alle Isole Spratly e Paracel, ricche di gas, petrolio e pesce, nonché potenziali mete turistiche, contese anche da Filippine, Vietnam e Taiwan. La stampa ufficiale (il China Daily) annuncia l'invio di altre 6 navi «per impedire la pesca illegale». Per qualcuno «il diritto internazionale è un modo per risolvere pacificamente i conflitti». Per i cinesi, «uno strumento per riaffermare le loro aggressive rivendicazioni», avverte Walter Lohman, della Heritage Foundation.
Infine, tramite una relazione del presidente della sua Banca centrale, la Cina si è spinta a proporre che il dollaro venga in futuro sostituito, come valuta di riserva internazionale, da una moneta unica mondiale gestita dal FMI. La relazione, insolitamente pubblicata anche in inglese, dà il segno di quanto in alto punti il governo di Pechino alla vigilia del G20 di Londra che si apre il 2 aprile.
Partiamo dagli ultimi episodi in ordine di tempo. Ieri il governo cinese ha bloccato il sito YouTube e ingaggiato una surreale battaglia a colpi di censura contro una creatura mitica, il "grass-mud horse" ("caoníma"), frutto della fantasia dei blogger cinesi per ridicolizzare la recente campagna contro la pornografia e i siti immorali lanciata dal partito, nonché la propaganda sulla "società armoniosa". In un cartone animato questa creatura combatte contro "l'invasione dei granchi di fiume" al ritmo di un rap che fra l'ironico, lo scurrile e l'irriverente, denuncia i soprusi del governo e le ripetute violazioni dei diritti umani. Secondo le nuove direttive, su forum, chat e altri social network, dev'essere impedita la diffusione di tutto ciò che possa richiamare il "caoníma". Il blocco di YouTube serve inoltre a impedire la diffusione di un video – un «falso» per Pechino – che documenta i brutali pestaggi di alcuni tibetani, tra cui dei monaci, ad opera delle forze di sicurezza cinesi, durante le proteste del marzo dello scorso anno.
Anche nel 2008, secondo Amnesty International, la Cina detiene il record mondiale delle condanne a morte (1.718, il 72%, ma potrebbero molte di più). Inoltre, può vantarsi di aver inventato le esecuzioni mobili: per risparmiare tempo e denaro i condannati vengono fatti salire su dei pullman, dove viene fatta loro l'iniezione letale mentre vengono trasportati in ospedale per l'espianto degli organi.
Ma il regime cinese spadroneggia anche a livello internazionale. Oltre a non aver mosso un dito contro la dittatura birmana e quella sudanese, per la crisi del Darfur (la Bbc ha documentato l'anno scorso gli aiuti cinesi, anche militari, al regime di al-Bashir), Pechino ha di recente ottenuto che il governo del Sudafrica negasse al Dalai Lama il visto per entrare nel paese fino al termine dei Mondiali di calcio del 2010.
Ma approfittando della crisi, e dei sorrisi di H. Clinton, la Cina ha persino lanciato un paio di provocazioni niente male direttamente agli Stati Uniti. Il 7 marzo, a circa 120 chilometri a sudovest dell'Isola di Hainan, 5 navi hanno circondato e minacciato la nave Usa "Impeccable", che si è vista costretta a manovre di emergenza per evitare la collisione. Acque internazionali per gli Usa, sulle quali però Pechino rivendica la sua sovranità. Sta alzando il tiro delle sue rivendicazioni territoriali sul Mar Cinese Meridionale, zona strategica dal punto di vista commerciale (vi passa un intenso traffico e oltre la metà del petrolio del mondo). Nonostante la crisi aumenta le spese militari del 15% e pattuglia le acque intorno alle Isole Spratly e Paracel, ricche di gas, petrolio e pesce, nonché potenziali mete turistiche, contese anche da Filippine, Vietnam e Taiwan. La stampa ufficiale (il China Daily) annuncia l'invio di altre 6 navi «per impedire la pesca illegale». Per qualcuno «il diritto internazionale è un modo per risolvere pacificamente i conflitti». Per i cinesi, «uno strumento per riaffermare le loro aggressive rivendicazioni», avverte Walter Lohman, della Heritage Foundation.
Infine, tramite una relazione del presidente della sua Banca centrale, la Cina si è spinta a proporre che il dollaro venga in futuro sostituito, come valuta di riserva internazionale, da una moneta unica mondiale gestita dal FMI. La relazione, insolitamente pubblicata anche in inglese, dà il segno di quanto in alto punti il governo di Pechino alla vigilia del G20 di Londra che si apre il 2 aprile.
Gli ayatollah hanno il fattore tempo dalla loro
David Blair sul Telegraph spiega che un "Grande Satana" dialogante e non così "satanico" è molto più complicato da gestire per gli ayatollah, perché non corrisponde all'immagine della propaganda di regime e rischia di accentuare la frattura tra il popolo iraniano (giovane e occidentalizzato) e i suoi leader, nonché le divisioni tra fanatici e pragmatici all'interno del regime stesso.
Intanto, Mehdi Khalaji, del Washington Institute for Near East Policy, invita a non farsi illusioni sulle presidenziali di giugno, le speculazioni sull'esito delle elezioni sono un «interessante gioco da salotto»:
If Iran's leaders had the power to choose between a belligerent America threatening "regime change" and a conciliatory US President hailing their "great and celebrated culture", they would probably prefer to bask in firebreathing threats. When the "Great Satan" looks suitably wicked – and throws around epithets like "axis of evil" – Iran's leaders can sit back and relax. They can afford to stage "Death to America" rallies and be as intransigent as possible. Their difficulties only arise when the "Great Satan" stubbornly refuses to be remotely satanic.Gli ayatollah, quindi, si trovano di fronte a un dilemma, e non Obama, che qualsiasi risposta riceva potrà o celebrare la sua vittoria diplomatica, oppure incassare un ampio consenso politico per l'uso della forza:
Meanwhile, Mr Obama faces no such dilemma. If his approach succeeds, he will achieve one of history's greatest diplomatic coups. If he fails, America has carefully ruled nothing out. Mr Obama may yet have to decide whether to destroy Iran's nuclear facilities by military means. If he ever reaches that juncture, he will be able to argue that America tried every alternative.Questa doppio sbocco l'avevamo ipotizzato anche qui, ma bisogna fare attenzione ai tempi. I mullah iraniani potrebbero anche decidere di non affrontare il «dilemma» e di sedersi ad aspettare di avere la bomba per trattare da tutt'altra posizione.
Intanto, Mehdi Khalaji, del Washington Institute for Near East Policy, invita a non farsi illusioni sulle presidenziali di giugno, le speculazioni sull'esito delle elezioni sono un «interessante gioco da salotto»:
«... che non ci dovrebbe distrarre dai fondamentali della politica iraniana. Il prossimo presidente potrebbe avere margini di manovra per aggiustare la politica economica e sociale. Ma sui grandi temi di politica estera, le relazioni con l'occidente, e il programma nucleare, l'identità del presidente non è importante. Su questi temi a decidere sarà un uomo che non sarà in corsa per la presidenza, ma il cui potere è certo: la guida suprema Ali Khamenei».
Tuesday, March 24, 2009
Piano Geithner: c'è solo da incrociare le dita
Ieri è intervenuto sul Wall Street Journal il ministro del Tesoro Usa Geithner a spiegare il piano dell'amministrazione per riportare la fiducia tra le banche e gli istituti finanziari americani. Ovviamente è troppo presto per dire se funzionerà o no, anche perché dipenderà dal reale stato di salute delle banche stesse, cioè da quanto gravemente i loro bilanci sono infetti di "asset tossici". E non è nemmeno facile dire se i recuperi di ieri e oggi indicano che il piano è stato "promosso" dalle Borse, o se invece si tratta solo di prevedibili rimbalzi dettati dal fatto che almeno un piano adesso c'è.
Il piano ha ricevuto però una stroncatura autorevole, di quelle di cui è capace il Premio Nobel Paul Krugman, tra i più accaniti critici di Bush e sostenitori della prima ora di Obama. Krugman accusa Geithner di aver «riciclato» le scelte dell'amministrazione Bush, in particolare il piano ribattezzato "cash for trash". «Più che deprimente. Mi riempie di disperazione».
Il problema del piano, secondo Krugman, è che «dà per certo che le banche siano stabili e che i banchieri sappiano quello che stanno facendo». Krugman è per la nazionalizzazione delle banche. Da un certo punto di vista non ha tutti i torti. Una volta che si è deciso di investire ingenti somme di denaro pubblico, solo in questo modo il governo avrebbe il pieno controllo su come vengono risanati i bilanci delle banche, quindi su come vengono spesi i soldi dei contribuenti. Secondo Krugman bisognerebbe agire in questo modo:
Il problema più grave per Krugman è politico: «Se questo piano dovesse fallire - come quasi sicuramente fallirà - è improbabile che il presidente sarà in grado di convincere il Congresso ad approvare un ulteriore stanziamento di fondi per fare ciò che avrebbe dovuto fare sin dall'inizio». Quando Obama si renderà conto dell'errore, e «di dover necessariamente cambiare rotta», potrebbe essere troppo tardi, nel senso che «il suo capitale politico potrebbe essere ormai dilapidato».
Più cauto, ma anche disilluso, il giudizio del Wall Street Journal: «Almeno è un tentativo». Poi c'è la proposta di Peter Wallison su come stabilire il prezzo degli asset "tossici".
Il piano ha ricevuto però una stroncatura autorevole, di quelle di cui è capace il Premio Nobel Paul Krugman, tra i più accaniti critici di Bush e sostenitori della prima ora di Obama. Krugman accusa Geithner di aver «riciclato» le scelte dell'amministrazione Bush, in particolare il piano ribattezzato "cash for trash". «Più che deprimente. Mi riempie di disperazione».
Il problema del piano, secondo Krugman, è che «dà per certo che le banche siano stabili e che i banchieri sappiano quello che stanno facendo». Krugman è per la nazionalizzazione delle banche. Da un certo punto di vista non ha tutti i torti. Una volta che si è deciso di investire ingenti somme di denaro pubblico, solo in questo modo il governo avrebbe il pieno controllo su come vengono risanati i bilanci delle banche, quindi su come vengono spesi i soldi dei contribuenti. Secondo Krugman bisognerebbe agire in questo modo:
«Il governo ripristina la fiducia nel sistema facendosi garante di molti (non necessariamente tutti) i debiti delle banche. Al contempo, assume un controllo temporaneo delle banche effettivamente insolventi, allo scopo di metterne a posto i bilanci. Così fece la Svezia all'inizio degli anni '90, e noi stessi dopo la débacle dei risparmi e dei prestiti in epoca reaganiana».Peccato che secondo Paulson prima, e Geithner oggi, gli "asset tossici" sui libri contabili delle banche valgono molto più di quanto chiunque sia attualmente disposto a pagare per essi. Quindi per loro il problema non è una vera e propria insolvenza, ma si tratta di fornire alle banche la liquidità che oggi quei titoli non possono garantire. Paulson aveva proposto che il governo acquistasse direttamente i "titoli tossici", ma c'era il problema di indovinare il "prezzo giusto": fosse stato troppo basso, le banche non avrebbero venduto; troppo alto, ci avrebbero guadagnato troppo. Quello di Geithner è un complicatissimo schema di prestiti per superare questo problema: fa in modo che siano investitori privati a fissare il "prezzo giusto". Poi il governo presta loro i soldi per acquistare i "titoli tossici". Ma l'idea di fondo è la stessa: la sostanziale stabilità e la capacità di giudizio delle banche stesse, cose a cui Krugman ha smesso di credere.
Il problema più grave per Krugman è politico: «Se questo piano dovesse fallire - come quasi sicuramente fallirà - è improbabile che il presidente sarà in grado di convincere il Congresso ad approvare un ulteriore stanziamento di fondi per fare ciò che avrebbe dovuto fare sin dall'inizio». Quando Obama si renderà conto dell'errore, e «di dover necessariamente cambiare rotta», potrebbe essere troppo tardi, nel senso che «il suo capitale politico potrebbe essere ormai dilapidato».
Più cauto, ma anche disilluso, il giudizio del Wall Street Journal: «Almeno è un tentativo». Poi c'è la proposta di Peter Wallison su come stabilire il prezzo degli asset "tossici".
Monday, March 23, 2009
Il dibattito dopo l'apertura di Obama all'Iran
Uno dei più critici dell'apertura di Obama all'Iran è il neoconservatore William Kristol, direttore del Weekly Standard. Se molte volte il presidente Bush ha manifestato il «rispetto» degli Stati Uniti per il popolo dell'Iran, anche in occasione del Nowruz (la festività iraniana per l'inizio del nuovo anno), Obama oggi si distingue per aver esteso quel rispetto alla dittatura clericale, agli aguzzini del giovane blogger iraniano, Omid Mir Sayafi, morto nella famigerata prigione di Evin. «Libertà» non è una parola che troverete nel videomessaggio del presidente, pieno di attenzioni verso i leader iraniani. Obama auspica «rispetto reciproco», ma gli iraniani «sentono odore di debolezza».
Ha abbandonato il regime change sia come obiettivo che come speranza di libertà per gli iraniani. Ha accantonato l'opzione militare. Ha seppellito la cosiddetta politica del bastone e della carota. Obama si è rivolto per ben due volte alla «Repubblica islamica dell'Iran», una formula a lungo evitata, auspicando che riprenda «il posto che merita nella comunità delle nazioni». L'America accetta quindi la rivoluzione islamica del 1979, si impegna a non minacciare l'esistenza del regime che ne è scaturito, e offre a quel regime un dialogo senza precondizioni, neanche la sospensione del programma nucleare, sulla «totalità dei problemi» tra Usa e Iran.
A festeggiare la svolta di Obama è Roger Cohen, secondo cui «la retorica provocatoria del regime di Teheran nasconde un sostanziale pragmatismo». Il «modo migliore» per aiutare la giovane popolazione iraniana, alla ricerca di stabilità e riforme, è proprio il «coinvolgimento», il dialogo. D'altra parte, con gli introiti del petrolio e del gas in calo, e l'economia in crisi, Khamenei – la cui missione è preservare la rivoluzione – «può essere radicale solo fino ad un certo punto». L'apertura all'Iran, secondo Cohen, determinerà un «doloroso, ma necessario», raffredamento dei rapporti tra Stati Uniti e Israele.
