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Friday, February 29, 2008

Come combattere le tentazioni del "tremontismo"

Se ieri è stato un giornale "amico" del PdL, quello diretto da Mario Giordano, a lanciare l'allarme su un programma nelle cui pieghe rischiano di nascondersi proposte di stampo più "fanfaniano" che liberista, oggi è un giornale "ostile", il Corriere della Sera, a criticare duramente la politica economica di uno dei principali estensori di quel programma. E' Francesco Giavazzi, infatti, che nel suo editoriale prende di mira il tremontismo con argomenti che mi sembrano più che fondati.

«Dazi e quote per difendere le nostre produzioni dalla concorrenza asiatica», «protezione delle nostre industrie e dei nostri capannoni», sono solo le frasi più indicative di un protezionismo anacronistico. «Di fronte alla globalizzazione abbiamo bisogno di uno Stato più forte», scrive Tremonti. «Sì, ma per abbattere le rendite e creare più concorrenza, non per sostituirsi al mercato», ribatte Giavazzi.

Il proposito di difendere le nostre imprese nella globalizzazione, e non dalla, è condivisivile. Ma come? Quella a favore del libero mercato, sempre e comunque, anche sotto la pressione della competizione per molti aspetti scorretta della Cina, non è un'opzione ideale, ma di efficienza del sistema. Proteggendo le nostre imprese con dazi e quote sulle importazioni non facciamo loro un favore. Sarebbe come narcotizzarle, perché le abitueremmo a un mercato protetto artificialmente nel quale per difendere le proprie posizioni di rendita non occorre sapersi sviluppare e rinnovare, o quanto meno è sufficiente farlo ad una velocità molto più ridotta di quanto succede là fuori, nel resto del mondo. Ebbene, in poco tempo ce le ritroveremmo sedute, incapaci di sostenere una competizione sempre più globale alla quale non potranno sottrarsi a lungo, visto che non è esclusivamente sul mercato interno che possono pensare di sopravvivere. Le politiche protezionistiche non rafforzano, ma indeboliscono le nostre imprese e il nostro tessuto produttivo.

La cosa migliore che lo Stato può fare per difendere le nostre imprese è invece aiutarle a rendersi più competitive. Quindi, meno tasse sugli utili, così da favorire investimenti in R&S; meno costi e più flessibilità sul lavoro; meno pesantezze burocratiche; una giustizia civile certa e rapida. Bisogna certamente agire anche in sede di Unione europea, ma non per ridurre le politiche a favore della concorrenza. Piuttosto perché l'Europa pretenda dalla Cina la fine di ogni pratica di dumping e il rispetto delle regole di una competizione fair.

Thursday, February 28, 2008

PdL, allarme programma "fanfaniano"

Di segnali preoccupanti ne abbiamo registrati parecchi: dall'evocazione dei dazi sulle importazioni extracomunitarie al piano fanfaniano di edilizia popolare. E certo il trittico Tremonti-Alemanno-Maroni all'Officina per il programma del PdL non è di quelli rassicuranti. Forse sono i tre nomi più riconducibili di tutto il centrodestra a politiche protezioniste e socialdemocratiche. Domani il programma dovrebbe essere noto e giudicheremo.

Intanto, oggi, un altro brutto segnale. Se persino il direttore del Giornale, Mario Giordano, è intervenuto con un suo editoriale, in modo così netto chiedendo un programma liberista, evidentemente i segnali che giungono dall'Officina non devono essere incoraggianti: «Sognavamo la rivoluzione liberale, non possiamo finire a Fanfani. Lo diciamo con un po' di preoccupazione... che sia un programma liberista. L'Italia sta ancora aspettando le riforme della Thatcher, di Reagan, o almeno di Aznar. Adesso sentiamo che in alcuni ambienti del centrodestra si pone come modello Fanfani».

Fanfani fu l'uomo del cedimento, della sconfitta culturale della prima Dc degasperiana, liberale, al catto-comunismo che in economia (e non solo) si poneva in continuità con il fascismo riproponendo come modello prevalente quello assistenziale e corporativo.

Cosa aspettarsi, dunque, da un programma con un simile riferimento? Partecipazioni statali, Cassa del Mezzogiorno, edilizia popolare? Ci spaventano, scrive Giordano, «così come ci spaventano il ritorno del protezionismo e tutto quel parlare di dazi, lo scarso entusiasmo sulle liberalizzazioni e i toni timidi sul fronte della riduzione dello Stato. Se si crede al libero mercato (e noi ci crediamo), non si può smettere proprio adesso. Anche davanti alla crisi. Anche coi cinesi alle porte, la recessione che incombe e i disastri di Prodi da rimediare. Anzi, forse proprio per quello. L'unica via per risollevarsi è un programma liberale. E non si può, su questi temi, lasciare campo aperto al centrosinistra, che fa di tutto per sembrare, con una riverniciatura, due prof e alcuni slogan copiati, il vero garante del liberalismo...».

Wednesday, February 27, 2008

Cultura del "ma anche" e prime castrazioni chimiche

Veltroni ipotizza la castrazione chimica dei pedofili, ma intanto la sperimenta sui radicali. Teorizza infatti la loro normalizzazione e neutralizzazione. Non si può interpretare altrimenti quanto ha spiegato oggi pomeriggio: l'ingresso di 9 esponenti radicali nelle liste del Pd farà sì che questi siano «coinvolti nella cultura del confronto propria del Pd». «Abbiamo compiuto un'importante operazione di coinvolgimento nel nostro progetto di una forza che, se fosse andata da sola, sarebbe stata puramente identitaria e, allora sì, anche laicista». Al Partito Radicale, ha aggiunto, «abbiamo chiesto di accettare la cultura del dialogo». Se ne deduce che adesso, una volta entrati nelle liste del Pd e solo per questo fatto, i radicali non siano più «laicisti» ma veri laici? O forse che prima di entrarvi la «cultura del dialogo» fosse estranea ai radicali?

Da una parte Veltroni fa bene a rivendicare un'operazione coerente con l'opzione del bipartitismo, che per sua stessa natura esclude o marginalizza una politica vissuta in modo «puramente identitario». E dall'altra i radicali hanno fatto bene ad accettare un accordo che va proprio nel senso da loro stessi per lungo tempo auspicato, anche se non se ne sono quasi accorti perché ultimamente abbarbicati ai loro simboli come un "cespuglio" qualsiasi. Tuttavia, attribuendo a questo accordo anche il merito di aver evitato la presenza autonoma di una lista radicale, «allora sì, anche laicista», Veltroni rivela un intento di neutralizzazione dei radicali, che va ben oltre l'obiettivo condivisibile di una politica non identitaria. Vuol dire teorizzare che i radicali nel Pd non siano (o non debbano essere) più gli stessi di prima, cioè i laicisti di sempre, nella sostanza, solo perché nella forma hanno rinunciato a presentarsi in modo identitario.

Veltroni inoltre si lascia andare a espressioni bizzarre e vuote, come «laicità eticamente esigente» (?). Ma che vuol dire? Una laicità che «sostituisca la cultura dell'"aut-aut" con quella dell'"et-et"». Per l'appunto, la cultura del «ma anche». Ma «unire» un Paese non vuol dire tenere insieme, abbracciare tutte le opzioni possibili. Vuol dire sapere «unire» convincendo la maggioranza del Paese della bontà di una direzione, di una visione, di un progetto il cui profilo sia tracciato da scelte, decisioni riconoscibili.

Intanto, Emma Bonino ha subito messo in chiaro, in modo abbastanza sprezzante, che la candidatura di Silvio Viale non viene affatto presa in considerazione: «Non è mai stato nei nostri orientamenti». Dunque, nessun veto da parte di Veltroni, del Pd o dei teodem, nei confronti del "dottor RU486". Il veto viene esercitato direttamente in prima istanza, dai vertici radicali.

E dopo l'incontro di ieri con i vertici del Pd per definire i dettagli dell'accordo Emma Bonino ha precisato, riguardo l'impegno dei radicali per il programma, che «le questioni economiche sono quelle che interessano ai cittadini». Giusto: individuare priorità non significa accantonare alcunché, ma far politica. Peccato che quanti rinfacciano a noi di aver individuato nell'emergenza economica la priorità dei cittadini siano così distratti da non accorgersi che anche Bonino e Pannella se ne sono alla fine convinti.

L'ennesimo scandalo, adesso garanzie per l'accusato

Un altro caso, dopo quelli allucinanti di Garlasco e Perugia (solo per citare i più recenti), sta gettando una luce inquietante sulle capacità investigative e sui meccanismi della giustizia italiana. Sempre più siamo il Paese dei casi, persino banali, irrisolti.

Si tratta del ritrovamento dei due fratelli di Gravina, morti probabilmente di fame e di freddo all'interno di una cisterna interrata. A denunciare la loro scomparsa, nel 2006, il padre, tuttora in carcere accusato di averli uccisi.

Comunque sia andata, per qualunque motivo fossero finiti laggiù, è uno scandalo che i due fratelli non siano stati ritrovati non dico in una settimana, ma nell'arco di un paio di giorni. Il perché è presto detto: i due ragazzi sono morti di fame e di freddo, quindi presumibilmente dopo circa una settimana, nella cisterna interrata di una casa abbandonata a poche centinaia di metri da dove erano stati visti per l'ultima volta. A prescindere dal fatto che si sia trattato di un incidente, o che invece ci troviamo di fronte a un mostro (il padre o qualcun altro) che li ha gettati vivi o moribondi nel cuniculo di 20-25 metri, un "colpevole" lo possiamo indicare con certezza: investigatori e forze dell'ordine.

Non solo, infatti, quella casa abbandonata è a poca distanza dalla pineta comunale e dalla stazione ferroviaria di Gravina in Puglia, il paese in cui i ragazzi abitavano, nell'area retrostante il municipio, ma addirittura si trova a soli 400-500 metri (!) da piazza Quattro Fontane, luogo in cui i due fratelli erano stati visti per l'ultima volta. Non decine di chilometri, ma centinaia di metri. Eppure, le forze dell'ordine e gli investigatori non sono stati capaci di setacciare accuratamente (limitandosi probabilmente a chiamare: "C'è qualcuno?") un'area dal raggio di 500 metri dal punto in cui i due fratelli erano stati visti per l'ultima volta.

Questori, prefetto, procura. A questo punto è lecito persino dubitare che ci siano le condizioni per portare avanti serenamente l'inchiesta a carico del padre dei due ragazzi, ancora in carcere. Il quadro che sta emergendo è tale per cui sugli inquirenti potrebbe legittimamente gravare il sospetto che possano essere mossi dall'intento di dare il "mostro" in pasto all'opinione pubblica, allo scopo di allontanare gli sguardi dalla loro imperdonabile e criminale negligenza. Non dico che con il ritrovamento dei corpi dei due fratelli debbano cadere le accuse nei confronti del padre, ma che i suoi accusatori non possono più essere gli stessi che per manifesta negligenza hanno fallito così clamorosamente nelle ricerche.

I redditi delle famiglie espropriati dallo Stato

Come sa bene chiunque legga con costanza questo blog, non perdo occasione per ribadire la centralità del binomio tasse-spesa pubblica tra i maggiori responsabili del soffocamento dell'economia italiana. Lo Stato si mangia letteralmente la ricchezza prodotta dai cittadini italiani - dai più ricchi ai più poveri. Da oltre 10 anni, con la scusa della necessità di abbattere il debito pubblico, cresce la pressione fiscale, ma il debito rimane sostanzialmente invariato e una quantità crescente di risorse viene invece sperperata nel calderone di un'amministrazione pubblica sulla cui efficienza davvero in pochi si sentirebbero di giurare. Era inevitabile che prima o poi venissero seriamente intaccati i redditi delle famiglie, come ha recentemente illustrato la Banca d'Italia.