«Il presidente Obama ci presenta l'intenzione di sedere e parlare con i mullah come se fosse un drastico cambiamento rispetto al passato, ma l'amministrazione Bush – ricorda Michael Ledeen – ha negoziato ampiamente con Teheran», sebbene i suoi critici la accusassero di una totale chiusura al dialogo. Nell'autunno del 2006 a Washington si erano convinti che un accordo fosse stato raggiunto, e stavano preparando il testo per un annuncio pubblico, rivela Ledeen. «Si stavano illudendo, e chiunque pensi che l'Iran desideri davvero buone relazioni con gli Stati Uniti dovrebbe studiare attentamente come andarono le cose allora». L'annuncio pubblico avrebbe dovuto tenersi all'Assemblea generale dell'Onu di settembre. Larijani sarebbe venuto a New York e avrebbe annunciato la sospensione dell'arricchimento dell'uranio, e Condoleezza Rice che l'America avrebbe tolto le sanzioni all'Iran.
Ma il «lieto evento» non ebbe mai luogo. Larijani e la sua delegazione non vennero mai a New York e il presidente Ahmadinejad pronunciò il suo solito attacco contro gli Usa. Una replica del «grande accordo» fallito negli anni di Clinton. «Non c'è nulla di nuovo nella richiesta di Obama di negoziare con i mullah. Entrambi i suoi predecessori ci hanno provato, entrambi credevano di aver raggiunto un accordo, ed entrambi si accorsero del contrario. Che motivi ci sono per ritenere che oggi le cose andrebbero in modo diverso?»
Secondo John Bolton, dell'American Enterprise Institute, è possibile che l'Iran risponda positivamente. «E perché non dovrebbe? In fondo, il dialogo – avverte Bolton – permetterebbe all'Iran di nascondere le sue reali intenzioni e attività sotto la finzione dei negoziati. Inoltre, l'Iran avrebbe una conferma della debolezza americana e la prova che le sue politiche stanno dando dei frutti». In effetti l'Iran, come la Corea del Nord, sembra aver imparato che un finto interesse nella diplomazia è modo eccellente per guadagnare tempo e mietere concessioni senza concedere nulla di fondamentale.
Già prima dell'apertura di Obama, Michael Gerson, del Council on Foreign Relations, spiegava sul Washington Post come la politica dell'amministrazione nei confronti dell'Iran fosse un misto di cautela e confusione, non in grado né di persuadere, né di intimidire il regime iraniano. Nel frattempo, le forze al-Quds iraniane continuano a guidare, addestrare e armare i terroristi sciiti all'interno dell'Iraq. Non va dimenticato, ricorda Walid Phares, che il 31 agosto del 2010 è la data fissata per il piano di ritiro dall'Iraq e che Iran e Siria potrebbero decidere di approfittarne per destabilizzare la giovane democrazia irachena, trasformando il ritiro in sconfitta.
In una recente audizione, il direttore dell'Intelligence Dennis Blair ha informato la Commissione esteri del Senato che «alcuni funzionari iraniani, come il comandante in capo delle Guardie della Rivoluzione, hanno fatto capire che ci sarebbe la mano iraniana dietro attacchi contro gli interessi americani in luoghi anche molto distanti, suggerendo che l'Iran ha pronti piani terroristici e di guerra non convenzionale contro gli Usa e i loro alleati».
Amir Taheri, infine, osserva che l'incapacità dell'occidente di fermare i piani iraniani ha già innescato in Medio Oriente una corsa al nucleare. Negli ultimi cinque anni, 25 paesi – 10 arabi – hanno per la prima volta annunciato di voler avviare i loro programmi. Nel 2008 l'Arabia Saudita ha aperto negoziati con gli Stati Uniti per ottenere una «capacità nucleare», ufficialmente per «scopi pacifici». L'Egitto ha firmato un accordo di cooperazione con la Francia, così come gli Emirati Arabi Uniti. Non c'è dubbio che l'attuale corsa al nucleare in Medio Oriente sia dovuta al timore che l'Iran usi il suo arsenale nucleare per imporre la sua egemonia nella regione. Ma l'Iran stesso sta giocando un ruolo attivo nella proliferazione, fornendo aiuto a Siria e Sudan, ma anche ai regimi antiamericani del Sud America, come Venezuela, Bolivia, Nicaragua and Ecuador.
Ha abbandonato il regime change sia come obiettivo che come speranza di libertà per gli iraniani. Ha accantonato l'opzione militare. Ha seppellito la cosiddetta politica del bastone e della carota. Obama si è rivolto per ben due volte alla «Repubblica islamica dell'Iran», una formula a lungo evitata, auspicando che riprenda «il posto che merita nella comunità delle nazioni». L'America accetta quindi la rivoluzione islamica del 1979, si impegna a non minacciare l'esistenza del regime che ne è scaturito, e offre a quel regime un dialogo senza precondizioni, neanche la sospensione del programma nucleare, sulla «totalità dei problemi» tra Usa e Iran.
A festeggiare la svolta di Obama è Roger Cohen, secondo cui «la retorica provocatoria del regime di Teheran nasconde un sostanziale pragmatismo». Il «modo migliore» per aiutare la giovane popolazione iraniana, alla ricerca di stabilità e riforme, è proprio il «coinvolgimento», il dialogo. D'altra parte, con gli introiti del petrolio e del gas in calo, e l'economia in crisi, Khamenei – la cui missione è preservare la rivoluzione – «può essere radicale solo fino ad un certo punto». L'apertura all'Iran, secondo Cohen, determinerà un «doloroso, ma necessario», raffredamento dei rapporti tra Stati Uniti e Israele.
«Il presidente Obama ci presenta l'intenzione di sedere e parlare con i mullah come se fosse un drastico cambiamento rispetto al passato, ma l'amministrazione Bush – ricorda Michael Ledeen – ha negoziato ampiamente con Teheran», sebbene i suoi critici la accusassero di una totale chiusura al dialogo. Nell'autunno del 2006 a Washington si erano convinti che un accordo fosse stato raggiunto, e stavano preparando il testo per un annuncio pubblico, rivela Ledeen. «Si stavano illudendo, e chiunque pensi che l'Iran desideri davvero buone relazioni con gli Stati Uniti dovrebbe studiare attentamente come andarono le cose allora». L'annuncio pubblico avrebbe dovuto tenersi all'Assemblea generale dell'Onu di settembre. Larijani sarebbe venuto a New York e avrebbe annunciato la sospensione dell'arricchimento dell'uranio, e Condoleezza Rice che l'America avrebbe tolto le sanzioni all'Iran.
Ma il «lieto evento» non ebbe mai luogo. Larijani e la sua delegazione non vennero mai a New York e il presidente Ahmadinejad pronunciò il suo solito attacco contro gli Usa. Una replica del «grande accordo» fallito negli anni di Clinton. «Non c'è nulla di nuovo nella richiesta di Obama di negoziare con i mullah. Entrambi i suoi predecessori ci hanno provato, entrambi credevano di aver raggiunto un accordo, ed entrambi si accorsero del contrario. Che motivi ci sono per ritenere che oggi le cose andrebbero in modo diverso?»
Secondo John Bolton, dell'American Enterprise Institute, è possibile che l'Iran risponda positivamente. «E perché non dovrebbe? In fondo, il dialogo – avverte Bolton – permetterebbe all'Iran di nascondere le sue reali intenzioni e attività sotto la finzione dei negoziati. Inoltre, l'Iran avrebbe una conferma della debolezza americana e la prova che le sue politiche stanno dando dei frutti». In effetti l'Iran, come la Corea del Nord, sembra aver imparato che un finto interesse nella diplomazia è modo eccellente per guadagnare tempo e mietere concessioni senza concedere nulla di fondamentale.
Già prima dell'apertura di Obama, Michael Gerson, del Council on Foreign Relations, spiegava sul Washington Post come la politica dell'amministrazione nei confronti dell'Iran fosse un misto di cautela e confusione, non in grado né di persuadere, né di intimidire il regime iraniano. Nel frattempo, le forze al-Quds iraniane continuano a guidare, addestrare e armare i terroristi sciiti all'interno dell'Iraq. Non va dimenticato, ricorda Walid Phares, che il 31 agosto del 2010 è la data fissata per il piano di ritiro dall'Iraq e che Iran e Siria potrebbero decidere di approfittarne per destabilizzare la giovane democrazia irachena, trasformando il ritiro in sconfitta.
In una recente audizione, il direttore dell'Intelligence Dennis Blair ha informato la Commissione esteri del Senato che «alcuni funzionari iraniani, come il comandante in capo delle Guardie della Rivoluzione, hanno fatto capire che ci sarebbe la mano iraniana dietro attacchi contro gli interessi americani in luoghi anche molto distanti, suggerendo che l'Iran ha pronti piani terroristici e di guerra non convenzionale contro gli Usa e i loro alleati».
Amir Taheri, infine, osserva che l'incapacità dell'occidente di fermare i piani iraniani ha già innescato in Medio Oriente una corsa al nucleare. Negli ultimi cinque anni, 25 paesi – 10 arabi – hanno per la prima volta annunciato di voler avviare i loro programmi. Nel 2008 l'Arabia Saudita ha aperto negoziati con gli Stati Uniti per ottenere una «capacità nucleare», ufficialmente per «scopi pacifici». L'Egitto ha firmato un accordo di cooperazione con la Francia, così come gli Emirati Arabi Uniti. Non c'è dubbio che l'attuale corsa al nucleare in Medio Oriente sia dovuta al timore che l'Iran usi il suo arsenale nucleare per imporre la sua egemonia nella regione. Ma l'Iran stesso sta giocando un ruolo attivo nella proliferazione, fornendo aiuto a Siria e Sudan, ma anche ai regimi antiamericani del Sud America, come Venezuela, Bolivia, Nicaragua and Ecuador.
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Il messaggio di Fini: ora ognuno per sé
Al Congresso di scioglimento di An, Gianfranco Fini ha pronunciato un discorso da leader di una destra moderna ed europea, pragmatica, sicuramente post-ideologica, per forza di cose moderata. Privo di populismi, il suo è stato un discorso da popolare, non da conservatore. Il passaggio più significativo, a mio avviso, quando ha spiegato che il PdL non dev'essere "la Destra", non deve rappresentare identità passate, ma «gli italiani del futuro», «tra cui molti saranno italiani pur non essendo figli di italiani». I dirigenti e i militanti di An sono più preoccupati di preservare, e portare in dote, nel nuovo partito, la propria identità "aennina", mentre Fini pensa e parla da leader che già sente come suo il problema di trovarsi in sintonia con la maggioranza degli «italiani del futuro».
Il messaggio più importante che Fini ha lanciato alla platea, contenuto in ognuna delle numerose affermazioni che hanno lasciato attoniti colonnelli e militanti, è che d'ora in poi, "ognuno per sé". Si percepiva un vago senso di liberazione in quelle affermazioni che Fini sapeva sarebbero state accolte in modo tiepido. Altro che correnti, Fini non vede l'ora di poter giocare in proprio.
Ha riconosciuto che fu un errore rompere con Berlusconi dopo il suo annuncio dal predellino a Piazza San Babila. Fini ha compreso che il partito unico è in realtà, innanzitutto per lui, una straordinaria occasione, perché mai e poi mai da leader di An avrebbe potuto ambire a candidarsi alla guida della coalizione di centrodestra e quindi del paese. Il PdL gli offre l'opportunità di una scelta irripetibile tra rimanere il capo-corrente di Gasparri e La Russa, ammesso che ci riesca, per ricavarsi comunque un posto di primo piano, una rendita di posizione, oppure rimodellare i contorni della sua figura politica per ambire non solo alla leadership del partito, ma anche al governo del paese.
Da questo punto di vista Fini è già proiettato nella lunghissima campagna elettorale post-berlusconiana. Per questo motivo forse oggi possiamo affermare che il vero Fini sia quello di ieri e non quello che solo due anni fa - è bene ricordarlo - bollava come "omicidio" la morte di Piergiorgio Welby. Fini è pronto, e deciso (al contrario dei leader che si sono succeduti a sinistra, da Prodi e D'Alema a Veltroni e Franceschini), a conquistare politicamente il centro dell'elettorato, senza appaltare la rappresentanza del "centro" a un partitino alleato.
Il suo atteggiamento nei confronti degli elettori della destra, da cui proviene, è molto diverso dall'atteggiamento dei leader dell'Ulivo e del Pd nei confronti degli elettori di sinistra, che nei momenti di difficoltà vengono spasmodicamente inseguiti. A farne le spese è sempre il percorso di ammodernamento della sinistra, rimandato "sine die".
Il messaggio più importante che Fini ha lanciato alla platea, contenuto in ognuna delle numerose affermazioni che hanno lasciato attoniti colonnelli e militanti, è che d'ora in poi, "ognuno per sé". Si percepiva un vago senso di liberazione in quelle affermazioni che Fini sapeva sarebbero state accolte in modo tiepido. Altro che correnti, Fini non vede l'ora di poter giocare in proprio.
Ha riconosciuto che fu un errore rompere con Berlusconi dopo il suo annuncio dal predellino a Piazza San Babila. Fini ha compreso che il partito unico è in realtà, innanzitutto per lui, una straordinaria occasione, perché mai e poi mai da leader di An avrebbe potuto ambire a candidarsi alla guida della coalizione di centrodestra e quindi del paese. Il PdL gli offre l'opportunità di una scelta irripetibile tra rimanere il capo-corrente di Gasparri e La Russa, ammesso che ci riesca, per ricavarsi comunque un posto di primo piano, una rendita di posizione, oppure rimodellare i contorni della sua figura politica per ambire non solo alla leadership del partito, ma anche al governo del paese.
Da questo punto di vista Fini è già proiettato nella lunghissima campagna elettorale post-berlusconiana. Per questo motivo forse oggi possiamo affermare che il vero Fini sia quello di ieri e non quello che solo due anni fa - è bene ricordarlo - bollava come "omicidio" la morte di Piergiorgio Welby. Fini è pronto, e deciso (al contrario dei leader che si sono succeduti a sinistra, da Prodi e D'Alema a Veltroni e Franceschini), a conquistare politicamente il centro dell'elettorato, senza appaltare la rappresentanza del "centro" a un partitino alleato.
Il suo atteggiamento nei confronti degli elettori della destra, da cui proviene, è molto diverso dall'atteggiamento dei leader dell'Ulivo e del Pd nei confronti degli elettori di sinistra, che nei momenti di difficoltà vengono spasmodicamente inseguiti. A farne le spese è sempre il percorso di ammodernamento della sinistra, rimandato "sine die".
Friday, March 20, 2009
Come interpretare l'apertura di Obama all'Iran
Che tempismo, verrebbe da esclamare. Neanche 24 ore dopo la notizia della misteriosa (si fa per dire) morte in carcere di un giovane blogger iraniano, il presidente Obama lancia la più ampia apertura di credito nei confronti del regime iraniano che si sia vista forse negli ultimi 30 anni. Soltanto una coincidenza, o forse un brutto presagio? Presto per dirlo.
«Superiamo trent'anni di conflitti», dice Obama nel suo videomessaggio al popolo iraniano e - ha tenuto a sottolineare - ai «dirigenti della Repubblica islamica dell'Iran». Obama ha auspicato che «con il nuovo anno ci sia davvero un nuovo inizio», un «avvenire in cui gli antichi dissensi siano superati». L'America è disponibile a «cercare un dialogo onesto e fondato sul mutuo rispetto», ma anche l'Iran ha una «scelta» da fare. Non può cercare di ottenere il rango internazionale che le spetta «attraverso il terrorismo o le armi». «Abbiamo gravi divergenze che si sono amplificate con il tempo. La mia amministrazione è ora decisa a praticare una diplomazia che tratti la totalità dei problemi che abbiamo davanti a noi e a cercare di stabilire relazioni costruttive tra gli Stati Uniti, l'Iran e la comunità internazionale. Questo processo non progredirà con le minacce». Da Teheran hanno risposto chiedendo agli Usa di riparare ai loro errori.
Come leggere questa incredibile apertura di credito di Obama alla leadership iraniana? Un dialogo senza precondizioni, come per esempio la sospensione del programma nucleare, «che tratti la totalità dei problemi» tra Usa e Iran, è ciò che offre Obama. Il segretario di Stato H. Clinton aveva già aperto all'Iran in modo significativo, proponendo non molto tempo fa una conferenza internazionale sull'Afghanistan alla quale gli iraniani sono stati invitati. Ma ciò non è troppo dissimile dai contatti che l'amministrazione Bush aveva avviato ad alti livelli con i funzionari iraniani sull'Iraq. Contatti su una singola materia alla volta. E Teheran ha risposto con le solite minacce e paragonando la politica Obama a quella di Bush. Ma la nuova amministrazione Usa non vuole concedere alcun alibi agli iraniani. L'offerta di Obama rappresenta quindi una novità assoluta nel merito e nei toni: nessuna precondizione, dialogo a tutto campo, massima chiarezza e pubblicità.
E' ovvio che da poco entrato in carica il nuovo presidente voglia misurare il grado di apertura al dialogo e al compromesso di rivali e nemici sullo scenario internazionale. E' comprensibile che voglia rendersi conto di persona di quanto e fino a che punto certi rapporti siano resi in qualche modo più complicati da eventuali errori della precedente amministrazione e quanto, invece, siano gli interessi divergenti a renderli di per sé difficoltosi. E' in questa chiave che vanno letti i primi approcci con la Cina, con la Russia, con la Corea del Nord, con l'Iran e la Siria. Si va dalla disponibilità a una più stretta cooperazione, addirittura una "partnership globale", con Pechino, al "reset button" con Mosca, per arrivare, appunto, al dialogo senza precondizioni con Teheran.
E' comprensibile, dicevo, che Obama voglia sincerarsi in prima persona delle reali chance della diplomazia nei principali dossier di politica estera e di sicurezza, senza pregiudizi, ripartendo da zero come se non ci fosse stata un'amministrazione prima di lui. Vuol dire dare alle proprie controparti la possibilità di liberarsi del peso di eventuali errori ed asprezze eccessive attribuendone la causa al cattivo rapporto con Bush. Ed è comprensibile questo nuovo approccio anche nei confronti dei mullah iraniani, ma a patto che Obama riesca a tirare le somme di questo suo tentativo nel più breve tempo possibile e che non si faccia impantanare in un dialogo il cui unico obiettivo da parte di Teheran fosse quello di prendere tempo per mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto dell'atomica.
L'apertura di Obama all'Iran non va quindi demonizzata di per sé, né bollata a priori come un cedimento, un'implicita resa. Dipenderà da come il nuovo presidente condurrà il dialogo e dalle conseguenze che trarrà dalle risposte che riceverà da Teheran, nonché dalla rapidità con cui saprà valutare i messaggi della controparte. Anche da un fallimento, che appare probabile, se ne sarà capace Obama potrà rapidamente passare all'incasso di un enorme capitale politico. E' ovvio infatti che quanto più nitida, inequivocabile, e pubblica è l'apertura di credito di Obama all'Iran, e quanto più appare sincera, tanto più, se non dovesse produrre risultati e se Teheran la respingesse, l'America potrebbe rivendicare le sue buone intenzioni, incolpare gli iraniani del fallimento della via diplomatica e ricorrere all'uso della forza con l'appoggio degli alleati.
Due appuntamenti vanno tenuti presenti per meglio comprendere questa apertura così clamorosa e sbandierata. Il 12 giugno si terranno in Iran le elezioni presidenziali, il cui esito com'è noto è nella piena disponibilità dell'ayatollah Ali Khamenei. Con la sua apertura a poche settimane dal voto Obama sta in sostanza dicendo alla guida suprema che, se lo vuole, può dare un segnale di voler ricambiare la disponibilità manifestata dagli Usa decidendo di puntare su un nuovo presidente, più moderato e adatto al dialogo di quel pazzoide di Ahmadinejad, che tra l'altro è molto indebolito dalla disastrosa performance economica (inflazione al 20% e disoccupazione al 30).
Non va dimenticato inoltre che il 31 agosto del 2010 è la data fissata per il piano di ritiro dall'Iraq. Entro quella data, dei 142 mila soldati in Iraq ne rimarranno dai 35 ai 50 mila da impiegare solo in azioni di anti-terrorismo. Come avverte Walid Phares, «il successo del piano di ritiro dipenderà dalla deterrenza che gli Stati Uniti saranno in grado di esercitare nei confronti dell'Iran e della Siria. Il piano può funzionare solo se l'amministrazione agisce celermente per dissuadere sia Teheran che Damasco» dal destabilizzare la giovane democrazia irachena.
Dunque, Obama spera che la sua apertura induca la leadership iraniana alla cautela riguardo l'Iraq. Spera di poter limitare con la diplomazia l'influenza iraniana in Iraq dopo che le truppe saranno partite.
Molti a Washington, osserva Walid Phares, sono convinti «che a Teheran prevarrà il realismo non appena l'amministrazione Obama si siederà con i mullah e inizierà a dialogare». In poche parole, credono che gli iraniani non approfitteranno del ritiro americano. Al contrario, Phares crede che sì, «la leadership iraniana si siederà, parlerà e qualche volta ascolterà, ma allo stesso tempo continuerà le sue azioni in Iraq fino al raggiungimento del suo obiettivo: quello di penetrare, influenzare e sequestrare il 60% dell'Iraq da Baghdad a Bassora non appena le forze americane si saranno ritirate. Useranno tutto il potere a loro disposizione - gruppi speciali, l'esercito del Mahdi, assassinii e infiltrazioni nel governo iracheno». Quindi, «la cosa peggiore» che Obama potrebbe fare è diminuire le forze in Iraq incoraggiando anche solo indirettamente Iran e Siria «a riempire il vuoto sul territorio iracheno».
«Superiamo trent'anni di conflitti», dice Obama nel suo videomessaggio al popolo iraniano e - ha tenuto a sottolineare - ai «dirigenti della Repubblica islamica dell'Iran». Obama ha auspicato che «con il nuovo anno ci sia davvero un nuovo inizio», un «avvenire in cui gli antichi dissensi siano superati». L'America è disponibile a «cercare un dialogo onesto e fondato sul mutuo rispetto», ma anche l'Iran ha una «scelta» da fare. Non può cercare di ottenere il rango internazionale che le spetta «attraverso il terrorismo o le armi». «Abbiamo gravi divergenze che si sono amplificate con il tempo. La mia amministrazione è ora decisa a praticare una diplomazia che tratti la totalità dei problemi che abbiamo davanti a noi e a cercare di stabilire relazioni costruttive tra gli Stati Uniti, l'Iran e la comunità internazionale. Questo processo non progredirà con le minacce». Da Teheran hanno risposto chiedendo agli Usa di riparare ai loro errori.
Come leggere questa incredibile apertura di credito di Obama alla leadership iraniana? Un dialogo senza precondizioni, come per esempio la sospensione del programma nucleare, «che tratti la totalità dei problemi» tra Usa e Iran, è ciò che offre Obama. Il segretario di Stato H. Clinton aveva già aperto all'Iran in modo significativo, proponendo non molto tempo fa una conferenza internazionale sull'Afghanistan alla quale gli iraniani sono stati invitati. Ma ciò non è troppo dissimile dai contatti che l'amministrazione Bush aveva avviato ad alti livelli con i funzionari iraniani sull'Iraq. Contatti su una singola materia alla volta. E Teheran ha risposto con le solite minacce e paragonando la politica Obama a quella di Bush. Ma la nuova amministrazione Usa non vuole concedere alcun alibi agli iraniani. L'offerta di Obama rappresenta quindi una novità assoluta nel merito e nei toni: nessuna precondizione, dialogo a tutto campo, massima chiarezza e pubblicità.
E' ovvio che da poco entrato in carica il nuovo presidente voglia misurare il grado di apertura al dialogo e al compromesso di rivali e nemici sullo scenario internazionale. E' comprensibile che voglia rendersi conto di persona di quanto e fino a che punto certi rapporti siano resi in qualche modo più complicati da eventuali errori della precedente amministrazione e quanto, invece, siano gli interessi divergenti a renderli di per sé difficoltosi. E' in questa chiave che vanno letti i primi approcci con la Cina, con la Russia, con la Corea del Nord, con l'Iran e la Siria. Si va dalla disponibilità a una più stretta cooperazione, addirittura una "partnership globale", con Pechino, al "reset button" con Mosca, per arrivare, appunto, al dialogo senza precondizioni con Teheran.
E' comprensibile, dicevo, che Obama voglia sincerarsi in prima persona delle reali chance della diplomazia nei principali dossier di politica estera e di sicurezza, senza pregiudizi, ripartendo da zero come se non ci fosse stata un'amministrazione prima di lui. Vuol dire dare alle proprie controparti la possibilità di liberarsi del peso di eventuali errori ed asprezze eccessive attribuendone la causa al cattivo rapporto con Bush. Ed è comprensibile questo nuovo approccio anche nei confronti dei mullah iraniani, ma a patto che Obama riesca a tirare le somme di questo suo tentativo nel più breve tempo possibile e che non si faccia impantanare in un dialogo il cui unico obiettivo da parte di Teheran fosse quello di prendere tempo per mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto dell'atomica.
L'apertura di Obama all'Iran non va quindi demonizzata di per sé, né bollata a priori come un cedimento, un'implicita resa. Dipenderà da come il nuovo presidente condurrà il dialogo e dalle conseguenze che trarrà dalle risposte che riceverà da Teheran, nonché dalla rapidità con cui saprà valutare i messaggi della controparte. Anche da un fallimento, che appare probabile, se ne sarà capace Obama potrà rapidamente passare all'incasso di un enorme capitale politico. E' ovvio infatti che quanto più nitida, inequivocabile, e pubblica è l'apertura di credito di Obama all'Iran, e quanto più appare sincera, tanto più, se non dovesse produrre risultati e se Teheran la respingesse, l'America potrebbe rivendicare le sue buone intenzioni, incolpare gli iraniani del fallimento della via diplomatica e ricorrere all'uso della forza con l'appoggio degli alleati.
Due appuntamenti vanno tenuti presenti per meglio comprendere questa apertura così clamorosa e sbandierata. Il 12 giugno si terranno in Iran le elezioni presidenziali, il cui esito com'è noto è nella piena disponibilità dell'ayatollah Ali Khamenei. Con la sua apertura a poche settimane dal voto Obama sta in sostanza dicendo alla guida suprema che, se lo vuole, può dare un segnale di voler ricambiare la disponibilità manifestata dagli Usa decidendo di puntare su un nuovo presidente, più moderato e adatto al dialogo di quel pazzoide di Ahmadinejad, che tra l'altro è molto indebolito dalla disastrosa performance economica (inflazione al 20% e disoccupazione al 30).
Non va dimenticato inoltre che il 31 agosto del 2010 è la data fissata per il piano di ritiro dall'Iraq. Entro quella data, dei 142 mila soldati in Iraq ne rimarranno dai 35 ai 50 mila da impiegare solo in azioni di anti-terrorismo. Come avverte Walid Phares, «il successo del piano di ritiro dipenderà dalla deterrenza che gli Stati Uniti saranno in grado di esercitare nei confronti dell'Iran e della Siria. Il piano può funzionare solo se l'amministrazione agisce celermente per dissuadere sia Teheran che Damasco» dal destabilizzare la giovane democrazia irachena.
Dunque, Obama spera che la sua apertura induca la leadership iraniana alla cautela riguardo l'Iraq. Spera di poter limitare con la diplomazia l'influenza iraniana in Iraq dopo che le truppe saranno partite.
Molti a Washington, osserva Walid Phares, sono convinti «che a Teheran prevarrà il realismo non appena l'amministrazione Obama si siederà con i mullah e inizierà a dialogare». In poche parole, credono che gli iraniani non approfitteranno del ritiro americano. Al contrario, Phares crede che sì, «la leadership iraniana si siederà, parlerà e qualche volta ascolterà, ma allo stesso tempo continuerà le sue azioni in Iraq fino al raggiungimento del suo obiettivo: quello di penetrare, influenzare e sequestrare il 60% dell'Iraq da Baghdad a Bassora non appena le forze americane si saranno ritirate. Useranno tutto il potere a loro disposizione - gruppi speciali, l'esercito del Mahdi, assassinii e infiltrazioni nel governo iracheno». Quindi, «la cosa peggiore» che Obama potrebbe fare è diminuire le forze in Iraq incoraggiando anche solo indirettamente Iran e Siria «a riempire il vuoto sul territorio iracheno».