Inizialmente, alla diminuzione del loro reddito disponibile determinata dal prelievo fiscale crescente, le famiglie hanno reagito intaccando la quantità di reddito in precedenza destinata al risparmio e poi gli stessi risparmi accantonati, al fine di aumentare comunque i loro consumi, per non vedere peggiorare i loro stili di vita e per non perdere il loro status sociale. Ma non si può continuare a vivere a lungo al di sopra delle proprie possibilità e il punto di crisi sembra arrivato: anche i consumi si sono arrestati.

Uno studio molto accurato di Andrea Moro e Thomas Manfredi, del blog/think tank noiseFromAmerika, conferma con approccio "scientifico" la dinamica che qualsiasi cittadino è in grado di percepire intuitivamente anche senza lauree. Quella tuttora in corso è una vera e propria «espropriazione massiccia di risorse perpetuata dallo Stato negli ultimi 15 anni. Dopo la crisi del 1991-1992 ancora un 85% del reddito disponibile era controllato dalle famiglie. Le punte massime di aumento della "(op)pressione fiscale" si hanno nel 1996-1997 (eurotassa et similia) nel 1999 e nel 2006. Tutti periodi in cui il centrosinistra era al governo, quasi sempre sotto la guida di Romano Prodi. Crediamo che al di là dell'usuale tasso di (op)pressione fiscale questi dati spieghino chiaramente ciò che è successo e sta succedendo in Italia. Da un peso dello stato del 14% nel 1990 si è passati al 24% nel 2006, quasi il doppio, mentre il reddito disponibile alle famiglie per consumi e risparmio è crollato di dieci (10!) punti percentuali nello spazio di un decennio, ed è stabile da allora... Insomma, dopo aver mandato in malora l'azienda con politiche folli e spese pubbliche ancor più folli, gli italiani (invece di riformare il sistema) han deciso di ignorare il fatto che il loro reddito disponibile non cresce da praticamente quindici anni a questa parte! Continuano a far crescere allegramente i loro consumi, mangiandosi il capitale che avevano precedentemente accumulato».

La stagnazione dei redditi, concludono Moro e Manfredi, «deriva certamente dalla magra dinamica della produttività, tesi giustamente supportata da Draghi... Ma il contributo negativo dell'(op)pressione fiscale, oltre a poter essere (per gli incentivi che distrugge) concausa della scarsa crescita della produttività, ha anche pesato direttamente sul reddito disponibile della famiglie. Si potrebbe arguire, con spirito da mero contabile, che con un debito pubblico così alto non ci fosse altra soluzione possibile che quella di reperire risorse per abbatterlo. Dopo anni in cui a più tasse è seguita solo e soltanto più spesa (che ha raggiunto il 50,1% del PIL (!!!) nei dati ISTAT più recenti), con un debito pressoché immutato (106% del PIL), noi crediamo che ammazzare il paziente febbricitante con dosi massicce di tax and spending, invece di stimolarlo con misure di libertà economiche (taglio della spesa pubblica, liberalizzazioni, privatizzazioni, taglio delle aliquote marginali) si sia rivelata la più miope delle politiche».

Mai come oggi è corretto sostenere che lo Stato è il problema, non la soluzione. Per questo rimango convinto della vitale necessità di una drastica cura dimagrante per lo Stato, da ottenere con una ricetta nota da tempo ma ancora valida: "affamando la bestia". Partendo cioè da un radicale taglio delle aliquote fiscali e - perché no? - come propone Decidere.net, con il passaggio progressivo, in 5 anni, ad un'aliquota unica (flat tax) del 20%, il cui costo iniziale verrebbe coperto da una riduzione della spesa pubblica dell'1% annuo (5% in 5 anni), che equivale ad una riduzione della spesa pubblica complessiva, calcolata in rapporto al Pil, dello 0,4% annuo (2% in 5 anni, dal 51 al 49%). E' necessario e urgente, ma anche fattibile. Eppure, mi pare che i programmi dei due maggiori partiti, Pd e PdL, non siano all'altezza della sfida.

Tuesday, February 26, 2008

Ichino nel Pd viene già lasciato solo

Da Ideazione.com

Il Partito democratico candida il giuslavorista Pietro Ichino, lo espone alla violenza verbale della sinistra comunista e lo lascia solo, ignorando nel programma elettorale le sue proposte. "Ichino è bravo e darà sicuramente un grande contributo, ma il programma del Pd contiene delle cose diverse dalle sue", rispondono al Loft. Tiziano Treu è dovuto intervenire per ricordare che lo studioso parla a titolo personale. Lo stesso Ichino ammette, nell'intervista rilasciata ieri a l'Unità che ha dato luogo alle reazioni più infiammate, che nel Pd c'è sì un consenso di massima sulla «flexicurity», ma «con idee e proposte diverse sul come». E «condurle a una sintesi operativa sarà l'impegno dei prossimi mesi». D'Alema, sprezzante come al solito, chiude così il caso Ichino: «E' intelligente, coraggioso e creativo. Fare il commentatore, però, è diverso che fare il politico». Insomma, la candidatura di Ichino dà credibilità al riformismo veltroniano, ma nel programma del Pd le sue proposte non ci sono.

Anche il programma del PdL, dalle anticipazioni fin qui pervenute, sembra ignorare il grande tema del mercato del lavoro, come se la pur ottima Legge Biagi (solo una parte delle idee del professore ucciso dai terroristi comunisti) fosse esaustiva. Giuliano Cazzola, intanto, su L'Occidentale si chiede perché Ichino non sia stato candidato da Berlusconi. Sarebbe stata la personalità più idonea ad occupare il posto che fu di Marco Biagi nel Governo Berlusconi. Sarebbe stato un invito "alla Sarkozy", cioè nell'ottica del superamento del rigido schema destra/sinistra a vantaggio di un approccio riformatore che si vorrebbe bipartisan.

Ma «se il Cavaliere non ha colto l'occasione - ragiona Cazzola - una ragione ci deve essere. Basta scorrere le prime anticipazioni del programma del PdL che girano al largo delle tematiche "dure" del lavoro. Per non parlare – solo per carità di patria – della polemica di Giulio Tremonti contro la globalizzazione». Così in questa campagna elettorale che si sta aprendo sia il Pd che il PdL rinunceranno a parlare con chiarezza agli italiani e chiunque vincerà le elezioni non potrà farsi forte della legittimazione necessaria per realizzare le coraggiose riforme che servirebbero nel mercato del lavoro.

Intanto, il giuslavorista continua a subire dai comunisti della "Cosa rossa" una demonizzazione purtroppo persino peggiore di quella che la Cgil di Cofferati riservò a Marco Biagi. Ma qual è la pietra dello scandalo? Udite udite: il prof. Ichino propone di risolvere il problema della precarietà nell'unico modo possibile: praticamente abolendo l'articolo 18 del vecchio Statuto dei lavoratori.

Le attuali tutele della stabilità del posto di lavoro, osserva Ichino su l'Unità, «si applicano soltanto a 3,6 milioni di dipendenti pubblici e a 5,8 milioni di dipendenti di aziende private sopra i 15 dipendenti. In tutto, circa 9 milioni e mezzo, su di una forza-lavoro di oltre 22. Restano fuori quasi altrettanti lavoratori in posizione di dipendenza: non solo quelli delle piccole imprese, ma anche i collaboratori autonomi, i lavoratori a progetto, gli irregolari. Questo dualismo, questo regime di apartheid è la grande ingiustizia del nostro sistema attuale di protezione. Poi ci sono gli esclusi totali».

Quella «metà non protetta dei lavoratori... porta sulle spalle tutta la flessibilità di cui il sistema ha bisogno; mentre nella metà protetta l'inamovibilità genera inefficienze gravi e anche posizioni di rendita inaccettabili. Il precariato permanente è l'altra faccia dell'inamovibilità dei "lavoratori regolari"». E' più facile divorziare che porre fine a un rapporto di lavoro dipendente. «Più questi sono inamovibili - spiegava Ichino in un suo editoriale di qualche tempo fa - più è difficile, talvolta impossibile, accedere al lavoro stabile e protetto per quelli che stanno ancora fuori della "cittadella". È quello che gli economisti chiamano mercato del lavoro duale».

La causa della precarietà sta nel fatto che solo una piccola fetta dei lavoratori, gli outsiders non garantiti, sopporta il peso e i rischi della flessibilità dei contratti cosiddetti "atipici". Per ridurre la precarietà bisognerebbe "spalmare" quel rischio, riequilibrare l'area delle tutele, riducendola agli insiders ultragarantiti che continuano a usufruire di una stabilità anacronistica, che neanche tiene conto del merito, ed estendendola agli outsiders.

Ma come? Se si esclude l'abolizione per legge della flessibilità, un sogno della sinistra comunista, che condannerebbe i giovani al lavoro nero o alla disoccupazione, i rimedi fin qui tentati si sono limitati a «spostare qualche precario tra i protetti» e a «dare qualche modesto contentino ai molti condannati a restar fuori». Politiche cui sono ricorsi abbondantemente sia il centrodestra che il centrosinistra in questi anni, spesso aumentando la spesa pubblica.

Se si vuole davvero combattere efficacemente questo «apartheid» nel lavoro, «la strada è una sola», avverte Ichino: un «contratto unico a tempo indeterminato per tutti i lavoratori dipendenti, ma a stabilità progressiva», che preveda cioè «una protezione della stabilità crescente con il crescere dell'anzianità di servizio», e «disciplinato in modo che siano garantite la necessaria fluidità nella fase di accesso al lavoro dei giovani e una ragionevole flessibilità nella fase centrale della vita lavorativa». E che tutti ne portino il peso in ugual misura (outsider, insider, imprese): in poche parole, rendere un po' più instabile chi è dentro per rendere un po' più stabile chi sta entrando.

Dopo un periodo di prova di sei/otto mesi (con un forte sgravio contributivo sotto i 26 anni), l'articolo 18 si applicherebbe soltanto ai licenziamenti disciplinari, discriminatori o di rappresaglia. Per quelli dettati da esigenze aziendali, invece, sarà soltanto il costo del provvedimento, l'indennizzo, a tutelare il lavoratore, penalizzando l'impresa che ne faccia abuso: «Chi perde il posto senza propria colpa ha sempre automaticamente diritto a un congruo indennizzo, crescente con l'anzianità di servizio in modo che la protezione sia più intensa nella parte finale della vita lavorativa; e ha diritto a un'assicurazione contro la disoccupazione disegnata secondo i migliori modelli scandinavi, con premio interamente a carico dell'impresa, che si aggrava al crescere del numero dei licenziamenti». Così Ichino riproduce nella sostanza l'effetto che avrebbe avuto il referendum proposto nel 2000 dai radicali.

Minori tutele sul posto fisso degli insider, tagliare i vincoli ai licenziamenti, in modo che le aziende possano liberare risorse oggi "sequestrate" da interi settori o singoli dipendenti improduttivi e investirle su personale giovane e qualificato. Oltre a essere flessibili ma meno "precari", i primi contratti di lavoro per i giovani sarebbero anche più sostanziosi e allettanti.

E' proprio questo che intende anche il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, quando suggerisce di «ripartire più equamente i costi derivanti dalla maggiore flessibilità» e indica «modi, sperimentati anche in altri paesi, per contemperare le esigenze di imprese competitive con le aspirazioni dei lavoratori che entrano nel mercato, con i bisogni di stabilità e crescita professionale di coloro che già vi sono».