Thursday, March 19, 2009
Morte da blogger
Si muore così in Iran. Un blogger, Mir Sayafi, è morto in carcere, dove era finito dopo la condanna a 30 mesi per aver "insultato" la guida suprema Ali Khamenei. Suicidio, è la versione ufficiale. Le prigioni degli ayatollah possono costringere a gesti disperati, ma in ogni caso è più corretto dire che "è stato suicidato".
Lo scorso novembre, durante una visita a Teheran, era stato arrestato Hossein Derakhshan, 33 anni, il più noto blogger iraniano, conosciuto come Hoder, che dal 2000 viveva in Canada, a Toronto. Accusato di spionaggio a favore di Israele, avrebbe "confessato" e rischia la condanna a morte. Dovrebbe essere in cima alla lista dei perseguitati politici di cui i governi occidentali dovrebbero chiedere la liberazione.
Lo scorso novembre, durante una visita a Teheran, era stato arrestato Hossein Derakhshan, 33 anni, il più noto blogger iraniano, conosciuto come Hoder, che dal 2000 viveva in Canada, a Toronto. Accusato di spionaggio a favore di Israele, avrebbe "confessato" e rischia la condanna a morte. Dovrebbe essere in cima alla lista dei perseguitati politici di cui i governi occidentali dovrebbero chiedere la liberazione.
Ci risiamo
In questi giorni sembrano davvero sincere le aperture della Siria alla nuova amministrazione Usa. Sembrano. Damasco si offre come mediatore tra Washington e Teheran; per la prima volta apre un'ambasciata libanese. Sembra la fine del sogno della "Grande Siria". Sembra. Reuel Marc Gerecht, senior fellow della Foundation for Defense of Democracies, ricorda che non è la prima volta che a Washington crescono le aspettative sulla Siria.
Per decenni amministrazioni repubblicane e democratiche hanno tentato di persuadere il regime siriano alawita, sponsor del terrorismo, di abbandonare le sue posizioni anti-israeliane e anti-americane. Dalla rivoluzione islamica nel 1979, Washington ha nutrito la speranza che il clan alawita guidato dalla famiglia Assad avrebbe reciso i suoi legami con i mullah iraniani e la loro prole rivoluzionaria, gli Hezbollah libanesi, per unirsi agli arabi moderati, guidati dai governi fermamente anti-iraniani di Egitto, Giordania e Arabia Saudita.
Nel 2000, con la morte del presidente Hafez al-Assad, il più brutale dittatore siriano moderno, il Dipartimento di Stato e molti esperti di Medio Oriente hanno visto in Bashar al-Assad il possibile precursore di una Siria che abbandonasse l'estremismo per una maggiore apertura. Lo stesso Bashar al-Assad il cui governo poco dopo avrebbe dato l'ordine di assassinare il primo ministro libanese Rafiq Hariri, che avrebbe osato reclamare il diritto della Siria a comandare la politica libanese e a rubare dalla sua economia. Bashar al-Assad ha aperto un po' l'economia siriana - oggi l'elite può vivere più alla moda - ma ha accresciuto i legami con Teheran e permesso ai Guardiani della Rivoluzione di armare pesantemente Hezbollah. Una prova estremamente convincente: i mullah iraniani hanno appoggiato la costruzione, in Siria, a Dayr az-Zawr, di un impianto per l'arricchimento dell'uranio di fabbricazione nordcoreana - quello distrutto da Israele - perché assolutamente certi che un regime siriano con armi nucleari sarebbe rimasto il loro più stretto alleato.
E così siamo ancora con un'altra amministrazione americana che vede la possibilità di convertire gli alawiti di Damasco in uomini di pace. Si dimostreranno ancora una volta incorreggibili, naturalmente. Sono una minoritaria, eretica, dittatura sciita circondata da siriani sunniti che li odiano. Per gli alawiti, unirsi alla corrente sunnita anti-iraniana non è una proposta allettante. Molto meglio commerciare (clandestinamente se necessario) con gli europei, assassinare i libanesi, sostenere i terroristi anti-israeliani (migliorando la loro immagine in Medio Oriente), sostenere Hezbollah e tenersi stretti gli iraniani, che sono stati sempre leali e generosi.
Tuesday, March 17, 2009
I paradossi di Tremonti e la rivincita degli statalisti
Come ha notato Panebianco nel suo editoriale sul Corriere di qualche giorno fa, c'è un gap - per fortuna - tra la «posizione culturale» di Tremonti e le sue «quotidiane decisioni» assunte da ministro dell'Economia. C'è coerenza, naturalmente, ma anche una certa distanza, dovuta forse a sano pragmatismo e ai vincoli esterni, tra il suo dire (il suo pensare) e il suo fare. Noi diciamo per fortuna, perché le sue idee su quale sia il migliore assetto, l'equilibrio più desiderabile, tra stato (sociale) e mercato, non le condividiamo, anche se la sua lettura della crisi è in parte condivisibile.
E' certamente vero che Tremonti «si è mosso fin qui con equilibrio, adottando una linea di azione che mira a tamponare gli aspetti più gravi della crisi tenendo però conto dei vincoli che gravano sul Paese a causa del debito pubblico. Ciò che l'opposizione giudica colpevole inazione sembra piuttosto il frutto di un calcolo in base al quale la massima prudenza è necessaria...». D'altra parte, questa cautela è condivisa anche da uno dei principali "avversari" di Tremonti, il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, che proprio oggi ha spiegato alla Commissione Finanze della Camera che interventi di stimolo o di protezione sociale che mettessero a rischio i conti pubblici finirebbero per danneggiare ancora di più sia l'economia che le condizioni dei più deboli.
«Né sembra sbagliata - prosegue Panebianco - la tesi di Tremonti secondo cui una crisi mondiale da indebitamento ha poche probabilità di essere curata facendo ancor più debiti. Si tratta di un'implicita critica (condivisibile) alle scelte dell'amministrazione Obama e uno stop anticipato a chi vorrebbe, a casa nostra, fronteggiare la crisi dilatando ulteriormente il debito». Vedi le proposte di Franceschini e della Cgil.
Nella sua replica a Panebianco, il ministro Tremonti un po' ci tranquillizza un po' ci allarma. Ha ragione quando se la prende con una cattiva politica monetaria da parte delle autorità pubbliche, che hanno lasciato che le banche battessero la «loro moneta», «fondata sul debito», cioè «sul nulla», e lasciato quindi che la «moneta cattiva» sovrastasse quella «buona». Ma allora sarebbe il caso di ricordare che i liberisti più liberisti condividono questa lettura della crisi e sono da anni per il ritorno al Gold Standard. Ma basterebbe ad evitare le crisi?
Ancora, è persino ovvio, come dice Tremonti, che il mercato debba restare «dentro il quadrante del diritto». Non è vero però che «il mercato ha fallito» e che «nel durante della crisi e nel dopo della crisi è più probabile che la parte giusta sia quella del sociale». E non è vero soprattutto per l'Italia. Se in paesi come gli Stati Uniti o il Regno Unito si può discutere l'ipotesi che il pendolo abbia oscillato troppo verso il mercato, ciò non ha senso in Italia. «Nella nostra situazione, infatti, ciò che Tremonti chiama "mercatismo" ha goduto solo di un'effimera popolarità in tempi recenti. Noi veniamo da una tradizione di controllo statale sull'economia». E persino la nostra Costituzione - come ha fatto notare Alberto Mingardi, su il Riformista, a chi la ritiene immodificabile - è «antimercatista» e illiberale.
Basti pensare che l'uso dei prefetti per controllare l'attività di credito alle imprese delle banche troverebbe un appoggio costituzionale incontrovertibile nell'art. 47: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme» ma poi la stessa Repubblica «disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito». E qui si aprirebbe il dibattito sulla piena applicazione della Costituzione, di cui davvero non sentiamo alcun bisogno. Tra l'altro, continuiamo a non capire come mai l'abolizione dei prefetti, che Einaudi sosteneva già nel 1944, non faccia parte della battaglia federalista della Lega.
Ciò che più ci preoccupa è che la visione di Tremonti, «grazie al suo ruolo politico e istituzionale, è ormai un pezzo importante della "identità" del centrodestra». E temiamo, siccome ad oggi nel PdL nessuno sembra avere l'autorevolezza per contrastarla, che sia in grado nel medio-lungo periodo di produrre effetti molto negativi sulle idee di politica economica sia del PdL che, per riflesso, del Pd. Allora è possibile, come teme Panebianco, che una volta superata la crisi mondiale, «l'eredità lasciata al Paese consista più in un ritorno agli antichi vizi che nell'acquisizione di nuove virtù. Al di là e contro, certamente, le reali intenzioni di Tremonti». In sostanza, nella insperata rivincita degli statalisti nostrani.
E' certamente vero che Tremonti «si è mosso fin qui con equilibrio, adottando una linea di azione che mira a tamponare gli aspetti più gravi della crisi tenendo però conto dei vincoli che gravano sul Paese a causa del debito pubblico. Ciò che l'opposizione giudica colpevole inazione sembra piuttosto il frutto di un calcolo in base al quale la massima prudenza è necessaria...». D'altra parte, questa cautela è condivisa anche da uno dei principali "avversari" di Tremonti, il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, che proprio oggi ha spiegato alla Commissione Finanze della Camera che interventi di stimolo o di protezione sociale che mettessero a rischio i conti pubblici finirebbero per danneggiare ancora di più sia l'economia che le condizioni dei più deboli.
In paesi come l'Italia, dove è alto il debito pubblico, interventi di breve periodo ampi e incisivi vanno compensati da misure strutturali che diano subito la certezza del riequilibrio del bilancio nel medio periodo. Allungare lo sguardo è essenziale: la sostenibilità dei conti pubblici nel lungo periodo è fondamentale anche per assicurare l'efficacia delle politiche di breve.Ed è una cautela, come abbiamo già osservato, condivisa anche a livello europeo. In un messaggio congiunto il presidente francese Sarkozy e la cancelliera tedesca Merkel hanno ricordato, sia alla presidenza di turno dell'Ue che e al presidente della Commissione europea Barroso, che «l'indebitamento pubblico eccessivo minaccia a lungo termine la stabilità globale» e che i paesi Ue dovranno «rinnovare l'impegno a tornare al più presto possibile agli obiettivi di bilancio di medio termine, conformemente al Patto e in sintonia con il risanamento dell'economia».
«Né sembra sbagliata - prosegue Panebianco - la tesi di Tremonti secondo cui una crisi mondiale da indebitamento ha poche probabilità di essere curata facendo ancor più debiti. Si tratta di un'implicita critica (condivisibile) alle scelte dell'amministrazione Obama e uno stop anticipato a chi vorrebbe, a casa nostra, fronteggiare la crisi dilatando ulteriormente il debito». Vedi le proposte di Franceschini e della Cgil.
Nella sua replica a Panebianco, il ministro Tremonti un po' ci tranquillizza un po' ci allarma. Ha ragione quando se la prende con una cattiva politica monetaria da parte delle autorità pubbliche, che hanno lasciato che le banche battessero la «loro moneta», «fondata sul debito», cioè «sul nulla», e lasciato quindi che la «moneta cattiva» sovrastasse quella «buona». Ma allora sarebbe il caso di ricordare che i liberisti più liberisti condividono questa lettura della crisi e sono da anni per il ritorno al Gold Standard. Ma basterebbe ad evitare le crisi?
Ancora, è persino ovvio, come dice Tremonti, che il mercato debba restare «dentro il quadrante del diritto». Non è vero però che «il mercato ha fallito» e che «nel durante della crisi e nel dopo della crisi è più probabile che la parte giusta sia quella del sociale». E non è vero soprattutto per l'Italia. Se in paesi come gli Stati Uniti o il Regno Unito si può discutere l'ipotesi che il pendolo abbia oscillato troppo verso il mercato, ciò non ha senso in Italia. «Nella nostra situazione, infatti, ciò che Tremonti chiama "mercatismo" ha goduto solo di un'effimera popolarità in tempi recenti. Noi veniamo da una tradizione di controllo statale sull'economia». E persino la nostra Costituzione - come ha fatto notare Alberto Mingardi, su il Riformista, a chi la ritiene immodificabile - è «antimercatista» e illiberale.
Basti pensare che l'uso dei prefetti per controllare l'attività di credito alle imprese delle banche troverebbe un appoggio costituzionale incontrovertibile nell'art. 47: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme» ma poi la stessa Repubblica «disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito». E qui si aprirebbe il dibattito sulla piena applicazione della Costituzione, di cui davvero non sentiamo alcun bisogno. Tra l'altro, continuiamo a non capire come mai l'abolizione dei prefetti, che Einaudi sosteneva già nel 1944, non faccia parte della battaglia federalista della Lega.
Ciò che più ci preoccupa è che la visione di Tremonti, «grazie al suo ruolo politico e istituzionale, è ormai un pezzo importante della "identità" del centrodestra». E temiamo, siccome ad oggi nel PdL nessuno sembra avere l'autorevolezza per contrastarla, che sia in grado nel medio-lungo periodo di produrre effetti molto negativi sulle idee di politica economica sia del PdL che, per riflesso, del Pd. Allora è possibile, come teme Panebianco, che una volta superata la crisi mondiale, «l'eredità lasciata al Paese consista più in un ritorno agli antichi vizi che nell'acquisizione di nuove virtù. Al di là e contro, certamente, le reali intenzioni di Tremonti». In sostanza, nella insperata rivincita degli statalisti nostrani.
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Obama prenda esempio da Roosevelt: primo, le banche
«U.S. officials came to the weekend's finance ministers' summit hoping to persuade other countries to embark on a fresh round of spending. They left under pressure to fix the weak U.S. banking sector».In due righe quello dei corrispondenti del WSJ mi pare il miglior riassunto del vertice G20. L'America di Obama chiede all'Europa di spendere di più (e il WSJ ha già spiegato sulle sue pagine perché stavolta ha ragione la "vecchia Europa" a dire di no), mentre l'Europa chiede giustamente all'amministrazione Obama di rimettere in sesto il sistema bancario.
Invece di perdere tempo con i suoi faraonici piani di spesa pubblica, Obama dovrebbe concentrarsi sulla crisi del sistema finanziario, per restaurare la fiducia e riattivare così il sistema circolatorio dell'economia. E' proprio ciò che fece Roosevelt appena entrato in carica. A ricordarlo all'amministrazione in carica e ai suoi sostenitori, a cui tanto piace il paragone con il presidente del New Deal, è William Galston, politologo del think tank "amico" Brookings Institution, in un articolo su The New Republic.
La lista dei desideri di Obama è troppo lunga. Riuscirà a portare avanti la sua agenda come Reagan, oppure fallirà, come Carter? La questione chiave secondo Galston non è la performance dell'economia. Il PIL che nel 1982 l'amministrazione Reagan aveva previsto crescesse del 4,2%, crebbe invece solo dell'1,8%. Né è il radicalismo il nodo del problema. Se il momento richiede risposte radicali, la moderazione è un errore. L'abilità fondamentale in un presidente è saper individuare nella sua agenda quelle che sono le priorità. Galston cita il giudizio di Erwin C. Hargrove sui primi 100 giorni di Reagan: «Reagan ha dimostrato, in un modo che Jimmy Carter non ha mai dimostrato, di sapere cosa significa essere presidente. Sa che un presidente può affrontare solo un numero relativamente piccolo di temi alla volta». E la stessa cosa vale per il Congresso, ogni presidente dovrebbe ricordarsene.
Ma Galston prevede le obiezioni che avanzerebbero i sostenitori dell'approccio dell'attuale amministrazione: "Siamo nel 1933, non nel 1981, e il modello è Roosevelt, non Reagan... e quindi abbiamo bisogno di un'azione forte su un ampio fronte di problemi", risponderebbero. Tuttavia, secondo Galston, la situazione non è ancora così terribile come nel 1933.
«In parte per questo motivo, la gente non è preparata a dare al presidente e al suo partito il grado di consenso di cui usufruirono Roosevelt e il Congresso democratico all'inizio del New Deal - un motivo in più per Obama per distinguere tra obiettivi di breve e lungo termine, così attentamente almeno quanto fece Roosevelt. Infatti, sebbene esercitasse un potere quasi senza freni - nel 1933 i democratici avevano una maggioranza di 313 seggi alla Camera e 60 al Senato - Roosevelt all'inizio fu attento a concentrare le sue politiche quasi esclusivamente sull'emergenza economica».Con l'Emergency Banking Act - racconta Galston - divise le banche in tre categorie:
«Classe A, solide e pronte a riaprire immediatamente; Classe B, in crisi e bisognose di ricapitalizzazione, riorganizzazione, o entrambe; Classe C, dichiarate insolventi e subito chiuse».Questa classificazione rassicurò gli americani che le banche autorizzate a riaprire erano solide e la fiducia cominciò ad aumentare. «Di contro, Roosevelt ritardò la maggior parte delle sue riforme strutturali che non avessero a che fare direttamente con l'emergenza economica», basando il suo primo mandato su due principi che l'amministrazione Obama farebbe bene a prendere in considerazione:
«Primo, mantenne la sua attenzione (e quella del paese) fermamente concentrata su un singolo obiettivo: porre fine alla crisi di fiducia e far ripartire l'economia. Secondo, ha usato il primo periodo per consolidare il sostegno popolare, conquistando ulteriori posizioni al Congresso nel 1934 e una vittoria a valanga nel 1936».«L'analogia chiave tra oggi e il 1933 è la centralità della crisi finanziaria», conclude Galston. Semmai, quindi, è «difficile comprendere come mai l'amministrazione non si sia ancora mossa con la stessa determinazione di Roosevelt». Eppure, non si può certo dire che la crisi abbia colto di sorpresa Obama e i suoi consiglieri. «La loro incapacità fino ad oggi di restaurare la fiducia solleva due ipotesi ugualmente deprimenti: o non sanno cosa fare, o non credono di poter ottenere il consenso politico per fare ciò che sanno essere necessario».
Sunday, March 15, 2009
Ritratti d'autore
«Ha sempre il tono di certi portinai che si atteggiano a padroni del condominio. Rude, sbrigativo, declamatorio e un cicinino sprezzante. Il tutto aggravato dall'accento ferrarese, con le elle che slittano e le esse infinite. Nelle signore diventa dolce e accattivante. Mentre sulle sue labbra è terribile».Giampaolo Pansa su Dario Franceschini (il Riformista).
Friday, March 13, 2009
Solo un caso, o l'Europa ha imparato che spendere non serve?
Di fronte all'insistenza dell'amministrazione Obama (e insisterà ancor di più al G20 che inizierà stasera) nel chiedere all'Europa di partecipare a un paccheto di stimolo globale - in poche parole, di spendere di più - i governi europei (tedesco e francese in testa) sembrano invece piuttosto guardinghi. Contrari, azzarderei. E il Wall Street Journal ieri spiegava perché questa volta ha ragione la "vecchia Europa" a non voler spendere, forse memore di quanta poca crescita garantisca un'elevata spesa pubblica. Prendendo proprio l'Italia ad esempio negativo, il WSJ sottolinea quanto sia sbagliato il vecchio assunto keynesiano che ad ogni dollaro di spesa in deficit corrisponda un dollaro e mezzo di crescita economica. «Se fosse così, l'Italia sarebbe il paese più ricco in Europa, invece di essere solo uno dei più indebitati», ironizza il quotidiano.
Sarà per caso, perché non sono d'accordo su quasi nulla, o perché non sanno che fare, ma questa volta i governi europei stanno assumendo una posizione corretta rispetto alla voglia di spendere dell'amministrazione Obama. Almeno secondo il WSJ. E la posizione attendista del governo italiano, criticata da un'opposizione che invece di reclamare le riforme a costo zero se ne esce ogni giorno con proposte demagogiche e assistenzialiste, è in linea con quella europea di massima cautela nei conti pubblici. Agire si dovrebbe, ma con le riforme, non con la spesa pubblica.
Sarà per caso, perché non sono d'accordo su quasi nulla, o perché non sanno che fare, ma questa volta i governi europei stanno assumendo una posizione corretta rispetto alla voglia di spendere dell'amministrazione Obama. Almeno secondo il WSJ. E la posizione attendista del governo italiano, criticata da un'opposizione che invece di reclamare le riforme a costo zero se ne esce ogni giorno con proposte demagogiche e assistenzialiste, è in linea con quella europea di massima cautela nei conti pubblici. Agire si dovrebbe, ma con le riforme, non con la spesa pubblica.
Washington e Pechino in piena luna di miele
L'amministrazione Obama e il regime cinese sembrano in piena "luna di miele". Interessati a cooperare per superare la crisi economica evidentemente riescono a non scontrarsi persino sullo spinoso tema del Tibet. «I diritti umani sono essenziali» nella politica estera degli Stati Uniti, ha finalmente ricordato Obama. Gli Usa si augurano «progressi nel dialogo tra il governo cinese e i rappresentanti del Dalai Lama», ha detto ieri il presidente americano al ministro degli Esteri di Pechino, Jang Jiechi, in un lungo incontro alla Casa Bianca.
E la notizia è che oggi da Pechino non rispondono picche, segno che anche la leadership cinese in questo momento è attenta a non assumere atteggiamenti di sfida neanche sui diritti umani. «La Cina è pronta al dialogo con il Dalai Lama se questi rinuncia ai propositi di indipendenza», ha ribadito il premier Wen Jiabao, per una volta non nascondendosi dietro le solite accuse di ingerenza negli affari interni della Cina. «Questo tipo di colloqui possono continuare. La chiave è che il Dalai Lama deve dimostrare la sua sincerità in modo che il dialogo possa arrivare a raggiungere risultati sostanziali».
Naturalmente le reali intenzioni dietro questa disponibilità sono tutte da verificare, visto che in passato «questo tipo di colloqui» non ha portato ad alcun risultato concreto, se non al proseguimento della campagna contro il Dalai Lama e a misure sempre più repressive nei confronti della popolazione tibetana.
E la notizia è che oggi da Pechino non rispondono picche, segno che anche la leadership cinese in questo momento è attenta a non assumere atteggiamenti di sfida neanche sui diritti umani. «La Cina è pronta al dialogo con il Dalai Lama se questi rinuncia ai propositi di indipendenza», ha ribadito il premier Wen Jiabao, per una volta non nascondendosi dietro le solite accuse di ingerenza negli affari interni della Cina. «Questo tipo di colloqui possono continuare. La chiave è che il Dalai Lama deve dimostrare la sua sincerità in modo che il dialogo possa arrivare a raggiungere risultati sostanziali».
Naturalmente le reali intenzioni dietro questa disponibilità sono tutte da verificare, visto che in passato «questo tipo di colloqui» non ha portato ad alcun risultato concreto, se non al proseguimento della campagna contro il Dalai Lama e a misure sempre più repressive nei confronti della popolazione tibetana.
Un Papa ferito e tradito che dimentica Tocqueville
Oggi facciamo un po' di ingerenza, perché c'è questa lettera del Papa davvero notevole. Una lettera in cui in qualche modo ammette i suoi errori ma appare come un agnellino in mezzo a un branco di lupi («ci si morde e divora», nella Chiesa), situazione nella quale rivela tutta la sua angoscia, l'amarezza e lo sconforto.
«Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica». Il Papa riconosce che bastava consultare internet per chiarirsi le idee («seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l'internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema») e aggiunge «ne traggo la lezione che in futuro nella Santa sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie». Non c'è motivo di non credere alla sua buona fede, sul caso Williamson, visto che anche il mondo ebraico sembra aver creduto alle sue spiegazioni.
Chissà, davvero in fondo questo Papa non è che un ingenuo agnellino in mezzo ai lupi. Di certo le contestazioni per la remissione della scomunica ai lefebvriani e per il caso Williamson devono essere state durissime per indurre il Pontefice ad aprire in questo modo il suo cuore. Non credo che nella Curia sia sempre rose e fiori. Anzi, forse il clima di scontro e veleni è più frequente di quanto possiamo immaginare. Ma proprio per questo ha più valore la lettera del Papa, il candore con il quale mette a nudo i suoi sentimenti, sebbene non si possa certo definirli arrendevoli.
Ma Ratzinger parla come colui che si sente tradito. Sembra essere conscio del fatto che il caso Williamson rivela «ferite risalenti al di là del momento»; che quei cattolici che hanno protestato «con un'ostilità pronta all'attacco» si muovono contro di lui animati da un rancore e una disapprovazione generale. Che sia in corso un lavoro di delegittimazione del Papa dall'interno della Chiesa? Può darsi, ma diciamo che il Papa riesce benissimo da sé a delegittimarsi.
Le ragioni della protesta sembra esserci tutte. Il punto è semplice: possibile che un pugno di integralisti sia per lui più importante di milioni di fedeli che si allontanano da una Chiesa rigida, che demonizza la cultura e gli stili di vita moderni, e sempre più incapace di comprensione?
E così torniamo alla missione in cui questo Papa crede di doversi impegnare, che dall'inizio del suo pontificato mi sembra essere quella di preservare intatta la purezza di una dottrina morale e sociale, costi quel che costi in termini di popolarità e di numeri. In un mondo che si allontana da Dio, Ratzinger non crede che compito della Chiesa sia quello di trovare Dio in quel mondo, ma di erigere una fortezza ben difesa dagli attacchi della modernità: meglio un manipolo di duri e puri che un gran numero di credenti dalla fede debole e squassata dai venti delle nuove dottrine. Dai pochi ma buoni si può ripartire per riconquistare il mondo, non da una massa di smidollati. In fondo, è un'ammissione di sconfitta, una ritirata tattica rancorosa che spiega in parte la virulenza degli attacchi e dell'ingerenza politica su quasi tutti i temi, quelli etici come quelli economico-sociali.
Piazza San Pietro ogni domenica appare sempre più vuota rispetto ai tempi di Papa Wojtyla. E non è solo questione di abilità comunicativa. Secondo alcuni calcoli negli ultimi due anni gli incontri pubblici del Papa hanno visto partecipare due milioni di fedeli in meno. Per il secondo anno consecutivo il Vaticano ha chiuso i suoi conti in rosso. Certo che il Papa, la Chiesa ufficiale, non devono piegare i loro valori ai gusti del pubblico del momento; ma neanche possono sottrarsi del tutto dal misurarsi con il sentire della gente comune, della Chiesa comunità.
Non è solo una crisi di immagine, è una crisi di messaggio. Papa Ratzinger sente il dovere di tracciare dei confini di appartenenza al "popolo di Dio" tanto più efficaci, per preservare la Chiesa e le sue verità, quanto più stretti e stringenti. Ma anche i fedeli più umili ormai stanno intuendo che dietro alcune prese di posizione soprendentemente nette, veri e propri anatemi al limite del cinismo, su temi controversi per le coscienze di tutti non c'è alcuna verità di fede o valore "irrinunciabile" da difendere, ma solo l'ostinata difesa di sovrastrutture culturali, se non di vere e proprie rendite di potere.
Se la totale chiusura nell'ambito della morale sessuale e familiare era la cifra anche del pontificato di Wojtyla, la vera differenza è che dai piani alti dei principi oggi si rasentano i bassifondi della politica. Il sempre più accentuato attivismo politico per vedere quei principi trasformati in obblighi e divieti dello stato cui tutti, anche i non credenti, sono chiamati a uniformarsi è fonte di discredito per la Chiesa e confusione tra gli stessi fedeli.
Soprattutto in Italia, Ratzinger rischia di dimenticare la lezione di Tocqueville: legando la propria autorevolezza alle leggi che regolano la convivenza civile, la Chiesa «sacrifica l'avvenire in vista del presente e, ottenendo un potere che non le spetta, mette a repentaglio il suo potere legittimo» sulle anime; «aumenta il suo potere su alcuni uomini, ma perde la speranza di regnare su tutti», di «aspirare all'universalità» e di poter «sfidare il tempo». Quando la religione «vuole appoggiarsi agli interessi mondani, essa diviene fragile come tutte le potenze terrene. Legata a poteri effimeri, segue la loro sorte e cade spesso insieme alle passioni passeggere che li sostengono».
«Una religione che si prende cura dell'anima degli uomini può conquistare i loro cuori, quella che urta le idee generalmente condivise e gli interessi permanenti nella massa si farà molti nemici». La Chiesa cattolica rischia così di dissipare il vantaggio che lo stesso Tocqueville gli ha attribuito nei confronti, per esempio, dell'Islam.
«Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica». Il Papa riconosce che bastava consultare internet per chiarirsi le idee («seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l'internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema») e aggiunge «ne traggo la lezione che in futuro nella Santa sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie». Non c'è motivo di non credere alla sua buona fede, sul caso Williamson, visto che anche il mondo ebraico sembra aver creduto alle sue spiegazioni.
Chissà, davvero in fondo questo Papa non è che un ingenuo agnellino in mezzo ai lupi. Di certo le contestazioni per la remissione della scomunica ai lefebvriani e per il caso Williamson devono essere state durissime per indurre il Pontefice ad aprire in questo modo il suo cuore. Non credo che nella Curia sia sempre rose e fiori. Anzi, forse il clima di scontro e veleni è più frequente di quanto possiamo immaginare. Ma proprio per questo ha più valore la lettera del Papa, il candore con il quale mette a nudo i suoi sentimenti, sebbene non si possa certo definirli arrendevoli.
Ma Ratzinger parla come colui che si sente tradito. Sembra essere conscio del fatto che il caso Williamson rivela «ferite risalenti al di là del momento»; che quei cattolici che hanno protestato «con un'ostilità pronta all'attacco» si muovono contro di lui animati da un rancore e una disapprovazione generale. Che sia in corso un lavoro di delegittimazione del Papa dall'interno della Chiesa? Può darsi, ma diciamo che il Papa riesce benissimo da sé a delegittimarsi.
Le ragioni della protesta sembra esserci tutte. Il punto è semplice: possibile che un pugno di integralisti sia per lui più importante di milioni di fedeli che si allontanano da una Chiesa rigida, che demonizza la cultura e gli stili di vita moderni, e sempre più incapace di comprensione?
E così torniamo alla missione in cui questo Papa crede di doversi impegnare, che dall'inizio del suo pontificato mi sembra essere quella di preservare intatta la purezza di una dottrina morale e sociale, costi quel che costi in termini di popolarità e di numeri. In un mondo che si allontana da Dio, Ratzinger non crede che compito della Chiesa sia quello di trovare Dio in quel mondo, ma di erigere una fortezza ben difesa dagli attacchi della modernità: meglio un manipolo di duri e puri che un gran numero di credenti dalla fede debole e squassata dai venti delle nuove dottrine. Dai pochi ma buoni si può ripartire per riconquistare il mondo, non da una massa di smidollati. In fondo, è un'ammissione di sconfitta, una ritirata tattica rancorosa che spiega in parte la virulenza degli attacchi e dell'ingerenza politica su quasi tutti i temi, quelli etici come quelli economico-sociali.
Piazza San Pietro ogni domenica appare sempre più vuota rispetto ai tempi di Papa Wojtyla. E non è solo questione di abilità comunicativa. Secondo alcuni calcoli negli ultimi due anni gli incontri pubblici del Papa hanno visto partecipare due milioni di fedeli in meno. Per il secondo anno consecutivo il Vaticano ha chiuso i suoi conti in rosso. Certo che il Papa, la Chiesa ufficiale, non devono piegare i loro valori ai gusti del pubblico del momento; ma neanche possono sottrarsi del tutto dal misurarsi con il sentire della gente comune, della Chiesa comunità.
Non è solo una crisi di immagine, è una crisi di messaggio. Papa Ratzinger sente il dovere di tracciare dei confini di appartenenza al "popolo di Dio" tanto più efficaci, per preservare la Chiesa e le sue verità, quanto più stretti e stringenti. Ma anche i fedeli più umili ormai stanno intuendo che dietro alcune prese di posizione soprendentemente nette, veri e propri anatemi al limite del cinismo, su temi controversi per le coscienze di tutti non c'è alcuna verità di fede o valore "irrinunciabile" da difendere, ma solo l'ostinata difesa di sovrastrutture culturali, se non di vere e proprie rendite di potere.
Se la totale chiusura nell'ambito della morale sessuale e familiare era la cifra anche del pontificato di Wojtyla, la vera differenza è che dai piani alti dei principi oggi si rasentano i bassifondi della politica. Il sempre più accentuato attivismo politico per vedere quei principi trasformati in obblighi e divieti dello stato cui tutti, anche i non credenti, sono chiamati a uniformarsi è fonte di discredito per la Chiesa e confusione tra gli stessi fedeli.
Soprattutto in Italia, Ratzinger rischia di dimenticare la lezione di Tocqueville: legando la propria autorevolezza alle leggi che regolano la convivenza civile, la Chiesa «sacrifica l'avvenire in vista del presente e, ottenendo un potere che non le spetta, mette a repentaglio il suo potere legittimo» sulle anime; «aumenta il suo potere su alcuni uomini, ma perde la speranza di regnare su tutti», di «aspirare all'universalità» e di poter «sfidare il tempo». Quando la religione «vuole appoggiarsi agli interessi mondani, essa diviene fragile come tutte le potenze terrene. Legata a poteri effimeri, segue la loro sorte e cade spesso insieme alle passioni passeggere che li sostengono».
«Una religione che si prende cura dell'anima degli uomini può conquistare i loro cuori, quella che urta le idee generalmente condivise e gli interessi permanenti nella massa si farà molti nemici». La Chiesa cattolica rischia così di dissipare il vantaggio che lo stesso Tocqueville gli ha attribuito nei confronti, per esempio, dell'Islam.
«In questi secoli le religioni devono mantenersi più discretamente nei loro limiti senza cercare di uscirne poiché volendo estendere il loro potere al di fuori del campo strettamente religioso, rischiano di non essere credute in alcun campo. (...) Maometto ha fatto discendere dal cielo e ha messo nel Corano non solo dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e penali e teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla solo dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Al di fuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questo soltanto, fra mille ragioni, basta a mostrare che la prima di quelle due religioni non può dominare a lungo in tempi di civiltà e di democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare anche in quei secoli come in tutti gli altri».E' ancora così, o la seconda si avvia a commettere gli stessi errori della prima?
Thursday, March 12, 2009
Il Pd rincorre dalla parte sbagliata
Il nuovo segretario del Pd Franceschini promette di essere un prolifico ideatore di proposte puramente demagogiche.
E' riuscito a far parlare, scrivere e discutere di "solidarietà", di aiuto ai più "poveri", ma l'avete letta bene la proposta di Franceschini? E' davvero rivolta ai "poveri" in carne ed ossa? Ammesso che sia lecito definirla "solidarietà", visto che di solito la solidarietà non è obbligatoria, mi parrebbe proprio di no. In pochi l'hanno notato, ma i 500 milioni non passerebbero direttamente dai più ricchi ai più poveri, bensì arriverebbero a questi ultimi attraverso degli intermediari: volontariato e Comuni. Siamo al solito "tassa e spendi". L'aiuto Franceschini lo vuole dare ai suoi amici nel volontariato e negli enti locali, che di soldi già ne sperperano abbastanza in cazzate.
«Primo recuperare a sinistra, la strategia del Pd è chiara», è il titolo del "Punto" di oggi di Stefano Folli, su Il Sole24 Ore. Sarà anche chiara, ma è sbagliata. Se il Pd vuol essere un partito di governo, maggioritario, competitivo con il PdL, deve cominciare a recuperare credibilità presso i ceti più pragmatici, moderni e moderati del paese, che si situano al centro dell'elettorato. Pensare di recuperare prima a sinistra per poi ritentare di buttarsi al centro, è un'illusione. Perché alla prima curva quelli di sinistra, che oggi si sforza tanto di recuperare, li perderà nuovamente.
Dovrebbe invece abbandonare i voti a sinistra e contendere subito al centrodestra i suoi voti. Spostato il proprio asse politico e conquistata una fetta del consenso dell'avversario, quando vedranno che l'unica alternativa a Berlusconi e alla destra è il Pd, allora anche molti voti di sinistra torneranno a casa e si arrenderanno a sostenere una politica molto meno di sinistra, della vecchia sinistra, ma più vicina a una sinistra in contatto con la realtà dei nostri giorni.
E' riuscito a far parlare, scrivere e discutere di "solidarietà", di aiuto ai più "poveri", ma l'avete letta bene la proposta di Franceschini? E' davvero rivolta ai "poveri" in carne ed ossa? Ammesso che sia lecito definirla "solidarietà", visto che di solito la solidarietà non è obbligatoria, mi parrebbe proprio di no. In pochi l'hanno notato, ma i 500 milioni non passerebbero direttamente dai più ricchi ai più poveri, bensì arriverebbero a questi ultimi attraverso degli intermediari: volontariato e Comuni. Siamo al solito "tassa e spendi". L'aiuto Franceschini lo vuole dare ai suoi amici nel volontariato e negli enti locali, che di soldi già ne sperperano abbastanza in cazzate.
«Primo recuperare a sinistra, la strategia del Pd è chiara», è il titolo del "Punto" di oggi di Stefano Folli, su Il Sole24 Ore. Sarà anche chiara, ma è sbagliata. Se il Pd vuol essere un partito di governo, maggioritario, competitivo con il PdL, deve cominciare a recuperare credibilità presso i ceti più pragmatici, moderni e moderati del paese, che si situano al centro dell'elettorato. Pensare di recuperare prima a sinistra per poi ritentare di buttarsi al centro, è un'illusione. Perché alla prima curva quelli di sinistra, che oggi si sforza tanto di recuperare, li perderà nuovamente.
Dovrebbe invece abbandonare i voti a sinistra e contendere subito al centrodestra i suoi voti. Spostato il proprio asse politico e conquistata una fetta del consenso dell'avversario, quando vedranno che l'unica alternativa a Berlusconi e alla destra è il Pd, allora anche molti voti di sinistra torneranno a casa e si arrenderanno a sostenere una politica molto meno di sinistra, della vecchia sinistra, ma più vicina a una sinistra in contatto con la realtà dei nostri giorni.
Una diversa concezione della ricchezza e della tassazione
La proposta Franceschini di aumentare le tasse ai più "ricchi" per aiutare i più poveri ha ispirato degli accostamenti con l'aumento delle tasse per gli americani più ricchi annunciato da Obama. Mentre Obama può proporre di alzare le tasse ai più ricchi e «nessuno si ribella, tacciandolo di bolscevismo», ha scritto oggi Massimo Giannini su la Repubblica, «al segretario dei democratici italiani questa licenza politico-culturale non è permessa» e la sua proposta «fa scandalo».
Certo che fa scandalo. E' vero che per finanziare una parte del fondo iniziale di 634 miliardi di dollari per la sua riforma sanitaria, Obama aumenterà le tasse al 2% degli americani più ricchi. Ma tra Stati Uniti e Italia ci sono differenze abissali di aliquote marginali sul reddito individuale. Obama porterà le due aliquote più alte dal 33 al 36% e dal 35 al 39,6%, mentre la proposta Franceschini porterebbe l'aliquota massima dal 43 al 45%. Non solo. Quel 45% si applicherebbe sulla parte eccedente i 75 mila euro di reddito per i contribuenti che dichiarano dai 120 mila euro in su. Gli aumenti proposti da Obama riguarderanno i redditi superiori ai 200 mila dollari per i singoli e ai 250 mila per le coppie.
Per Obama sono "ricchi" quelli che guadagano dai 200 mila dollari in su; per Franceschini basta guadagnare 120 mila euro per essere "ricchi". Certo, un piccolo passo avanti rispetto a Prodi-Visco, che hanno colpito dai 35 mila euro, si può notare.
Il confronto con la proposta di Obama semmai mette in luce due diverse visioni sulla soglia della ricchezza e un diverso approccio nei confronti della tassazione. Mentre in Italia sul reddito oltre i 75 mila euro si paga un'aliquota del 43%, in America tra i 78.850 e i 164.550 dollari si paga un'aliquota del 28%. Ben 15 punti percentuali di differenza. Alle due fasce tra i 55 mila e i 75 mila euro, da noi tassata al 41%, e tra i 28 mila e i 55 mila euro, tassata al 38%, in America corrisponde la fascia tra i 32.550 e i 78.850 dollari, tassata al 25%. Per vedersi attribuire un'aliquota del 27% qui da noi bisogna scendere tra i 15 e i 28 mila euro, mentre tra gli 8 mila e 32.550 dollari gli americani pagano il 15%. Fino a 15 mila euro in Italia si paga il 23%, mentre in America fino a 8 mila dollari il 10%.
Certo che fa scandalo. E' vero che per finanziare una parte del fondo iniziale di 634 miliardi di dollari per la sua riforma sanitaria, Obama aumenterà le tasse al 2% degli americani più ricchi. Ma tra Stati Uniti e Italia ci sono differenze abissali di aliquote marginali sul reddito individuale. Obama porterà le due aliquote più alte dal 33 al 36% e dal 35 al 39,6%, mentre la proposta Franceschini porterebbe l'aliquota massima dal 43 al 45%. Non solo. Quel 45% si applicherebbe sulla parte eccedente i 75 mila euro di reddito per i contribuenti che dichiarano dai 120 mila euro in su. Gli aumenti proposti da Obama riguarderanno i redditi superiori ai 200 mila dollari per i singoli e ai 250 mila per le coppie.
Per Obama sono "ricchi" quelli che guadagano dai 200 mila dollari in su; per Franceschini basta guadagnare 120 mila euro per essere "ricchi". Certo, un piccolo passo avanti rispetto a Prodi-Visco, che hanno colpito dai 35 mila euro, si può notare.
Il confronto con la proposta di Obama semmai mette in luce due diverse visioni sulla soglia della ricchezza e un diverso approccio nei confronti della tassazione. Mentre in Italia sul reddito oltre i 75 mila euro si paga un'aliquota del 43%, in America tra i 78.850 e i 164.550 dollari si paga un'aliquota del 28%. Ben 15 punti percentuali di differenza. Alle due fasce tra i 55 mila e i 75 mila euro, da noi tassata al 41%, e tra i 28 mila e i 55 mila euro, tassata al 38%, in America corrisponde la fascia tra i 32.550 e i 78.850 dollari, tassata al 25%. Per vedersi attribuire un'aliquota del 27% qui da noi bisogna scendere tra i 15 e i 28 mila euro, mentre tra gli 8 mila e 32.550 dollari gli americani pagano il 15%. Fino a 15 mila euro in Italia si paga il 23%, mentre in America fino a 8 mila dollari il 10%.