Gli studi dimostrano infatti, che esiste una correlazione tra la rigidità del mercato del lavoro e i bassi salari. In Italia si registrano i livelli salariali più bassi tra i principali Paesi Ue, in particolare nelle mansioni più qualificate. Il posto fisso lo paghiamo con una busta paga leggera, ma soprattutto, l'inamovibilità degli ipertutelati è causa della precarietà e pesa sulla busta paga - di 800 euro, quando va bene - dei lavoratori flessibili.

Monday, February 25, 2008

Dal declino con Berlusconi al decesso con Prodi

I dati che stanno emergendo in questi giorni lasciano poco spazio a dubbi. Neanche due anni di Governo Prodi, sostenuto principalmente dal Pd oggi guidato da Veltroni, lasciano il Paese in condizioni peggiori di come lo lasciava Berlusconi nel 2006.

I dati sull'inflazione diffusi dall'Istat (2,9%), mai così alta da sette anni a questa parte; le stime della Commissione Ue sulla crescita per il 2008, che ci vede ultimi tra i Paesi europei con il Pil in picchiata verso lo zero; i salari più bassi d'Europa; il dato confortante delle esportazioni che a questo punto c'è da temere sia dovuto alla crisi del mercato interno; e, oggi, il dato dell'Eurispes sull'inflazione reale all'8%. Dal 2001 al 2005, spiega il presidente dell'Eurispes, Gian Maria Fara, «abbiamo calcolato una crescita complessiva dell'inflazione del 23,7%. Dopo una fase di stasi l'inflazione ha ripreso a crescere nel corso del 2006 e 2007 a una media del 5% e ha registrato negli ultimi mesi del 2007 e in questi primi mesi del 2008 una nuova fiammata fino all'8%. In considerazione di questo andamento la perdita media del potere d'acquisto tra le diverse categorie si è ormai attestata intorno al 35 per cento».

Fattori esterni? Non solo, soprattutto una crisi di produttività: la nostra economia è al tappeto, non crea ricchezza e quindi i salari non crescono. Tasse, rigidità dei mercati, debito pubblico ci soffocano.

Come fanno gli italiani ad arrivare alla fine del mese? Moltissime coppie, soprattutto le più giovani, sono costrette a farsi ancora aiutare dalle famiglie di origine, cui non rimane altro che diventare «erogatori di servizi» per i propri figli offrendo, per esempio, lavoro di cura per i nipotini, facendo la spesa, ecc. In molti altri casi, invece, il reddito delle famiglie viene integrato ogni mese con 1.330 euro "in nero".

Qualcuno (tra gli ex radicali?) fa notare che siamo passati dal «declino» con Berlusconi al «decesso» con Prodi. Chi risponde politicamente di questa situazione? Prodi, Visco e Padoa Schioppa si sono fatti da parte, sono scomparsi, ma i partiti che lo hanno sostenuto sono ancora lì e sorridono. Stanno facendo finta di niente. Il Pd si presenta con il volto sereno e furbastro di Veltroni, ma oltre ad aver tenuto in piedi quel governo fino all'altro giorno e a riempire le sue file al 70%, oggi ne difende persino l'operato, non spiegando come mai nessuno dei protagonisti viene ripresentato.

Programma PdL, puzza di interventismo e protezionismo

L'intenzione di Berlusconi, a nostro avviso saggia, è di evitare ogni accusa di annunci impossibili: «Il programma deve dare l'idea non della Luna a portata di mano, ma di un lavoro già iniziato da compiere, perché Prodi l'ha interrotto». Sintetizzava così, sabato, Oscar Giannino, anticipando su Libero il «decalogo di Silvio» e rivolgendosi direttamente a Berlusconi con un'altrettanto saggia richiesta: «Miracoli non ne vogliamo, caro Cavaliere. Ci basterebbe che non rifacesse gli errori di allora, mica sarebbe poco».

Tra i punti convincenti e positivi di questo programma che sta, forse persino troppo, con i piedi per terra, c'è tutta la parte riguardante le tasse (federalismo fiscale; pressione complessiva sotto il 40%; l'abolizione dell'Ici sulla prima casa e dell'Irap; la detassazione di tutte le parti variabili del salario; versamento dell'Iva solo a incasso avvenuto delle fatture; rimborsi dallo Stato in tre soli mesi; studi di settore non più fissati dall'alto; detassazione totale per tre anni per tutte le nuove imprese create da giovani e al 5% per i successivi tre anni). Poi, le privatizzazioni, soprattutto delle municipalizzate, e il rilancio delle infrastrutture, tra cui la Tav, il Ponte di Messina e i termovalorizzatori.

Illusorio ci è parso l'abbattimento dei mutui bancari attraverso un "tavolo" tra banche e consumatori, mentre troppo vaghi i tagli alla spesa pubblica, indicati nell'ordine di 3-4 punti di Pil in una legislatura, da realizzare per lo più tramite la digitalizzazione, senza intervenire sugli organici. Il che fa temere che non si realizzerà una vera e propria cura di dimagrimento dello Stato. Ma è la parte fiscale la più convincente, senz'altro più robusta rispetto alle proposte di Veltroni.

Tuttavia, non mancano parti molto, molto negative, che ha ben evidenziato Franco Debenedetti, su Il Sole 24 Ore di domenica, definendo il programma del PdL (e del Pd) «più alla Ségolène che alla Sarkozy». Il giudizio di Debenedetti è allarmante e purtroppo, ad una prima occhiata, fondato: «Colpisce l'aria di interventismo, si direbbe di conformismo socialdemocratico che viene dalle oltre cento voci raggruppate nel "decalogo di Silvio". In cui la minuzia delle proposte rivela l'assenza di una visione complessiva del Paese, adeguata a far da leva per suscitare le motivazioni necessarie a farci uscire dalla difficilissima situazione, tra bassa crescita e alta inflazione, in cui ci troviamo».

«Dazi e quote» da chiedere a Bruxelles per «difendere» la nostra «produzione»; edilizia popolare a canone controllato (e tutti sappiamo chi sarà ad usufruirne davvero, distorcendo ulteriormente il mercato degli immobili); la Banca del Sud, con il ritorno dello Stato nel mondo bancario, magari attraverso la Cassa depositi e prestiti; non un parola sul mercato del lavoro e sui criteri di selezione e retribuzione dei docenti universitari, vero nodo dello sfascio delle nostre università.

Insomma, pare di capire, ci sono nel programma del PdL «proposte che suonerebbero datate a sinistra». Occorrerà appronfondire in modo critico e severo.

Saturday, February 23, 2008

Berlusconi scivola, Veltroni colpisce

Errore blu di Berlusconi, ieri sera a Matrix, (non il primo di questa campagna, a nostro avviso). Ripete più o meno quello che ha sempre detto: larghe intese in caso di pareggio alle elezioni. D'altronde è ciò che propose a Prodi subito dopo il pareggio del 2006. Sappiamo come andò. L'errore però sta nel fatto che in campagna elettorale di pareggio non si deve nemmeno parlare, soprattutto se il Cav. stesso diffonde sondaggi che danno PdL più Lega al 46%.

I giornali ci mettono del loro, ingigantendo e facendo passare l'idea che Berlusconi miri al pareggio. E così l'abile Veltroni ha modo di affondare il colpo: «Larghe intese? È stato un errore non farle prima», ribatte riferendosi al tentativo esplorativo di Marini dopo la caduta del Governo Prodi: «Prima dice [Berlusconi, n.d.r.] che non c'è bisogno di fare campagna elettorale perché convinto che loro hanno già vinto, poi in tv aggiunge che in caso di pareggio si dovranno fare larghe intese. Allora c'è qualcosa che non funziona...».

Dunque, tra i giornali che hanno cominciato a giocare sporco (anche montando casi inesistenti come quello della candidatura di Aida Yespica), e Veltroni che si conferma un gran furbo, c'è l'errore di Berlusconi, che si presenta con i soliti sondaggi trionfanti ma poi ipotizza il pareggio e lascia intendere di non puntare a stravincere, ma che si accontenterebbe del pari (che i sondaggi non siano così trionfanti?).

A nostro modesto avviso è un errore, perché in qualsiasi competizione puntando a pareggiare, o anche dando questa impressione, o anche dando ai propri avversari l'occasione di farlo credere, si rischia di perdere.

Il problema è che il Cav. deve decidersi una volta per tutte. Gli conviene che la sua vittoria sia percepita dagli elettori come scontata, come forse è, oppure introdurre un margine di incertezza, per non rischiare una scarsa mobilitazione dei suoi?

Nel frattempo, tra le mille-proproghe questo governo e questa maggioranza mettono in atto l'ultimo furto. Avete presente le multe dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale per la mancanza del nome del vigile autore dell'atto? Ebbene, la loro validità è stata prorogata fino all'1 giugno. Dovrebbe essere illegittima anche la misura di proroga, ma intanto le vittime dovranno o pagare o ricorrere contro la proroga. PdL, sveglia!

Friday, February 22, 2008

Va di lusso ai radicali

[Premessa: i radicali godono di un'ottima copertura mediatica. Pensate cosa si sarebbe detto se fosse stato Mastella a chiedere 15 seggi e 5 milioni di euro per concludere un accordo elettorale, senza alcun riferimento e preoccupazione per il programma da sottoscrivere. Comunque, una volta, un paio di anni fa, la sola presenza dei radicali sarebbe stato per me motivo sufficiente per appoggiare e votare qualsiasi lista in cui si fossero trovati. Non più oggi, alla luce dell'esperienza del Governo Prodi. Sarà bene ricordare che qui non ci si era illusi che Prodi potesse realizzare quelle riforme liberali necessarie al nostro Paese, ma si confidava nel fatto che i radicali (almeno loro, se non i socialisti dello Sdi) in Parlamento, e per la prima volta al governo, non avrebbero rinunciato a denunciarne gli errori e a rilanciare l'alternativa liberale, non appiattendosi, invece, su qualsiasi scelta governativa per accreditarsi come "affidabili"; insomma, che costituissero una garanzia. Non hanno avuto il coraggio di porre alcuna questione come pregiudiziale politica, nemmeno nel caso dell'esclusione dal Senato. Certo, all'opposizione (com'è probabile che si troveranno dopo queste elezioni) sarà più facile per loro non appiattirsi sulle posizioni del Pd e di Veltroni - e spero in un loro rilancio - ma per me vale l'atteggiamento remissivo e il mediocre livello degli eletti fin qui dimostrati, che proprio da loro non mi sarei mai aspettato.]

Oggi sul nuovo Ideazione quotidiano:

Nove deputati; un ministro in caso (remoto) di vittoria del Pd; 3 milioni di euro in 5 anni (600 mila l'anno); qualche spazio in tv. E passa la paura. Emma e i ragazzi si sono sistemati, l'hanno vinta sul Papà-Pannella che avrebbe voluto continuare a coltivare il sogno di una battaglia solitaria contro tutti, contro “Veltrusconi”. Ma dopo aver gettato al vento occasioni d'oro - come nel biennio 1999-2001, in seguito a quel grande successo dell'8,5 per cento preso alle elezioni europee - negli ultimi anni Pannella si è piegato ad un paterno realismo, pensando anche al futuro dei suoi “ragazzi”. Una signora offerta quella del Pd, di quelle che non si possono rifiutare, anche considerando che l'alternativa era restare di nuovo fuori dal Parlamento. E i radicali, con lo stile che li contraddistingue, si sono persino permessi di accettarla mostrando di turarsi il naso (“Ci assumiamo la responsabilità di subire l'impostazione alternativa di inserimento di candidati radicali nelle liste del Pd, nonostante continuiamo a ritenerla meno efficace”). Ma non c'è ombra di dubbio che quella di ieri notte sia stata la decisione più sensata. Rimane un mistero, infatti, come un partito che ha sempre fatto del bipartitismo una bandiera, proprio oggi che le scelte di Veltroni e Berlusconi sembrano favorire la tendenza verso quel tipo di sistema, potesse impuntarsi come un cespuglio qualsiasi sulla visibilità del proprio simbolo sulla scheda elettorale.

Il vero dissidio, tra Emma e Marco, si è consumato all'inizio...


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Thursday, February 21, 2008

Berlusconi pensa alla giuria popolare

Sarebbe un interessante scossone assestato al mondo dell'elenfantiaca, inefficiente e illiberale giustizia italiana, se si concretizzasse nel programma del PdL la proposta di cui parla oggi Verderami sul Corriere della Sera: «Una corte con un presidente e nove giudici popolari: ecco il "modello liberale di giustizia" che Berlusconi ha in mente, è questo il progetto inserito» tra le proposte che verranno esaminate in questi giorni nelle riunioni sul programma del PdL.

Berlusconi si appresterebbe a inserire il progetto della giuria popolare, un'idea del forzista Pecorella, tra i provvedimenti da varare nei primi "cento giorni" di governo. Una mossa destinata quanto meno a sparigliare e a far discutere. La giuria — scelta con la tradizionale formula dell'estrazione — sarebbe chiamata a giudicare casi gravi, con pene superiori ai 5 anni di detenzione, non in processi legati a reati finanziari, fiscali, societari, dove occorrono specifiche competenze.

Non più le leggi ad personam - tra le quali comunque ce n'era qualcuna sacrosanta - ma un'altra visione della giustizia, un'altra cultura giuridica, di stampo anglosassone. Ma nel programma del PdL dovrebbero esserci anche l'inappellabilità delle sentenze di assoluzione e la riforma del processo civile, uno dei problemi più gravi della giustizia italiana, che ha pesanti effetti negativi anche sull'economia e la libertà d'impresa.

Contro-appello: Tony Blair for Europe!

Il partito "No Blair" cresce in Europa. Lo riportava ieri il Guardian, ripreso oggi sia da Corriere che da Repubblica. Ed è on line persino una petizione contro la nomina dell'ex premier britannico alla presidenza dell'Unione europea, un mandato la cui durata il nuovo Trattato di Lisbona porta da sei mesi a due anni e mezzo.

Il principale ostacolo sarebbe il suo filoamericanismo e l'appoggio dato alla guerra in Iraq, nonostante Blair sia stato tra i premier britannici più europeisti di sempre, come gli ha riconosciuto anche il presidente francese Sarkozy. Su una sua possibile candidatura alla guida dell'Ue anche i governi dei maggiori Stati europei si dividono: Francia e Italia (se dovesse tornare Berlusconi a Palazzo Chigi) a favore; Germania e Spagna (se dovesse rimanere Zapatero alla Moncloa) contrarie.

«Fermare Blair» sembra essere diventata la missione che a diversi livelli condividono l'establishment di Bruxelles, alcune capitali europee e parte dell'opinione pubblica "europeista", quella statalista, protezionista e anti-americana, sospettosa delle istituzioni e del modello economico e sociale anglosassone.

In Italia nasce oggi un'iniziativa di segno opposto, lanciata da Formiche.net e da Antonio Polito, e sostenuta da Decidere.net: un appello pro-Blair, «L'Europa ha bisogno di Tony Blair». Di seguito le argomentazioni dell'ex senatore del Pd Polito, che sottoscriviamo in pieno.
L'Europa ha bisogno di Tony Blair più di quanto Tony Blair abbia bisogno dell'Europa. Sulla scena mondiale l'Europa continua a non esistere come soggetto forte. La crisi del Kosovo ha confermato che è inutile lamentarsi dell'assenza di una politica estera dell'Europa se non c'è una leadership che la affermi. L'Europa ha bisogno di un numero di telefono, quello che Kissinger lamentava di non conoscere quando aveva bisogno di parlare con l'Europa.

Tony Blair è un europeista. Mai prima di lui la Gran Bretagna aveva giocato un ruolo tanto centrale in Europa, ed è l'unico uomo politico che può sperare di tenere la Gran Bretagna dentro l'Europa. A meno di non pensare che si possa fare l'Europa senza Londra, questa è una condizione essenziale per il successo del progetto. Tony Blair ha svolto un ruolo da protagonista sulla scena mondiale in questi anni. Ha fatto la pace in Irlanda, non solo la guerra in Iraq. Ha salvato dal genocidio i musulmani del Kosovo, non ha solo combattuto i fondamentalisti islamici in Medio oriente. E forse la storia rivedrà anche il suo giudizio sulla guerra in Iraq, se i popoli di quel paese riusciranno - come stanno cominciando a fare - a convivere tra di loro e a espellere il terrorismo.

Tony Blair è stato un uomo di sinistra che ha saputo lavorare con leader di destra, elaborando una strategia di modernizzazione delle nostre società in cui le vecchie divisioni ideologiche tra destra e sinistra non hanno più senso. Tony Blair è l'uomo che più di tutti i leader europei può rappresentare un ponte con l'America, chiunque sia il prossimo inquilino della Casa Bianca. Rinunciare a lui per preferirgli un oscuro politico solo più ossequioso dell'euroburocrazia, vorrebbe dire non credere al futuro dell'Europa fingendo di credervi molto più di lui.

Rendersi irricevibili per apparire irrinunciabili

Qui si è sempre stati certi che alla fine l'accordo Pd-Radicali si sarebbe fatto. Conviene troppo ad entrambi. Ieri, invece, i principali organi di informazione diffondevano segnali negativi sull'esito della trattativa. Interpretavano male quel rilancio di Emma Bonino (15 eletti e 5 milioni di euro) che invece ha centrato in pieno l'obiettivo di rivelare il reale interesse di Veltroni. Domani comunque, su Ideazione.com, un mio commento sull'intera vicenda.

Prima che si concludesse, a notte inoltrata, la riunione della direzione radicale, Il Foglio metteva in prima pagina per il giornale di oggi una riflessione acuta su quella straordinaria abilità dei radicali, e di Pannella, di uscire da queste situazioni come gli irricevibili eppure irrinunciabili culturalmente: «Il vittimismo pannelliano come arte che trascende le leggi della politica». E comunque vadano le cose, almeno sul momento, sembra sempre un successo, per lo meno d'immagine:

«C'è vittimismo e vittimismo. Quello dei radicali è una categoria della politica con un proprio fondamento storico, quasi teologico, e un ritorno d'immagine esemplare. E' un'arte della fuga - a volte simulata che vale al contempo come il più sonante richiamo identitario. Il mancato apparentamento con il Partito democratico veltroniano è un caso di scuola. Dietro l'estenuante sciabordìo di Emma Bonino sulla battigia veltroniana, c'è la mirabile strategia di Marco Pannella: rendersi irricevibili e poi costruire sul rifiuto ottenuto la propria cattedrale del martirio, depositandovi le reliquie della vittima radicale. Nota bene: estromessi o no dai democrat, i pannelliani sono in ogni caso bersaglio di un veto, quantunque non esplicito se non nella parole in libertà di Paola Binetti. Insomma il Pd non vuole grane con il Vaticano e, per autodisciplinarsi e chiudere il portale dell'apparentamento, non ha neppure bisogno che qualcuno glielo vada a dire. Giusto o sbagliato è la politica.
(...)
Marco Pannella. E' lui il teorico del vittimismo (anche corporale) come arma di persuasione collettiva. Ed è stato lui a concepire quella richiesta inaccettabile con la quale i Radicali si sono avvicinati al loft promettendo in cambio di sottoscrivere programma e regole di comportamento. Quale richiesta? Qualcosa come quindici parlamentari più non si sa bene quanti aiuti finanziari. Tutto naturalmente sotto la luce del sole, come nel consueto e irreprensibile stile pannelliano... E' un successo e lo è a prescindere dall'esito della trattativa. Perché il negoziato scorreva da giorni sul letto di un'irrinunciabilità culturale, impersonata da Pannella e dai suoi, che travalica i dettagli del politicismo per diventare patrimonio nazionale. Ecco il segreto dei radicali: essere divenuti credibili, ogni qualvolta si manifesta il pericolo della solitudine elettorale, nel presentarsi al pubblico o agli interessati come un sovrappiù la cui assenza impoverisce. Se poi l'accordo si trova è grazia che cola, sennò è meglio: soli contro la casta, soli contro le televisioni addomesticate dalla nuova par condicio bipartitica (Pd-Pdl), soli contro i ricchi e i soliti politici mai privi di domicilio parlamentare...»

Israele si prepara al peggio su due fronti: Iran e Hamas

Oggi sul nuovo Ideazione quotidiano.

Anche se ultimamente un po' oscurato dalla campagna elettorale nostrana, il Medio Oriente rimane l'area più a rischio e sempre in procinto di esplodere del pianeta. E le due questioni all'ordine del giorno nei prossimi mesi, settimane, o giorni, si chiamano Iran e Hamas, quasi del tutto oscurati dai media ultimamente. E così passa sotto silenzio, oggi, che un bambino israeliano di otto anni abbia perso una gamba perché un missile è entrato nel suo salotto. Non passerà sotto silenzio, invece, la reazione a cui prima o poi Israele sarà costretto per porre fine al lancio quotidiano di decine di missili Qassam dalla striscia di Gaza. Il fatto della scorsa settimana è l'attentato in cui è rimasto ucciso a Damasco, in Siria, Imad Mughniyeh, comandante militare di Hezbollah. Un terrorista feroce, responsabile di rapimenti, stragi di massa, attentati kamikaze, e per questi atti noto ai governi occidentali fin dagli anni Ottanta. Su di lui l'Fbi aveva posto una taglia di 5 milioni di dollari, ma è improbabile che l'artefice della sua uccisione si presenti a incassarla. Naturalmente, la reazione di Iran, Siria ed Hezbollah è stata veemente e indirizzata contro Israele. Hanno minacciato vendetta e messo nel mirino il premier israeliano Olmert e il ministro della Difesa Barak [...]

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Tuesday, February 19, 2008

La campagna anti-abortista mina vagante per il PdL

Quanto sia dannoso per il PdL inciampare sul tema dell'aborto lo dimostra l'insistenza con la quale quotidianamente il Corriere della Sera si sta sforzando di renderlo centrale nella campagna elettorale, apparendo persino come il più autorevole sponsor della lista di Ferrara. Berlusconi e Fini sembrano essere consapevoli dei rischi che corrono e infatti oggi sembrano voler negare a Ferrara l'apparentamento con il PdL, e di conseguenza anche la sua candidatura al Campidoglio.

Non solo la posizione anti-abortista in sé, ma anche i toni punitivi e laceranti di Giuliano Ferrara sono in grado di bruciare elettoralmente chiunque vi si avvicini, se è vero - com'è vero - che la metà di quel 30% di elettori ancora indecisi è composto da donne. Mieli lo ha capito e anche oggi, dopo quello di Battista qualche giorno fa, c'è un editoriale sul tema dell'aborto firmato da Claudio Magris, che cita il "laico" Norberto Bobbio. Né si capirebbe altrimenti l'interesse del Corriere per una lista, quella di Ferrara, che si candida a entrare in Parlamento, l'assemblea legislativa, senza proporre sul tema specifico né una nuova legge né una modifica di quella esistente. «Visto che nessuno vuol toccare la legge 194, non ha senso presentare una lista elettorale che si proponga di andare al Parlamento solo per non fare leggi», come osserva lo stesso Magris.

E' come se Maurizio Costanzo presentasse una "Lista per il Ponte sullo Stretto" ma solo per sensibilizzare l'opinione pubblica, senza proporre un progetto per realizzarlo concretamente e, magari, più velocemente e a costi ridotti. Tra le tante urgenze del Paese, permetterete, ci sono fatti e dibattiti ben più rilevanti.