Wednesday, March 11, 2009
Perdono il pelo ma non il visco: Franceschini dichiara guerra al ceto medio
Un incentivo in più per darsi alla macchia
Archiviata la proposta dell'assegno di disoccupazione, di cui abbiamo già avuto modo di parlare, Franceschini riesuma il centrosinistra di Visco e scimmiottando Obama propone di aumentare le tasse ai "ricchi" (!?) per aiutare i più poveri. Un «contributo straordinario» per il 2009: due punti percentuali in più di aliquota Irpef sui redditi superiori ai 120 mila euro per reperire 500 milioni da destinare al contrasto della povertà estrema.
Demagogia assoluta. Effettivamente, se si prendono in considerazione le dichiarazioni del 2006 per l'anno d'imposta 2005 (dati del Dipartimento delle Finanze), aumentando del 2% l'aliquota del 43 per cento che si applica sulla parte eccedente i 75 mila euro di reddito, si ricaverebbero circa 500 milioni di euro in più di imposta lorda. Tuttavia, non è assolutamente detto che aumentando l'aliquota marginale, a un universo così ristretto di contribuenti (tra i 177 mila e i 200 mila) si ricavi un gettito superiore.
Innazitutto, perché non siamo nel 2005 ma in un periodo di crisi più profonda. Poi, perché il solo annuncio di un simile aumento può indurre i contribuenti interessati a imboscarsi in parte o in tutto, oppure a sfruttare al massimo deduzioni e detrazioni (già mi pare di sentirle le preghiere ai commercialisti: "Mi raccomando, faccia come vuole purché restiamo entro i 119.990 euro"). Per non parlare dell'effetto negativo sui consumi (e quindi sul gettito Iva) che potrebbe avere l'aumento delle tasse sui contribuenti più propensi a consumare.
Ma il punto è: sono davvero questi "i ricchi"? Già oggi, i contribuenti con un reddito imponibile di 120 mila euro, che Franceschini chiama "ricchi", si vedono sottrarre dal fisco oltre il 37%, ritrovandosi con poco più di 75 mila euro. Siamo in pieno ceto medio. Inoltre, i redditi superiori ai 100 mila euro in Italia sono già una razza in via d'estinzione e la proposta di Franceschini sarebbe solo un incentivo in più per darsi alla macchia. La percentuale dei contribuenti che dichiarano redditi superiori ai 100 mila euro è stranamente bassa in Italia (rispetto agli Usa, per esempio): lo 0,8%. Tanto da far pensare che simili proposte finiscono per "punire" solo i pochi onesti (o costretti, perché lavoratori dipendenti) che dichiarano quei redditi, mentre tutti gli altri "ricchi" si imboscano.
Ma evidentemente con la sua proposta il segretario del Pd cerca anche di imitare il presidente americano Barack Obama, che per finanziare una parte del fondo iniziale di 634 miliardi di dollari per la sua riforma sanitaria, aumenterà le tasse sui redditi superiori ai 200 mila dollari per i singoli e ai 250 mila per le coppie, il 2% delle dichiarazioni, quelle degli americani più ricchi. L'aliquota marginale massima del 35% salirà al 39,6%.
Ebbene, balza subito agli occhi una differenza abissale nel concetto di ricchezza. In America un presidente di sinistra non si azzarda a definire "ricchi" i single che guadagnano meno di 200 mila dollari (circa 158 mila euro); in Italia ci vanno di mezzo tutti quelli che guadagnano 120 mila euro, single o con famiglia a carico. Ammesso e non concesso che la politica fiscale di Obama sia opportuna, quella di Franceschini è un grossolano attacco al ceto medio.
In Italia i contribuenti più ricchi, che dichiarano più di 100 mila euro l'anno, sono circa 300 mila, lo 0,8% (ma c'è da scommettere che i voti sono molti di più!), e assicurano all'erario solo il 15,8% dell'imposta complessiva (circa 19,8 miliardi di euro). Negli Stati Uniti, considerando gli ultimi dati disponibili (2006), l'1% dei contribuenti più ricchi ha versato invece il 40% del gettito complessivo. Ma di questo 1% fanno parte i cittadini americani che dichiarano un reddito superiore ai 388 mila dollari, mentre in Italia per arrivare alla quota dell'0,8% dei contribuenti più ricchi bisogna considerare anche chi dichiara un reddito di "soli" 100 mila euro (126 mila dollari).
A dichiarare un reddito superiore ai 200 mila dollari (circa 158 mila euro) è addirittura il 7% dei contribuenti americani, che assicura il 62% del gettito complessivo dell'imposta sul reddito individuale, 522 miliardi di dollari. Ebbene, gli italiani che dichiarano un reddito simile, superiore ai 150 mila euro (200 mila dollari equivalgono a 158 mila euro), sono lo 0,3% (114 mila) e versano solo il 9,7% dell'imposta complessiva (circa 12,2 miliardi di euro).
Per ottenere 10 miliardi di euro - per esempio, per finanziare una riforma degli ammortizzatori sociali - da questa fascia di contribuenti più ricchi, la stessa a cui Obama ha deciso di aumentare le tasse per finanziare il suo piano sanitario, occorrerebbe quasi raddoppiare l'aliquota. Per arrivare al 53% di tutto il gettito bisogna prendere in considerazione le tasse pagate dal 10% dei contribuenti italiani più ricchi, ben sotto la soglia dei 70 mila euro.
Sorge spontaneo chiedersi dove siano finiti i "ricchi" in Italia. O nel nostro paese c'è un problema di scarsa creazione della ricchezza e di uno scarso accumulo di capitali; oppure le aliquote sono troppo alte e i contribuenti più ricchi investono i loro guadagni in modi che gli permettono di non farli figurare come reddito imponibile. Probabilmente le due spiegazioni non si escludono.
Archiviata la proposta dell'assegno di disoccupazione, di cui abbiamo già avuto modo di parlare, Franceschini riesuma il centrosinistra di Visco e scimmiottando Obama propone di aumentare le tasse ai "ricchi" (!?) per aiutare i più poveri. Un «contributo straordinario» per il 2009: due punti percentuali in più di aliquota Irpef sui redditi superiori ai 120 mila euro per reperire 500 milioni da destinare al contrasto della povertà estrema.
Demagogia assoluta. Effettivamente, se si prendono in considerazione le dichiarazioni del 2006 per l'anno d'imposta 2005 (dati del Dipartimento delle Finanze), aumentando del 2% l'aliquota del 43 per cento che si applica sulla parte eccedente i 75 mila euro di reddito, si ricaverebbero circa 500 milioni di euro in più di imposta lorda. Tuttavia, non è assolutamente detto che aumentando l'aliquota marginale, a un universo così ristretto di contribuenti (tra i 177 mila e i 200 mila) si ricavi un gettito superiore.
Innazitutto, perché non siamo nel 2005 ma in un periodo di crisi più profonda. Poi, perché il solo annuncio di un simile aumento può indurre i contribuenti interessati a imboscarsi in parte o in tutto, oppure a sfruttare al massimo deduzioni e detrazioni (già mi pare di sentirle le preghiere ai commercialisti: "Mi raccomando, faccia come vuole purché restiamo entro i 119.990 euro"). Per non parlare dell'effetto negativo sui consumi (e quindi sul gettito Iva) che potrebbe avere l'aumento delle tasse sui contribuenti più propensi a consumare.
Ma il punto è: sono davvero questi "i ricchi"? Già oggi, i contribuenti con un reddito imponibile di 120 mila euro, che Franceschini chiama "ricchi", si vedono sottrarre dal fisco oltre il 37%, ritrovandosi con poco più di 75 mila euro. Siamo in pieno ceto medio. Inoltre, i redditi superiori ai 100 mila euro in Italia sono già una razza in via d'estinzione e la proposta di Franceschini sarebbe solo un incentivo in più per darsi alla macchia. La percentuale dei contribuenti che dichiarano redditi superiori ai 100 mila euro è stranamente bassa in Italia (rispetto agli Usa, per esempio): lo 0,8%. Tanto da far pensare che simili proposte finiscono per "punire" solo i pochi onesti (o costretti, perché lavoratori dipendenti) che dichiarano quei redditi, mentre tutti gli altri "ricchi" si imboscano.
Ma evidentemente con la sua proposta il segretario del Pd cerca anche di imitare il presidente americano Barack Obama, che per finanziare una parte del fondo iniziale di 634 miliardi di dollari per la sua riforma sanitaria, aumenterà le tasse sui redditi superiori ai 200 mila dollari per i singoli e ai 250 mila per le coppie, il 2% delle dichiarazioni, quelle degli americani più ricchi. L'aliquota marginale massima del 35% salirà al 39,6%.
Ebbene, balza subito agli occhi una differenza abissale nel concetto di ricchezza. In America un presidente di sinistra non si azzarda a definire "ricchi" i single che guadagnano meno di 200 mila dollari (circa 158 mila euro); in Italia ci vanno di mezzo tutti quelli che guadagnano 120 mila euro, single o con famiglia a carico. Ammesso e non concesso che la politica fiscale di Obama sia opportuna, quella di Franceschini è un grossolano attacco al ceto medio.
In Italia i contribuenti più ricchi, che dichiarano più di 100 mila euro l'anno, sono circa 300 mila, lo 0,8% (ma c'è da scommettere che i voti sono molti di più!), e assicurano all'erario solo il 15,8% dell'imposta complessiva (circa 19,8 miliardi di euro). Negli Stati Uniti, considerando gli ultimi dati disponibili (2006), l'1% dei contribuenti più ricchi ha versato invece il 40% del gettito complessivo. Ma di questo 1% fanno parte i cittadini americani che dichiarano un reddito superiore ai 388 mila dollari, mentre in Italia per arrivare alla quota dell'0,8% dei contribuenti più ricchi bisogna considerare anche chi dichiara un reddito di "soli" 100 mila euro (126 mila dollari).
A dichiarare un reddito superiore ai 200 mila dollari (circa 158 mila euro) è addirittura il 7% dei contribuenti americani, che assicura il 62% del gettito complessivo dell'imposta sul reddito individuale, 522 miliardi di dollari. Ebbene, gli italiani che dichiarano un reddito simile, superiore ai 150 mila euro (200 mila dollari equivalgono a 158 mila euro), sono lo 0,3% (114 mila) e versano solo il 9,7% dell'imposta complessiva (circa 12,2 miliardi di euro).
Per ottenere 10 miliardi di euro - per esempio, per finanziare una riforma degli ammortizzatori sociali - da questa fascia di contribuenti più ricchi, la stessa a cui Obama ha deciso di aumentare le tasse per finanziare il suo piano sanitario, occorrerebbe quasi raddoppiare l'aliquota. Per arrivare al 53% di tutto il gettito bisogna prendere in considerazione le tasse pagate dal 10% dei contribuenti italiani più ricchi, ben sotto la soglia dei 70 mila euro.
Sorge spontaneo chiedersi dove siano finiti i "ricchi" in Italia. O nel nostro paese c'è un problema di scarsa creazione della ricchezza e di uno scarso accumulo di capitali; oppure le aliquote sono troppo alte e i contribuenti più ricchi investono i loro guadagni in modi che gli permettono di non farli figurare come reddito imponibile. Probabilmente le due spiegazioni non si escludono.
In Francia c'è la delega, non l'esproprio del voto
Che le farraginose e pletoriche procedure cui si attiene il nostro Parlamento nella sua attività legislativa siano antiquate e inadeguate ai tempi di oggi, è fuor di dubbio; che i regolamenti parlamentari, e lo stesso assetto bicamerale, necessitino di un aggiornamento per rendere più efficienti le Camere, quindi anche per rafforzarle, e al tempo stesso per formalizzare il ruolo dell'opposizione, è anche questo innegabile.
Ma la proposta evocata ieri da Berlusconi è inammissibile dal punto di vista costituzionale e democratico. Attribuire ai capigruppo il diritto di votare per tutti i membri del loro gruppo significherebbe togliere il diritto di voto agli eletti. Una proposta senza senso, tra l'altro, visto che si può ottenere ugualmente il risultato di velocizzare e semplificare le operazioni di voto semplicemente riducendo, anche dimezzando, il numero dei parlamentari, come da tempo e da più parti auspicato.
Se il premier invece avesse solo voluto riferirsi a quanto ricordato poco prima dal ministro Frattini, chiamato in tribuna al suo fianco, allora avrebbe del tutto equivocato. Di sicuro c'è stato il solito corto-circuito mediatico. Frattini ha in qualche modo fornito un precedente, il caso francese, alla proposta di Berlusconi? Dalle dichiarazioni che sono seguite alla "boutade" di Berlusconi e persino dal dibattito proseguito in tv, sembrava quasi di capire che in Francia da mezzo secolo votano i capigruppo al posto dei parlamentari. Che c'è di strano o antidemocratico nella proposta di Berlusconi, in Francia è così da quarant'anni...
Ma ciò che è previsto da quarant'anni nel Parlamento francese è tutt'alto: è la possibilità del voto per delega, rigidamente regolamentato. E' il singolo parlamentare che volontariamente delega il suo voto, non il capogruppo che si alza e vota per tutti.
Dopo aver sancito che «il diritto di voto dei membri del Parlamento è personale», la Costituzione francese ammette in via del tutto eccezionale la «delega del voto», purché autorizzata e regolamentata da una «legge organica». E' l'ordinanza n. 58-1066 del 7 novembre 1958 a recare la «legge organica che autorizza eccezionalmente i parlamentari a delegare il loro diritto di voto». Innnanzitutto, possono esercitare la facoltà di delega solo in pochi casi eccezionali e documentati («malattia, incidente o evento familiare grave che impedisca al parlamentare di spostarsi»; «missione temporanea affidata dal Governo»; «servizio militare svolto in tempo di pace o in tempo di guerra»; «partecipazione ai lavori delle assemblee internazionali in virtù di una designazione fatta dall'Assemblea nazionale o dal Senato»; «in caso di sessione straordinaria, assenza dal territorio metropolitano»; «casi di forza maggiore valutati con decisione degli uffici di presidenza delle Assemblee»).
In ogni caso, «nessuno può ricevere in delega più di un mandato», stabilisce la Costituzione. Quindi, anche se avesse voluto riferirsi alla possibilità per i presidenti dei gruppi di votare per i membri assenti per malattia o perché in missione, la proposta di Berlusconi è del tutto diversa da quanto accade in Francia, dove non esiste in nessun caso che i presidenti dei gruppi ricevano la delega di più di un parlamentare. Finché si parla della possibilità di delegare il voto, in casi eccezionali e documentati, posso sbagliarmi, ma non mi pare che nella nostra Costituzione sorgano impedimenti.