L'economia - tasse, spesa pubblica, lavoro, salari, riforme - è il tema destinato a rimanere saldamente al centro della campagna elettorale. Poi ci sono due temi, importanti ma marginali, uno dei quali in grado di mettere in difficoltà il PdL - l'aborto, appunto - e l'altro il Pd. Si tratta della politica estera, che rimane un tema ostico per il Pd, mentre esalta l'unità del PdL.

Certo, correndo da soli i Democratici si sono liberati della sinistra massimalista e anti-americana. Nel Pd nessun leader, dirigente o militante oserebbe dirsi pregiudizialmente contrario alle missioni internazionali o all'uso della forza. Ma anche se sulla politica estera il Pd sembra ormai aver acquisito una certa compattezza al proprio interno, il tema rimane spinoso a livello elettorale. Dovendo infatti allargare il proprio bacino di voti al centro senza perderne a sinistra, una linea troppo interventista potrebbe infastidire gli elettori più "pacifisti"; viceversa, una linea troppo ambigua e molle, potrebbe non bastare per convincere gli elettori di centro.

Anche i radicali Pannella & Bonino sembrano essersi convinti che pur rimanendo temi importanti quelli dell'aborto e della laicità, tuttavia in questo momento la priorità è l'emergenza economica.

Come pensano i radicali di convincere Veltroni a fare coalizione con loro?
«Diremo: mettiamo al centro del programma due temi. La giustizia e le riforme economiche e strutturali richieste da Bankitalia, dalla Ue, dal Fondo monetario internazionale e dall'Osce, riforme come quelle sollecitate dagli economisti Ichino e Boeri».
Quindi, nessuna pregiudiziale laicista?
«Non chiediamo giuramenti laicisti. Non possiamo pretendere che Veltroni e Rutelli si mettano a fare i laici...»
(Marco Pannella, Corriere della Sera, 13 febbraio)

«Non è vero che i temi eticamente sensibili debbano essere espunti dalla campagna elettorale... pur essendo inteso che anch'io condivido che l'urgenza del nostro Paese è soprattutto, in questo momento, quella delle riforme economiche, oltre che di quelle del "sistema Paese", o partitico in generale».
(Emma Bonino, Radio Radicale, 18 febbraio)

Tornando all'aborto, nel merito, l'editoriale di Magris è a tratti imbarazzante. Innanzitutto, non si capisce perché dirsi atei sia in sé dimostrazione di «tracotanza». Poi, è inesatto dire che la donna «dispone di una vita altrui». Dispone di una nascita. C'è un diritto alla vita, ma c'è anche un diritto alla nascita? No, non può esserci, perché può piacere o meno, ma è la donna che accettando di far crescere un altro essere vivente all'interno del suo corpo detiene il "potere di nascita". Capisco che chi crede che la vita sia un dono che viene direttamente da Dio, di cui la donna è solo un mezzo, possa obiettare.

Ma la realtà è che per garantire davvero un «diritto alla nascita» lo Stato dovrebbe commettere un sopruso, un atto di violenza totalitaria sul corpo della donna, fatto ancora più aberrante. Da questo vicolo cieco non si esce. Al centro delle preoccupazioni del legislatore in uno Stato laico ci sono gli individui, non Dio.

Si tratta, è vero, di una «scelta sempre dolorosa», perché non troverete una sola donna che decida per capriccio se divenire o meno veicolo di una nuova vita. Si può parlare di doveri rispetto alla vita nascente, ma non si può parlare di due «diritti incompatibili» tra di loro. Fino al momento della nascita il corpo è uno, quello della donna, l'unico cittadino della situazione a godere di diritti. L'altro organismo è in simbiosi con esso, ma i due formano un tutt'uno sul quale ha più senso che decida la donna piuttosto che lo Stato.

Un'altra affermazione che da laici e liberali proprio non ci convince, tra quelle di Bobbio riportate da Magris, è che per un laico possa essere «valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non uccidere"». Se il "non uccidere" fosse davvero inteso «in senso assoluto, come un imperativo categorico», non solo nessuna guerra - neanche quella che ha liberato l'Europa dal nazifascismo - sarebbe giustificata, ma non lo sarebbe alcuna legittima difesa di fronte a un'aggressione. Nel nome di una pretesa, astratta in quanto assoluta, "sacralità della vita" si giustificherebbero l'assassinio e la violenza, l'oppressione dello Stato sull'individuo.

Monday, February 18, 2008

Scoppia la grana Di Pietro

Sono trascorsi pochi giorni da quando Veltroni ha annunciato l'apparentamento con L'Italia dei Valori di Di Pietro, derogando in modo discutibile all'impegno di "correre da solo", ed è già scoppiata la prima grana per il segretario del Pd. Oggi infatti Di Pietro ha diffuso il suo programma elettorale, di ben 11 punti.

Le domande sorgono spontanee: quelle di Di Pietro sono proposte a titolo personale? Veltroni le condivide? Quale programma sta sostenendo chi intende votare per Veltroni premier? Domande che si ritenevano superate per sempre con la decisione del Pd di correre da solo ma che inevitabilmente l'alleanza con Di Pietro fa tornare di attualità.

Ma sono soprattutto la legge sul conflitto di interessi, che l'ex pm torna adesso a brandire, e la sua proposta di «intervento radicale» sull'informazione a mettere in difficoltà Veltroni: «Una sola televisione pubblica, senza pubblicità; limitazione della proprietà per i concessionari privati ad una rete; eliminazione dei finanziamenti pubblici all'editoria». Al di là del merito, il rilancio della questione del conflitto di interessi e la proposta di ridurre Mediaset ad una sola rete, procedendo a quello che di fatto sarebbe un esproprio, appaiono intenti punitivi nei confronti del leader dell'opposizione Berlusconi, che rendono vani gli sforzi di Veltroni per condurre una campagna elettorale pacata, civile, rispettosa dell'avversario nella speranza in questo modo di poter conquistare i voti dell'elettorato più moderato e indipendente.

Ma anche voler ridurre la Rai ad una sola rete, senza pubblicità, rischia di far ribellare il partito-Rai, molto ben rappresentato all'interno del Pd e in generale tra gli elettori di centrosinistra. Per non parlare dell'"effetto confusione" provocato dal sovrapporsi, sui programmi, di più voci che in teoria dovrebbero confluire in una sola.

Insomma, con un colpo solo Di Pietro riesce a far perdere voti al Pd sia al centro che a sinistra. Un po' la riedizione degli autogol di Visco e Bertinotti nel 2006.

Dove sono le riunioni di Direzione?

Sembra che alla fine una delegazione di radicali troverà ospitalità nelle liste del Pd. Il "ragionamento" di Emma Bonino è chiaro e apparentemente fondato: «Se, così come a Di Pietro, il Pd si fosse aperto in coalizione alla Lista Emma Bonino avremmo abbastanza tranquillamente raggiunto il 2%: il che vuol dire 12 deputati e 3 senatori, vuol dire 5 milioni di rimborso elettorale/finanziamento pubblico, vuol dire una possibilità di voce autonoma nell'ambito della campagna elettorale televisiva. Tutte cose che Di Pietro avrà, comunque vadano le elezioni».

Dunque, se ai radicali il Pd negasse, come probabile, le stesse condizioni concesse a Di Pietro, cioè l'apparentamento con il proprio simbolo, i radicali accetterebbero di candidarsi nelle liste del Pd solo a precise condizioni: 12 deputati e 3 senatori; 5 milioni di euro; spazi televisivi. Vedremo.

Peccato che sia l'equiparazione della Lista Emma Bonino all'Italia dei Valori di Di Pietro a non reggere. E' già abbastanza improbabile che i radicali riescano a raggiungere il 2% presentandosi con il proprio simbolo in una coalizione, quindi figuriamoci il 4% da soli. Ecco perché Di Pietro, che invece a questi numeri poteva ragionevolmente puntare, ha potuto strappare condizioni migliori.

La verità è che Veltroni è interessato solo all'immagine di Emma Bonino, da spendere con gli industriali del Nord, e che Pannella la tratta come si tratterebbe un calciatore con Berlusconi. Vedremo quanto riuscirà a sganciargli il leader radicale.

Da parte sua, la Bonino ha voluto smentire le indiscrezioni secondo cui sarebbe molto più propensa di Pannella ad un accordo con il Pd. «Un cliché insopportabile perché stucchevole: io non sono il clone di Marco e viceversa, ma sulle grandi decisioni ci siamo sempre trovati d'accordo».

Però noi ci chiediamo: dove sono le riunioni di Direzione che con grande vanto venivano pubblicate sui siti radicali? Così, solo per curiosità, vorremmo che almeno a cose fatte venissero pubblicate su internet, insieme alle altre, anche le riunioni in cui i leader radicali hanno esaminato, discusso, e deciso l'accordo con il Pd. Una pretesa che rivolgiamo a loro e non ad altri partiti, perchè i radicali e non altri si sono in passato vantati della trasparenza dei loro momenti decisionali e della pubblicazione on line delle riunioni di Direzione. Se certi sospetti sono solo «insopportabili cliché», perché non scansarli mostrando il dibattito interno sull'accordo con il Pd?

Ferrara 2008 come Visco 2006?

Ferrara sta alla possibile rimonta di Veltroni su Berlusconi oggi, come Visco a quella di Berlusconi su Prodi nel 2006.

Semplicemente accostare la "battaglia culturale" di Ferrara - che non è solo «contro l'aborto», ma al di là delle intenzioni furbescamente proclamate è anche punitiva e criminalizzante nei confronti delle donne - semplicemente accostarla, dicevo, al PdL, potrebbe risultare letale per Berlusconi; esattamente come furono letali per Prodi le uscite "terroristiche" di Visco sulle tasse nel 2006, accompagnate dagli autogol di Bertinotti sulla tassa di successione e sulle rendite finanziarie. Di quel 20-30% di elettori ancora incerti la metà sono donne.

Paolo Mieli lo ha già capito e sta dando una mano a Giuliano Ferrara, in versione ormai del tutto "pannellizzata".

Sotto i tagli fiscali un iceberg di proposte stataliste

Berlusconi e Fini sono ancora al palo, fermi ai blocchi di partenza. Forse in attesa della decisione di Casini, la campagna elettorale del PdL non è ancora iniziata e Veltroni ha subito ridotto lo svantaggio iniziale, mettendo per primo sul tavolo le sue proposte e presentandosi in modo aggressivo, soprattutto per quanto riguarda due aspetti, però fondamentali: l'elemento novità, che cerca di personificare, e il tema delle tasse, che cerca di sottrarre al suo avversario. A differenza di Prodi, Veltroni ci sa fare in campagna elettorale. Non è che non faccia errori, o non abbia punti deboli (come l'acrobazia di far dimenticare Prodi pretendendo al tempo stesso di rendergli omaggio), ma è bravo a mascherarli.

Il suo giro d'Italia in pullman, in 110 province, lo porterà sui tg due volte al giorno. Una presenza martellante, in puro stile americano. E all'impatto di una campagna così personalizzata, ritagliata sulla figura del leader, il centrodestra rischia di contrapporre una frammentato e confusionario universo di dichiarazioni dei vari Bondi, Cicchitto, Ronchi, eccetera...

«Gli italiani mi conoscono; se mi vogliono, mi voteranno», è una frase che porterebbe Berlusconi alla sconfitta. Non deve fare l'errore, come ha scritto ieri Stefano Folli, su Il Sole 24 Ore, di «lasciare all'avversario il monopolio della novità: vale a dire un fattore di vantaggio che in politica è quasi sempre decisivo», o di farsi sottrarre i suoi temi tipici, come le tasse. Ma dei possibili errori di Berlusconi avremo modo di parlare più avanti.

Per ora, mi limito a qualche considerazione sui 12 punti programmatici elencati da Veltroni sabato alla Costituente del Pd. Molto, molto deludenti. Ho sempre pensato, fin dal suo discorso del giugno scorso a Torino, che Veltroni avrebbe puntato con più coraggio su una svolta liberale in economia, ma mi devo ricredere. Ha invece deciso di fare della politica fiscale la punta liberale di un iceberg di proposte stataliste. Essendo la prima volta che una forza di centrosinistra promette di tagliare le tasse a prescindere dal debito, dall'evasione, e dalla congiuntura economica, al Pd non si poteva realisticamente chiedere di più di una riduzione delle aliquote Irpef di tre punti in tre anni. Una proposta cauta, che certamente non corrisponde a quello shock che servirebbe all'Italia, ma rispetto alla quale purtroppo temiamo che Berlusconi non avrà il coraggio di rilanciare.

Per il resto, guardando a quello che c'è, e a quello che manca, in quei 12 punti, le idee veltroniane sono poche e smaccatamente stataliste, condite da qualche slogan suggestivo e "americaneggiante".

La lotta di Veltroni contro il precariato soffre di una visione vecchia che nemmeno per assonanza ricorda la via blairiana. Del salario minimo di 1.000 euro ai precari abbiamo già parlato e anche Franco Debenedetti ricorda come «una vastissima letteratura economica ne dimostri la negatività». La causa della precarietà sta nel fatto che solo una piccola fetta dei lavoratori, gli outsiders non garantiti, sopporta il peso e i rischi della flessibilità dei contratti cosiddetti "atipici". Per ridurre la precarietà bisognerebbe "spalmare" quel rischio, riequilibrare l'area delle tutele, riducendola agli insiders ultragarantiti che continuano a usufruire di una rigidità anacronistica, che neanche tiene conto del merito, ed estendendola agli outsiders.

Servirebbe un nuovo welfare che alla cassa integrazione sostituisca sussidi di disoccupazione universali secondo la logica del welfare to work. Lavoratori e aziende dovrebbero essere lasciati liberi di accordarsi su salari di mercato ed eventualmente lo Stato dovrebbe intervenire a integrare i redditi troppo bassi con programmi specifici, senza però che questa integrazione sia tale da rendere non conveniente per i lavoratori sforzarsi di migliorare la propria produttività e di acquisire ulteriori qualifiche e nuove competenze.

Nel settore della pubblica amministrazione non c'è alcuna ricetta di dimagrimento. Si promette una generica riduzione della spesa pubblica senza indicare dove tagliare e dove razionalizzare, senza alcun riferimento alla valutazione della produttività delle strutture e del merito dei singoli lavoratori, nel caso anche scontrandosi con i sindacati. E in ogni caso sarebbe necessaria una riduzione drastica del numero dei dipendenti pubblici, di cui nel programma di Veltroni per ora non c'è traccia.

Semplicemente scandalosa, inoltre, la proposta sull'università. Non servono altri 100 «campus» - cercando di suggestionare gli elettori prendendo in prestito termini americani senza importare i modelli che ci sono dietro - ma vera concorrenza tra le università per alzare la qualità e produrre eccellenza. E sembra una beffa parlare di «valutazione degli studenti», quando ciò che manca è una seria valutazione dei docenti che porti all'allontanamento dei più scadenti.

Stupisce l'assenza dai 12 punti del tema delle liberalizzazioni, soprattutto nei servizi pubblici locali.

Ovviamente nessuna riforma della giustizia, dopo l'iniezione di grandi dosi di giustizialismo dipietrista nel Pd: la casta dei magistrati non si tocca.

Previsti invece i soliti programmi di edilizia popolare, che non fanno altro che contribuire proprio a quella distorsione del mercato immobiliare che rende i prezzi delle case nelle grandi città italiane tra i più alti al mondo.

Infine, la tassazione della pubblicità in tv (un regalo ai grandi giornali che stanno appoggiando Veltroni in campagna elettorale) per finanziare produzioni televisive «di qualità»: una forma di aiuto di Stato già fallita con il cinema.

Ciliegina sulla torta, Veltroni ha offerto un posto in lista ai "figli di papà", i figli di quegli industriali assistiti (tra cui Colaninno, Barilla, Mondadori) che ben poco hanno a che fare con la piccola e media impresa non raccomandata e senza santi in Confindustria. Candidature che la dicono lunga sul blocco sociale che appoggia Veltroni.

Sunday, February 17, 2008

L'altra e fondamentale scheda in mano agli italiani

E' ufficiale il divorzio tra Casini e Berlusconi, a causa di quel «dissenso strategico» che oggi Angelo Panebianco ha ben descritto sul Corriere della Sera. Berlusconi (come Veltroni) pensa a un sistema tendenzialmente bipartitico, nel quale «il centro non è stabilmente occupato da alcun partito ma è, invece, il luogo in cui convergono, contendendosi gli elettori di centro, lo schieramento di destra e lo schieramento di sinistra». Invece, «fedele alla tradizione politica (quella democristiana) da cui proviene, Casini ha puntato tutto sul mantenimento di un partito di centro. Anche la sua preferenza per un sistema elettorale "alla tedesca" è sempre stata funzionale a quel disegno». L'incompatibilità tra questi due disegni strategici ha reso «armata e altamente conflittuale la coesistenza fra Casini e Berlusconi nel precedente governo». E l'avrebbe resa tale, forse ancora di più, «anche in una nuova esperienza di governo».

Adesso i giochi sembrano fatti. Ci saranno da una parte PdL più Lega, dall'altra Pd più Di Pietro (e Bonino al seguito). Poi la "Cosa rossa", la "Cosa bianca" (la "rosa" di Tabacci, Baccini e Pezzotta riconfluirà probabilmente nell'Udc), La Destra di Storace e i nostalgici socialisti.

A questo punto, esattamente come, e forse ancor più che in un referendum, il futuro del nostro sistema politico dipende tutto dagli italiani. L'occasione per gli elettori è ghiotta, ed è forse l'ultima per salvare questo Paese dal delirio partitocratico: promuovere nelle urne il progetto bipartitico di Berlusconi e Veltroni e bocciare l'operazione centrista che Casini ha dovuto intraprendere suo malgrado con una legge elettorale sfavorevole.

Se tutto va come dovrebbe andare solo la "Cosa rossa" e La Destra di Storace dovrebbero passare lo sbarramento del 4%, in ragione di spazi politici alle estreme dei due partiti maggiori che oggettivamente rimarrebbero, almeno ancora per questa tornata elettorale. Tutto il resto - se gli italiani vorranno (e ci auguriamo che vogliano) - dovrebbe essere spazzato via in un "bagno di sangue", metaforico s'intende.

Culture politiche e idee, nessuna verrebbe pregiudicata, potendo continuare ad affermarsi all'interno di due grandi partiti che come in tutte le moderne democrazie si contendono i voti degli elettori di centro, moderati e pragmatici, senza un partito di centro che utilizzi quei voti in modo trasformistico, come un assegno in bianco, alleandosi dopo le elezioni una volta con la destra e l'altra con la sinistra a seconda delel convenienze.

A sparire sarebbero inutili apparati (con enorme risparmio anche sui costi della "casta") la cui unica politica è la propria sopravvivenza sfruttando la rendita di posizione e a volte il vero e proprio potere di ricatto che detengono in ragione di un consenso di mera testimonianza. E a quel punto solo il collegio uninominale mancherebbe a sancire il passaggio alla Seconda Repubblica. A prescindere da chi uscirà vincitore, dai programmi, dagli eletti, su cui poco confidiamo, il 13 e il 14 aprile si voterà anche per una riforma della politica, e per attribuire a Berlusconi e Veltroni il mandato a costituzionalizzarla.

Friday, February 15, 2008

La politica ha il dovere di individuare le priorità

Quello dell'aborto è un tema importante, come quello della laicità. Ma questo Paese ha problemi ben più urgenti da affrontare e non può concedersi di rimanere impigliato nella rissa tra Ferrara e Pannella, maestri nell'attirare attenzione ma ormai incapaci di guardare di poco oltre il loro smisurato ego.

Le questioni che dovrebbero essere centrali in questa campagna elettorale sono invece quelle ricordate da Giavazzi, oggi sul Corriere della Sera, e di cui abbiamo parlato anche qui: la riduzione delle tasse e della spesa pubblica; il potere di acquisto dei salari («abbiamo stipendi greci e prezzi tedeschi») e una spesa sociale «che non aiuta chi ne ha davvero bisogno».

La differenza tra i salari italiani e quelli europei «è più ampia per i giovani e si restringe via via che passano gli anni: a 55 anni scompare perché i nostri salari crescono con l'età più rapidamente che nel resto d'Europa. In altre parole, in Italia l'anzianità è più importante del merito nel determinare la progressione di carriere e stipendi». Dunque, sarebbe utile sapere chi dei candidati premier «proporrà l'eliminazione degli scatti di anzianità — a cominciare dai contratti dei dipendenti pubblici, in primis dei docenti universitari — per destinare più risorse al merito».

Perché in Italia i salari sono, in media, del 30% inferiori rispetto a Francia, Germania e Gran Bretagna? Perché i nostri lavoratori pagano in busta paga la certezza di non poter essere licenziati. E' una rigidità che comporta costi per le aziende e questi si riflettono sui salari. Una sorta di «premio di assicurazione»: «Un lavoratore con un contratto a tempo indeterminato è di fatto illicenziabile e il mancato salario è un prezzo che egli paga per "assicurarsi" contro il rischio di licenziamento. Non si possono chiedere al tempo stesso salari più elevati e garanzie contro i licenziamenti». Chi tra Pd e PdL proporrà una maggiore flessibilità in uscita per tutti, anche per i lavoratori a tempo indeterminato e anche per i dipendenti pubblici, così da non far gravare tutti i rischi della flessibilità solo sui giovani co.co.pro.?

Sulla produttività influisce anche lo stato penoso dell'istruzione, della nostra scuola secondaria e della nostra università. Dai test Pisa i nostri studenti risultano al 35mo posto sui 40 Paesi studiati nel 2006. «Ciò che più colpisce è la loro scarsa dimestichezza con il metodo scientifico», osserva Giavazzi. Che fare? Non l'ennesima burocratica riforma, «bisogna introdurre più concorrenza fra le scuole. Per farlo occorre dare alle famiglie la possibilità di scegliere: le scuole cattive rimarranno senza studenti e ci sarà la coda per iscrivere i figli alle migliori». Le prime andranno chiuse e i docenti licenziati, le seconde premiate con maggiori risorse e stipendi più alti ai docenti. Ma le famiglie dovranno essere informate per poter scegliere: «Le scuole dovrebbero pubblicare dati sui loro allievi: quanto tempo hanno impiegato a trovare un lavoro? Quanto guadagnano? In quanto tempo si sono laureati? Dove, con che voti?».

Thursday, February 14, 2008

La campagna elettorale parte con le solite omissioni

Partiti nuovi, facce vecchie e, per ora, anche programmi vecchi. Non mi pare che sia stato notato, ma per ora i cavalli di battaglia elettorali a cui Berlusconi e Veltroni si sono affidati nel loro esordio televisivo a Porta a Porta sono i medesimi del 2006: l'abolizione dell'Ici sulla prima casa fu il gran "botto finale" di Berlusconi e gli sgravi fiscali fino a 2.500 euro per ogni nuovo nato somigliano a quel bonus bebè (ve lo ricordate?) che Prodi sbandierava per commissionare figli a pagamento.