Piuttosto, ferma restando l'effettiva necessità di riformare i regolamente parlamentari, non escluderei che con la sua "boutade" Berlusconi abbia voluto spostare il dibattito politico su un argomento che non fosse la crisi economica, visto che negli ultimi giorni stava prendendo una piega un po' troppo pessimista e deprimente; oppure, provocare un po' il presidente della Camera Fini. In ogni caso, è riuscito a seppellire il dibattito sull'assegno di disoccupazione proposto da Franceschini.
Ma la proposta evocata ieri da Berlusconi è inammissibile dal punto di vista costituzionale e democratico. Attribuire ai capigruppo il diritto di votare per tutti i membri del loro gruppo significherebbe togliere il diritto di voto agli eletti. Una proposta senza senso, tra l'altro, visto che si può ottenere ugualmente il risultato di velocizzare e semplificare le operazioni di voto semplicemente riducendo, anche dimezzando, il numero dei parlamentari, come da tempo e da più parti auspicato.
Se il premier invece avesse solo voluto riferirsi a quanto ricordato poco prima dal ministro Frattini, chiamato in tribuna al suo fianco, allora avrebbe del tutto equivocato. Di sicuro c'è stato il solito corto-circuito mediatico. Frattini ha in qualche modo fornito un precedente, il caso francese, alla proposta di Berlusconi? Dalle dichiarazioni che sono seguite alla "boutade" di Berlusconi e persino dal dibattito proseguito in tv, sembrava quasi di capire che in Francia da mezzo secolo votano i capigruppo al posto dei parlamentari. Che c'è di strano o antidemocratico nella proposta di Berlusconi, in Francia è così da quarant'anni...
Ma ciò che è previsto da quarant'anni nel Parlamento francese è tutt'alto: è la possibilità del voto per delega, rigidamente regolamentato. E' il singolo parlamentare che volontariamente delega il suo voto, non il capogruppo che si alza e vota per tutti.
Dopo aver sancito che «il diritto di voto dei membri del Parlamento è personale», la Costituzione francese ammette in via del tutto eccezionale la «delega del voto», purché autorizzata e regolamentata da una «legge organica». E' l'ordinanza n. 58-1066 del 7 novembre 1958 a recare la «legge organica che autorizza eccezionalmente i parlamentari a delegare il loro diritto di voto». Innnanzitutto, possono esercitare la facoltà di delega solo in pochi casi eccezionali e documentati («malattia, incidente o evento familiare grave che impedisca al parlamentare di spostarsi»; «missione temporanea affidata dal Governo»; «servizio militare svolto in tempo di pace o in tempo di guerra»; «partecipazione ai lavori delle assemblee internazionali in virtù di una designazione fatta dall'Assemblea nazionale o dal Senato»; «in caso di sessione straordinaria, assenza dal territorio metropolitano»; «casi di forza maggiore valutati con decisione degli uffici di presidenza delle Assemblee»).
In ogni caso, «nessuno può ricevere in delega più di un mandato», stabilisce la Costituzione. Quindi, anche se avesse voluto riferirsi alla possibilità per i presidenti dei gruppi di votare per i membri assenti per malattia o perché in missione, la proposta di Berlusconi è del tutto diversa da quanto accade in Francia, dove non esiste in nessun caso che i presidenti dei gruppi ricevano la delega di più di un parlamentare. Finché si parla della possibilità di delegare il voto, in casi eccezionali e documentati, posso sbagliarmi, ma non mi pare che nella nostra Costituzione sorgano impedimenti.
Piuttosto, ferma restando l'effettiva necessità di riformare i regolamente parlamentari, non escluderei che con la sua "boutade" Berlusconi abbia voluto spostare il dibattito politico su un argomento che non fosse la crisi economica, visto che negli ultimi giorni stava prendendo una piega un po' troppo pessimista e deprimente; oppure, provocare un po' il presidente della Camera Fini. In ogni caso, è riuscito a seppellire il dibattito sull'assegno di disoccupazione proposto da Franceschini.
Tuesday, March 10, 2009
La proposta di Ichino è anche del Pd?
A dividere il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd, sono più i tempi che il merito. Per il ministro in tempi di crisi e di «grandi incertezze» meglio non mettere a mano a grandi riforme nell'ambito del lavoro o delle pensioni, che potrebbero rivelarsi «fonte di ulteriori preoccupazioni e insicurezze tra le persone e tra i lavoratori in particolare». Ichino ritiene invece che anche in tempi di crisi si possa riformare il mercato del lavoro e del welfare, e in un'intervista di oggi al quotidiano il Riformista ha rilanciato la sua proposta di "flexsecurity", un contratto a tempo indeterminato per tutti, flessibile ma con tutele crescenti nel tempo.
Numerose aziende grandi, medie e piccole, che danno lavoro a 55 mila lavoratori, hanno indirizzato ai ministri del lavoro del governo in carica e del governo-ombra una lettera aperta in cui sostengono la proposta di legge di Ichino e auspicano una iniziativa bipartisan. Una lettera analoga è stata sottoscritta da centinaia di giovani di ogni parte d'Italia. Ieri è arrivata la risposta del ministro Sacconi che, pur sottolineando la scarsità di risorse e la delicatezza del momento, si dice «pronto a discuterne»: «Se si manifestasse una disponibilità convinta dell'opposizione a soluzioni largamente condivise con le parti sociali, che riguardino anche la risoluzione della tutela dei lavoratori, noi siamo pronti a discuterne».
La proposta di Ichino si ispira al modello danese e intende risolvere il problema del dualismo nel mercato del lavoro italiano, per fare in modo che non siano solo i lavoratori con contratti atipici a sopportare i rischi e gli svantaggi della flessibilità, come spiegava egli stesso un anno fa. Ma se non sarà il Pd a sposarla sinceramente e a condividere con la maggioranza la responsabilità politica di portarla avanti, il governo non avrà alcun interesse nel rischiare di sollevare un polverone e trovarsi contro tutti i sindacati e l'opposizione.
Numerose aziende grandi, medie e piccole, che danno lavoro a 55 mila lavoratori, hanno indirizzato ai ministri del lavoro del governo in carica e del governo-ombra una lettera aperta in cui sostengono la proposta di legge di Ichino e auspicano una iniziativa bipartisan. Una lettera analoga è stata sottoscritta da centinaia di giovani di ogni parte d'Italia. Ieri è arrivata la risposta del ministro Sacconi che, pur sottolineando la scarsità di risorse e la delicatezza del momento, si dice «pronto a discuterne»: «Se si manifestasse una disponibilità convinta dell'opposizione a soluzioni largamente condivise con le parti sociali, che riguardino anche la risoluzione della tutela dei lavoratori, noi siamo pronti a discuterne».
La proposta di Ichino si ispira al modello danese e intende risolvere il problema del dualismo nel mercato del lavoro italiano, per fare in modo che non siano solo i lavoratori con contratti atipici a sopportare i rischi e gli svantaggi della flessibilità, come spiegava egli stesso un anno fa. Ma se non sarà il Pd a sposarla sinceramente e a condividere con la maggioranza la responsabilità politica di portarla avanti, il governo non avrà alcun interesse nel rischiare di sollevare un polverone e trovarsi contro tutti i sindacati e l'opposizione.
Monday, March 09, 2009
Vigilia di tensione in Tibet
Sale la tensione in Tibet alla vigilia del 50esimo anniversario della più grande rivolta contro l'occupazione cinese. Un evento altamente simbolico per la resistenza tibetana. Era il 10 marzo 1959 e la rivolta si concluse con una sanguinosa repressione ad opera dell'esercito cinese e con la fuga in esilio del Dalai Lama. Ora il regime teme che si ripetano le proteste scoppiate il 10 marzo di un anno fa, quando a seguito dell'arresto di centinaia di monaci migliaia di dimostranti riempirono le strade e attirarono l'attenzione dei media di tutto il mondo. I movimenti dei tibetani in esilio in India hanno annunciato «manifestazioni spettacolari» per commemorare l'anniversario.
Per questo, Lhasa e le altre città tibetane sono militarizzate. Rigidissimi i controlli di polizia ed esercito per le strade. Truppe schierate alle frontiere. Ieri i primi scontri, nella provincia tibetana del Qinghai, tra alcune decine di manifestanti e la polizia. Questa mattina un'auto della polizia e un autocarro dei pompieri sono stati fatti saltare con l'esplosivo. Sempre nella provincia del Qinghai più di cento monaci del monastero tibetano di An Tuo, un terzo dei circa 300 che vi abitano, sono stati arrestati dopo una manifestazione tenuta in occasione del capodanno tibetano, celebrato il 25 febbraio. Per aver intervistato alcuni monaci nel Quinghai sono stati fermati e interrogati oggi, per 3 ore, due giornalisti italiani.
Robert J. Barnett, un esperto di Tibet intervistato dal Council on Foreign Relations, conferma che il governo è piuttosto «nervoso» per la ricorrenza di domani. Pechino «sperava in una luna di miele» con l'amministrazione Obama dopo la recente visita del segretario di Stato Hillary Clinton, ma le sue speranze rischiano di rimanere disattese se dovesse esplodere di nuovo la situazione in Tibet. I contrasti sul Tibet «potrebbero essere risolti», ma il governo cinese deve fare di più, secondo Barnett, che indica due ordini di problemi, uno dei quali Pechino dovrebbe affrontare subito perché insostenibile:
Oggi pomeriggio, intervenendo alla presentazione del rapporto dello European Council on Foreign Relation sui rapporti tra Unione europea a Cina, il ministro degli Esteri Frattini ci ha spiegato che «dobbiamo considerare la Cina come partner politico e strategico complessivo, non solo economico». Solo così potremo parlare di diritti umani con Pechino: «Se vogliamo avere una prospettiva realistica di incidere sui diritti umani la Cina deve essere un attore con cui si parla di tutto. Credo che su alcune tematiche la Cina sia troppo poco consultata».
Al prossimo vertice Ue-Cina ci sarà «una riflessione congiunta sulla governance non solo economica ma anche politica». In questo modo, «avremo una leva maggiore per ragionare di diritti umani e per favorire una ripresa del dialogo tra i la Cina e i rappresentanti del Dalai Lama». Staremo a vedere, ma a questo dialogo sembrano crederci in pochi.
Intanto, il dissidente cinese Bao Tong, tra i firmatari di Charta '08 ed ex membro del Comitato centrale comunista prima del massacro di Tienanmen, si rivolge ai delegati dell'Assemblea nazionale con una lettera aperta (trad. di Asianews) nella quale avverte che «il potere assoluto del Partito soffocherà il popolo e l'economia».
Per questo, Lhasa e le altre città tibetane sono militarizzate. Rigidissimi i controlli di polizia ed esercito per le strade. Truppe schierate alle frontiere. Ieri i primi scontri, nella provincia tibetana del Qinghai, tra alcune decine di manifestanti e la polizia. Questa mattina un'auto della polizia e un autocarro dei pompieri sono stati fatti saltare con l'esplosivo. Sempre nella provincia del Qinghai più di cento monaci del monastero tibetano di An Tuo, un terzo dei circa 300 che vi abitano, sono stati arrestati dopo una manifestazione tenuta in occasione del capodanno tibetano, celebrato il 25 febbraio. Per aver intervistato alcuni monaci nel Quinghai sono stati fermati e interrogati oggi, per 3 ore, due giornalisti italiani.
Robert J. Barnett, un esperto di Tibet intervistato dal Council on Foreign Relations, conferma che il governo è piuttosto «nervoso» per la ricorrenza di domani. Pechino «sperava in una luna di miele» con l'amministrazione Obama dopo la recente visita del segretario di Stato Hillary Clinton, ma le sue speranze rischiano di rimanere disattese se dovesse esplodere di nuovo la situazione in Tibet. I contrasti sul Tibet «potrebbero essere risolti», ma il governo cinese deve fare di più, secondo Barnett, che indica due ordini di problemi, uno dei quali Pechino dovrebbe affrontare subito perché insostenibile:
The easy way for the Chinese to solve it, if they wanted to, is to break the Tibetan problem into two kinds of issues. They should separate the difficult talks about autonomy and the Dalai Lama's status, which they're nervous about, from the easy issues, which are about religion, and migration, and development. Lots of Tibetans in Tibet have told them, "Stop demonizing the Dalai Lama, allow people to practice religion, and regulate the migration of non-Tibetans into the area." That's pretty straightforward. Every other country in the world does that almost normatively. So these are the easy ways it could build up huge political capital very very quickly in Tibet, and that would be welcomed. The question is, does China have the political will that allows the leaders to take that kind of step? I think they will have to do that. It's unsustainable, keeping one-third of your country under military garrison every so often.Ma intanto è ancora in atto la campagna del regime contro il Dalai Lama, dipinto come terrorista e separatista. Il presidente cinese Hu Jintao ha esortato i funzionari tibetani a erigere una nuova «Grande muraglia contro il separatismo».
Oggi pomeriggio, intervenendo alla presentazione del rapporto dello European Council on Foreign Relation sui rapporti tra Unione europea a Cina, il ministro degli Esteri Frattini ci ha spiegato che «dobbiamo considerare la Cina come partner politico e strategico complessivo, non solo economico». Solo così potremo parlare di diritti umani con Pechino: «Se vogliamo avere una prospettiva realistica di incidere sui diritti umani la Cina deve essere un attore con cui si parla di tutto. Credo che su alcune tematiche la Cina sia troppo poco consultata».
Al prossimo vertice Ue-Cina ci sarà «una riflessione congiunta sulla governance non solo economica ma anche politica». In questo modo, «avremo una leva maggiore per ragionare di diritti umani e per favorire una ripresa del dialogo tra i la Cina e i rappresentanti del Dalai Lama». Staremo a vedere, ma a questo dialogo sembrano crederci in pochi.
Intanto, il dissidente cinese Bao Tong, tra i firmatari di Charta '08 ed ex membro del Comitato centrale comunista prima del massacro di Tienanmen, si rivolge ai delegati dell'Assemblea nazionale con una lettera aperta (trad. di Asianews) nella quale avverte che «il potere assoluto del Partito soffocherà il popolo e l'economia».
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