E' ancora presto per rassegnarsi, ma a fronte della positiva tendenza bipartitica avviata con la nascita del Pd e la lista del PdL, questa campagna elettorale è partita con il piede sbagliato sul piano dei contenuti.

E ieri sera Veltroni ha lanciato una proposta demagogica e assistenzialista. Uno stipendio minimo di 1.000 euro garantito ai giovani precari. Innanzitutto, introdurrebbe una rigidità difficile da tradurre nella pratica in un contesto quale quello del lavoro flessibile (mille euro anche per i part time di poche ore al giorno?). Ma soprattutto, fissare una soglia minima è un grosso rischio, perché per esempio nel Sud il mercato potrebbe ribellarsi alimentando ancora di più il lavoro nero, al quale sarebbero comunque costretti a ricorrere tutti coloro che nel bisogno accetterebbero di lavorare per meno di mille euro in zone dove il costo della vita è inferiore alla media. E nel caso in cui intervenisse il governo a integrare il salario dell'azienda per portarlo a quota 1.000, ci troveremmo di fronte a dei dipendenti parzialmente pubblici il cui lavoro però va ad arricchire dei privati. Inoltre, questa integrazione statale potrebbe configurare anche un aiuto di stato indiretto alle imprese, in violazione delle norme Ue sulla concorrenza. E chi spiegherebbe a un operaio del Nord, che magari prende 1.300 euro dopo vent'anni di lavoro, che a un giovane co.co.pro di Potenza alla prima occupazione lo Stato garantisce 1.000, in una città in cui i mutui e la vita costano la metà?

Piuttosto, Veltroni dovrebbe spiegare ai giovani lavoratori precari che dice di voler aiutare come mai il governo che fino a ieri il Pd ha sostenuto ha aumentato fino al 26,5% i loro contributi (per finanziare le pensioni ai 58enni!). Vorrei sapere in quale altro Paese uno stipendio inferiore ai mille euro, che a mio avviso dovrebbe essere totalmente esente da tributi, viene decurtato di un quarto, più le tasse.

Ecco il tema che per ora Veltroni, ma anche Berlusconi, hanno solo sfiorato. C'è la detassazione degli straordinari e degli aumenti di produttività, su cui i due maggiori partiti sembrano convergere, ma sono briciole. Nessuno dei due si è ancora presentato davanti agli elettori affrontando il nodo cruciale del binomio tasse-spesa pubblica. L'economia, la società italiana, soffre di asfissia, è letteralmente soffocata dalla macchina statale. Servirebbe un progetto di tagli alle tasse e alla spesa pubblica non di un punto di Pil, ma di almeno 10 nell'arco della prossima legislatura. Ma i nostri politici con le loro proposte dimostrano di non aver ancora compreso che lo Stato è parte del problema, non della soluzione.

Bisogna parlare chiaro e tondo agli italiani: nessuno pensi che una volta al governo avrà la forza e la legittimazione necessarie per prendere decisioni coraggiose, se prima non avrà preso impegni precisi con gli elettori ricevendo un mandato inequivocabile.

Anche il tema delle privatizzazioni è ancora assente dalla campagna elettorale, nonostante proprio l'altro giorno il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, abbia ripetuto quanto siano determinanti per la riduzione del debito pubblico. Le privatizzazioni sono ferme e non ne parla più nessuno, notava oggi Gianni Dragoni, su Il Sole 24 Ore.

Il tema del merito e della meritocrazia, della mobilità sociale, viene affrontato in modo puramente demagogico, senza spiegare ai cittadini quali regole dovrebbero essere introdotte per far funzionare ogni settore della vita del nostro Paese - dal lavoro all'università, dall'impresa alla politica - in modo meritocratico. Quali privilegi e rendite di posizione andrebbero smantellati in tutti i campi.

Oggi, sempre su Il Sole 24 Ore, Carlo Carboni ha avvertito che non basta il merito acquisito "sulla carta". In Francia, ha ricordato, «la legittimazione del ceto politico e amministrativo si "costruisce" a partire dal merito educativo» dispensato dalle grandi scuole per l'ammistrazione pubblica, ma gli stessi francesi si stanno rendendo conto che anche il loro sistema «tende a chiudersi in relazioni autoreferenziali, in reti di conoscenze» impenetrabili.

Un sistema basato sul merito non può fare a meno della concorrenza e della competizione "sul campo", le quali però comportano che ci siano degli "sconfitti" temporaneamente messi "fuori gioco", perché possano affermarsi elementi nuovi temporaneamente vincenti, in un sali-scendi che crea mobilità sociale. Ne sono consapevoli i cittadini italiani che si lamentano? Sanno cosa sia davvero, e cosa comporti, la meritocrazia? E i nostri politici sono preparati a spiegarglielo?

Da solo, "ma anche" male accompagnato

Veltroni (qui a sinistra in una vignetta di Angese) sembra essere riuscito nel miracolo di correre sia da solo che male accompagnato. Berlusconi, riconosce oggi Stefano Folli su Il Sole 24 Ore, «è stato fin qui coerente con la premessa: in pochi giorni si è liberato dell'equivalente in voti di quasi 9-10 punti percentuali. Prima la Rosa Bianca... poi Storace, infine l'Udc. Se si sommano tra loro, raggiungono sulla carta una quota ragguardevole. Segno che Berlusconi ha davvero molta fiducia in se stesso, nei suoi sondaggi e nella bontà dell'operazione di sfoltimento... Viceversa, Veltroni ha cessato di correre da solo».

Ma qui non intendiamo impiccarlo a una coerenza che alle volte in politica può rivelarsi solo miopia. E' nella sostanza politica che l'apparentamento con Di Pietro non convince. Una deroga all'imperativo di correre da soli poteva anche essere sostenibile, ma imbarcando Di Pietro Veltroni mostra di aver ceduto per un pugno di voti, che qualche sondaggio gonfiato attribuisce a L'Italia dei Valori, a scapito della tanto decantata «coesione» progrmmatica.

Avranno anche siglato un accordo solido, ma all'interno del Pd i settori che respingono la cultura giustizialista dell'ex pm sono ampi e non ininfluenti. Non sono affatto contenti Arturo Parisi, Rosy Bindi, tanti prodiani, una parte degli ex Ppi, socialisti come Caldarola («è una scelta che nega la nostra cultura politica... mi sembra difficile stare nello stesso partito») e liberal come Polito («proprio non riesco a immaginarmi nello stesso gruppo parlamentare di Di Pietro»), che ieri ha spiegato i suoi tre "no".

Insomma, Veltroni ha privilegiato i voti (presunti: a nostro avviso Di Pietro ne avrebbe presi di più, grazie a girotondini e grillini, correndo da solo) alle culture politiche dei radicali e dei socialisti, che a quel punto sarebbero state eccezioni più coerenti dal punto di vista del profilo riformista del Pd. Apparentandosi a Di Pietro anche l'immagine del Pd cambia e certo chi si aspetta nella prossima legislatura una riforma della giustizia non è da quella parte che può rivolgere le proprie aspettative.

«Tutto questo significa che si è riaperto il processo di costruzione del Pd, che senza dir niente a nessuno si sono rimesse in discussione scelte compiute da regolari congressi, votando solenni documenti in cui si diceva cosa doveva essere il Pd e da quali forze era composto», osserva Polito. Quindi, per giustificare un'alleanza elettorale con Di Pietro si «cambia la natura» del Pd e se ne cambia pure la linea politica, certo non in senso liberale. «Dall'alleanza con Di Pietro desumo che il Pd si schiererà non solo contro la legge sulle intercettazioni annunciata dal centrodestra, ma anche contro la sua stessa riforma, voluta dal suo governo in questa legislatura».

All'Italia serve uno shock lungo una legislatura

Berlusconi sembra voler ripartire dal 2006. Può anche darsi che si riveli valida la strategia di dire "Cari italiani, è stato solo un brutto sogno... riprendiamo da dove ci eravamo lasciati": dall'abolizione dell'Ici, per esempio, che fu il "botto finale" della scorsa campagna elettorale. Eppure, oggi come allora, vedo cominciare una campagna poco coraggiosa. Peccato che nel frattempo la crisi in cui versa l'Italia si sia aggravata e richieda rimedi sempre più drastici.

All'allarme del Sole 24 Ore (niente tesoretto, buco di 7 miliardi e necessaria manovrina) e a quello della Corte dei Conti («incontrollato aumento della spesa corrente») si aggiunge il dato della produzione industriale in calo del 4%. Per non parlare dell'impennata dell'inflazione (a gennaio registrata dall'Istat in aumento del 2,9% rispetto allo stesso mese del 2007) e del dato dei salari fornito dalla Banca d'Italia, i più bassi d'Europa e a crescita zero dal 2000 considerando gli aumenti annui del costo della vita. Questo quadro è tanto più sconfortante se confrontato con le timide proposte economiche trapelate in questi giorni dai programmi, in verità ancora in via di elaborazione, dei due maggiori partiti, Pd e PdL.

Entrambi si limitano ad interventi - annunciati nelle interviste a Nicola Rossi e a Renato Brunetta, ma confermati sia da Veltroni che da Berlusconi, ieri sera a Porta a Porta - sulla cosiddetta «contrattazione di secondo livello»: detassazione sulle parti della retribuzione legate alla produttività e al merito e sugli straordinari. Una mancia che, se non proprio impercettibile rischia comunque di non modificare in modo apprezzabile le buste paga. Forse capace di provocare un breve sussulto di produttività, ma certo non di produrre effetti rilevabili e prolungati sul potere d'acquisto e sulla crescita.

Soprattutto dal PdL ci aspettiamo molto più coraggio. Se le proposte di politica fiscale rimanessero queste, Veltroni avrebbe gioco facile nell'eguagliarle. Berlusconi non dovrebbe sottovalutare l'inedita concorrenza del Pd su questo piano: per la prima volta promette di ridurre le tasse e per la prima volta si presenta agli elettori con la maggiore credibilità che gli deriva dalla scelta di correre da solo, finalmente non più alleato con la sinistra comunista e massimalista. E se la competizione si confermerà fortemente personalizzata, una sorta di referendum tra i due leader, con i due partiti e i due programmi relegati in secondo piano, allora Veltroni potrebbe anche indovinare la campagna elettorale, riuscendo a diffondere su di sé l'immagine della freschezza e sull'avversario della stanchezza.

Il taglio dell'Ici; le detassazioni sui salari; una seria riforma delle pensioni; i disegni di legge che saranno varati nei primi consigli dei ministri. Tutto ottimo, ma oltre alle misure più urgenti, da attuare nei primi 100 giorni e persino nelle prime 100 ore, ci vorrebbe un progetto di legislatura per un consistente taglio delle tasse e della spesa pubblica, supportato da cifre, scadenze e impegni precisi. Berlusconi non parla più di aliquote Irpef, se non, come ha fatto ieri sera da Vespa, per evocare l'obiettivo dei sogni: arrivare a una tassazione massima del 33%. Obiettivo dei sogni, o Berlusconi si impegnerà a portarlo a compimento entro la prossima legislatura? E perché non la flat tax al 20% in 5 anni, come propone, dati alla mano, Decidere.net?

L'obiettivo di ridurre dell'1% sia la spesa pubblica che la pressione fiscale nel 2008 va nella direzione giusta, ma sono dimensioni che a mio avviso denotano una percezione ancora approssimativa, erronea per difetto, della gravità e delle proporzioni dell'emergenza economica e sociale nel nostro Paese. Occorre invece uno shock fiscale, tale da restituire nelle tasche degli italiani la cospicua parte di ricchezza che la politica ha sottratto loro dimostrando poi di non essere capace di spenderla nel migliore dei modi.

Siamo al paradosso che da uno stipendio lordo di 1.600 euro, che a mio modo di vedere dovrebbe essere totalmente o quasi esente da tassazione, si arriva a un netto in busta paga di 1.100 euro. Il problema dei problemi in Italia, una vera e propria questione sociale fonte di privilegi e ingiustizie, è una macchina statale inefficiente che succhia la linfa vitale della nostra società. «Per voltare pagina l'Italia deve liberarsi dalla mentalità statalista e dirigista che ha prevalso nell'ultimo mezzo secolo, mentalità che chiamerei cattocomunista», ha scritto ieri, su Libero, il prof. Antonio Martino.

L'espansione dei compiti che lo Stato si attribuisce, e per i quali chiede ulteriori risorse, lo rende poi incapace di assolvere al meglio i compiti essenziali che giustificano la sua esistenza. L'espansione dei compiti dello Stato non è dovuta a reali esigenze dei cittadini, ma al bisogno della classe politica di controllare e gestire sempre più servizi, perché tramite quel controllo e quella gestione crea rapporti di clientela e ricava consensi per rimanere al potere.

Per ridurre il peso dello Stato non si può partire dai tagli sulle varie voci di spesa, perché quando ci si siede a tavolino tutto sembra indispensabile ai governi che non vogliono scontentare nessuno per non perdere quote di consenso. Si deve partire "affamando la bestia". Tagliando radicalmente le aliquote fiscali. Restituire le risorse direttamente nelle mani dei ceti produttivi, sia imprenditori che lavoratori, togliendole da quelle del ceto parassitario dei politici, dei burocrati e degli assistiti.

L'Europa chiede all'Italia un tasso di occupazione femminile del 60% entro il 2010, ma siamo drammaticamente fermi al 46,3%, dato rilevato nel 2006, penultimi in Europa. E ciò costituisce certamente un freno rilevante alla crescita economica. A fronte di tanti tagli possibili nella Pubblica amministrazione, dei tanti compiti che lo Stato non dovrebbe svolgere, servirebbe un grande programma statale - lo diciamo da liberisti pragmatici - e temporaneo (finché non torni ad aumentare la ricchezza pro capite), per rendere meno gravoso alle donne conciliare lavoro e maternità: un buono-asilo sia alle donne sia ai comuni da finanziare con l'innalzamento dell'età pensionabile da 60 a 65 anni.

Se non si ha il coraggio di chiedere esplicitamente adesso, in campagna elettorale, i voti agli elettori sulla base di tali impegni (due o tre di grande portata, qualificanti), non si avranno mai la forza e la legittimazione sufficienti, una volta al governo, per procedere con un forte ridimensionamento della tassazione e, quindi, del peso dello Stato.

Wednesday, February 13, 2008

Da soli, "ma anche" con Di Pietro

«Con questa o con un'altra legge elettorale, il Partito democratico correrà da solo», annunciava Veltroni tempo fa. Ma da oggi sarà il caso di precisare: Da solo, "ma anche" con Di Pietro... (guarda) e chissà con quanti altri. Non è da escludere infatti che alla fine i radicali accettino di candidare tre donne nelle liste del Pd (Bonino, Bernardini e Coscioni), ché in fondo Pannella è altruista.

L'accordo tra Pd e Di Pietro è stato appena concluso. «In senso tecnico», precisa l'ex pm, ma non si capisce cosa intenda dire, visto che precisa subito: «Con Veltroni abbiamo fatto un accordo non solo elettorale, ma programmatico, politico e progettuale. Programmatico perché alcuni punti salienti del nostro programma, come la non candidabilità dei condannati, saranno patrimonio comune di queste liste...»

L'Italia dei Valori parteciperà alle prossime elezioni politiche con il proprio simbolo in coalizione con il Partito democratico. Dopo il voto, gli eletti confluiranno nello stesso gruppo parlamentare del Pd, iniziando «un percorso che porterà in futuro alla possibilità di una nostra confluenza in un unico partito».

E così Veltroni ha ceduto. Ma non è solo un problema di coerenza, come spiega bene il senatore Polito: «Sono tre volte contrario alla scelta del Pd di apparentarsi sulla scheda elettorale con il partito di Di Pietro. Primo: perché così facendo si afferma che la cultura politica del nuovo partito si sente più vicina al giustizialismo dell'ex pm che al liberalismo dei radicali e dei socialisti. Secondo: perché il partito di Di Pietro è un partito personale che già alle passate elezioni non andò tanto per il sottile nella scelta dei candidati e creò al Senato non poche turbolenze nella maggioranza, soprattutto sui temi della giustizia. Terzo: perché se anche il Pd vincesse le elezioni, per governare avrebbe bisogno dei parlamentari eletti con Di Pietro, con buona pace della vocazione maggioritaria».

Adesso il timore è che anche Berlusconi possa cedere nei confronti dell'Udc, pressato da quel 3/4% in più che Di Pietro ha sommato ai voti del Pd.

Intanto prosegue, anzi si accentua, lo strano atteggiamento dei grandi giornali - su tutti il Corriere - che fino a ieri invocavano coraggio, cambiamento, semplificazione del quadro politico, e ora sembrano indulgere nel difendere le ragioni dei "piccoli" contro la furia dei "cattivoni", Pd e PdL, che vorrebbero farli fuori. Tra i due litiganti, Berlusconi e Casini, si mette addirittura in mezzo l'unica mamma rimasta, quella del leader dell'Udc: "Era così bello vederli giocare insieme..."

E ci si mette anche Pierluigi Battista, che invita PdL e Pd a «prestare una parte dei loro formidabili apparati per aiutare, su fronti opposti, Giuliano Ferrara e Marco Pannella a raccogliere le firme necessarie alla presentazione delle loro liste solitarie».

Non si capisce perché Ferrara e Pannella dovrebbero costituire «una cosa ben diversa dai micropartitini che proliferano dietro un capo, un territorio da controllare, una clientela da soddisfare, una marginale rendita di posizione». Sono forse anche peggio, perché accreditandosi come indiscussi e solitari condottieri di un'unica battaglia aspirano a guadagnare visibilità per loro stessi. E sanno bene che solo visibilità otterranno.

E se ciascuno dovesse presentare una lista per ogni «tema culturale» che sente importante, cosa accadrebbe?

Ieri a Porta a Porta Berlusconi è apparso insolitamente infastidito dall'iniziativa di Ferrara, e l'ha stroncata. "Ma come, mi sto facendo il c... per mettere 18 partitini d'accordo nel PdL e questo qui me ne aggiunge un altro?" Ma anche sul tema dell'aborto Berlusconi sembra avere pochi dubbi: non dovrebbe entrare nella campagna elettorale.

«Ferrara in questi ultimi tempi è stato rapito da questa sua missione e intende, contro il mio consiglio, presentare una lista che si chiamerà "Lista per la vita" o "Cultura della vita". Io non credo che questo sia un problema da inserire dentro delle elezioni politiche, penso che sia un problema che attenga alle coscienze e che quindi debba restare fuori dall'agone politico. Ho cercato di dissuaderlo, vedremo con quali risultati». E poi, rispondendo a una domanda di Battista: «Io sto dedicando i giorni e purtroppo anche le notti e concentrare 18 sigle politiche in una e adesso l'amico Giuliano Ferrara ne propone una in più lui? Credo che veramente questo vada contro quella che è la nostra strategia, che corrisponde al volere degli italiani. Non credo che questa missione che Giuliano si è dato trovi in politica il palcoscenico giusto per essere portata avanti. Ho indicato la strada delle Nazioni Unite e credo che quella sia la strada che si deve perseguire».

Un modo diplomatico e amichevole per dirgli: "Fuori dalle palle!"

Un pugno di radicali o radicali in pugno?

Se, come dice Pannella, il Pd vuole "portare Oltretevere lo scalpo dei radicali", cosa dovrebbe dire Casini? Dove vuole portare Berlusconi lo scalpo dell'Udc? La pagina in cui ieri si ribaltava il clichè della Bonino "protesi" di Pannella ha colto nel segno. Il fatto che alla sola Emma Bonino sia stata offerta una candidatura nelle liste del Pd, scandalizzando i radicali e la stessa Emma, la dice lunga sul suo atteggiamento in questo anno e mezzo al governo. E' il frutto maturato dal modo in cui ha interpretato il suo ruolo di ministro. Tanto efficiente negli incarichi che ha ricoperto, quanto remissiva nel promuovere l'agenda radicale. E chi non vorrebbe nelle proprie liste un funzionario fedele, per di più donna, che non crea problemi ed esegue il suo compitino spesso con risultati eccellenti ma senza disturbare i manovratori? Così la Bonino in questi mesi ha promosso se stessa: dinanzi a Prodi, a D'Alema, a Montezemolo. Per carità, legittimo. E' ciò che ha scelto di fare da grande: dimostrare d'essere un ottimo funzionario senza rischiare di correre anche come leader politico. Anche se qualcosa mi dice che alla fine un pugno di radicali (o piuttosto, dei radicali in pugno?) entrerà nelle liste del Pd.

Sorpasso Obama, McCain a un passo dal traguardo

Barack Obama ha letteralmente stracciato ieri notte Hillary Clinton nelle "Potomac Primaries", nei tre stati in cui scorre il fiume Potomac: 64% contro 35% in Virginia; 76% contro 24% in Dist. of Columbia; 62% contro 34% in Maryland. Con i delegati assegnati da questi stati ha sorpassato Hillary: 1202 delegati contro 1185, compresi i superdelegates, ma ha conquistato ben 100 delegati in più della Clinton tra quelli attribuiti dalle primarie o dai caucus.

Negli stessi stati hanno votato anche i Repubblicani e McCain se li è largamente aggiudicati tutti e tre: 50% contro 41% in Virginia; 67% contro 17% in Dist. of Columbia; 54% contro 30% in Maryland. Il senatore dell'Arizona è ormai praticamente a un passo dall'ottenere la nomination: ha conquistato 812 delegati (ne occorrono in tutto 1.191) contro i 217 di Huckabee.

Particolarmente ispirati i discorsi dei due vincitori ai loro sostenitori, con Obama che è sembrato aver già iniziato la campagna di novembre, chiamando in causa il probabile avversario repubblicano, McCain, che ha comunque definito un «eroe americano». E' una great political experience ascoltare un discorso di Obama: emana calore e ti trasporta con il suo ritmo soul. Anche se molto di quanto ha detto ieri notte non mi ha convinto, emotivamente è capace di portarti dalla sua parte.
Now when I start talking like this, some folks tell me that I've got my head in the clouds. That I need a reality check. That we're still offering false hope. But my own story tells me that in the United States of America, there has never been anything false about hope.

I should not be here today. I was not born into money or status. I was born to a teenage mom in Hawaii, and my dad left us when I was two. But my family gave me love, they gave me education, and most of all they gave me hope – hope that in America, no dream is beyond our grasp if we reach for it, and fight for it, and work for it.

Because hope is not blind optimism. I know how hard it will be to make these changes... The politics of hope does not mean hoping things come easy. Because nothing worthwhile in this country has ever happened unless somebody, somewhere stood up when it was hard; stood up when they were told – no you can't, and said yes we can.
Anche l'oratoria di McCain è "calda", «I am fired up and ready to go», trasmette la sensazione di una forza tranquilla.
I do not seek the presidency on the presumption that I am blessed with such personal greatness that history has anointed me to save my country in its hour of need. I seek the presidency with the humility of a man who cannot forget that my country saved me. I am running to serve America, and to champion the ideas I believe will help us do what every American generation has managed to do: to make in our time, and from our challenges, a stronger country and a better world.