Anche su Notapolitica
Due autorevoli citazioni di Luigi Einaudi nell'arco di due giorni, ma di segno completamente opposto, meritano qualche considerazione. «Il pensiero economico tedesco è molto simile a quello di Luigi Einaudi», ha detto il presidente del Consiglio Mario Monti, durante la conferenza stampa al termine dell'incontro con la cancelliera Merkel, a voler sottolineare la possibile e auspicabile sintonia tra Italia e Germania sul modello economico di riferimento. Una bestemmia, oppure c'è del vero? In effetti, i pilastri del rigore tedesco - il principio del pareggio di bilancio, che l'economista italiano già nel secondo dopoguerra voleva fosse inserito nella nostra Costituzione; l'avversione per la "monetizzazione del debito" tramite l'inflazione, con il conseguente ruolo della Bce, cui non è permesso andare in soccorso dei debiti sovrani in difficoltà - si ritrovano nel pensiero einaudiano.
Non solo per ragioni economiche, ma anche etiche, di tutela delle libertà degli individui presenti e futuri, Einaudi riteneva che il principio dell'economia della spesa dovesse essere a fondamento delle politiche di bilancio e dell'uso della leva fiscale da parte dei governi; che non si dovesse fare ricorso al debito pubblico per finanziare la spesa corrente; e che l'inflazione fosse non solo causa di instabilità monetaria, ma anche un'indebita forma di signoraggio e depauperamento del risparmio dei cittadini ad unico vantaggio dello Stato. Se, dunque, ci sono dei punti di contatto tra i principi economici e di finanza pubblica a cui la Germania oggi appare così ossessivamente ispirarsi e il pensiero einaudiano, allora i liberali attratti da un certo spirito anti-tedesco, dominante in questi mesi di crisi dell'Eurozona, dovrebbero rifletterci bene prima di aderirvi.
Ma Einaudi (presidente della Repubblica dal 1948 al 1955) viene più volte citato anche da Eugenio Scalfari nella lunga e aulica lenzuolata in cui racconta del suo recente incontro con il presidente Napolitano a Castel Porziano. Qui viene fatto un uso distorto e strumentale della sua figura. Accostandolo al grande economista, infatti, Scalfari attribuisce all'attuale capo dello Stato (nonché rinnova a se stesso) una fasulla patente di "liberale". E nel contempo riesce anche ad iscrivere Einaudi in quel club di sacerdoti-guardiani della Costituzione ospitato da Repubblica. Decontestualizzato, l'Einaudi citato dal fondatore di Repubblica, che include tra i suoi compiti quello di «trasmettere intatte le prerogative costituzionali del capo dello stato ai suoi successori», diventa un Oscar Luigi Scalfaro, un Napolitano nella migliore ipotesi, pur essendo stato in realtà molto distante da entrambi sia per il pensiero economico sia per la sua visione della Costituzione.
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Friday, July 06, 2012
Tuesday, September 06, 2011
Ballando sul baratro
Ennesima assurda giravolta del governo che reintroduce la super aliquota Irpef (il 3% sopra i 500 mila euro) e ci ripensa sull'Iva, aumentandola dal 20 al 21%, ma con pervicacia si ostina a non adeguare fin da subito a 65 anni l'età di pensionamento delle donne nel settore privato. Un processo di adeguamento ridicolmente spalmato nel tempo, che ai mercati deve suonare come una presa per i fondelli: secondo la prima manovra, quella di luglio, sarebbe dovuto partire addirittura nel 2020 per concludersi nel 2038. Anticipata al 2016 nella manovra ferragostana, ora la partenza viene ulteriormente anticipata al 2014. Ma l'unica cosa ragionevole sarebbe far scattare fin da subito l'adeguamento, già dal primo gennaio 2012, per concluderlo in cinque anni. Ma piuttosto che anticipare una piccola, seria riforma, preferiscono mettere le mani nelle tasche degli italiani e rischiare una nuova recessione.
L'aumento dell'1% dell'Iva è impercettibile sulla carta, ma avrà un percettibilissimo effetto inflazionistico perché legittimerà aumenti di prezzi e tariffe. Si comprerà meno non credo, ma si evaderà di più e la spinta inflazionistica rischia di farci pagare molto più dell'1%. Un'autentica follia. Sul fronte dell'Irpef il danno è già stato fatto. Dopo tutte le ipotesi di queste settimane e con l'incertezza che permane temo che i commercialisti siano stati già allertati a dovere e che si sia perso già più gettito di quello che si pensa di ottenere.
Purtroppo queste nuove misure vanno nella direzione esattamente opposta a quella indicata dalla Bce, dalla Banca d'Italia e dal semplice buon senso, perché accentuano il peso già preponderante delle nuove entrate rispetto ai tagli di spesa, il che aggrava l'effetto depressivo delle due manovre sulla crescita economica, che invece per raggiungere il pareggio di bilancio dovrebbe essere rilanciata. Tasse, tasse, e ancora tasse, pur di evitare poche, semplici riforme strutturali che tutti sanno essere necessarie: innalzamento dell'età pensionabile, privatizzazioni, e perché non una moratoria totale della spesa per cinque anni?
L'aumento dell'1% dell'Iva è impercettibile sulla carta, ma avrà un percettibilissimo effetto inflazionistico perché legittimerà aumenti di prezzi e tariffe. Si comprerà meno non credo, ma si evaderà di più e la spinta inflazionistica rischia di farci pagare molto più dell'1%. Un'autentica follia. Sul fronte dell'Irpef il danno è già stato fatto. Dopo tutte le ipotesi di queste settimane e con l'incertezza che permane temo che i commercialisti siano stati già allertati a dovere e che si sia perso già più gettito di quello che si pensa di ottenere.
Purtroppo queste nuove misure vanno nella direzione esattamente opposta a quella indicata dalla Bce, dalla Banca d'Italia e dal semplice buon senso, perché accentuano il peso già preponderante delle nuove entrate rispetto ai tagli di spesa, il che aggrava l'effetto depressivo delle due manovre sulla crescita economica, che invece per raggiungere il pareggio di bilancio dovrebbe essere rilanciata. Tasse, tasse, e ancora tasse, pur di evitare poche, semplici riforme strutturali che tutti sanno essere necessarie: innalzamento dell'età pensionabile, privatizzazioni, e perché non una moratoria totale della spesa per cinque anni?
Monday, August 17, 2009
Roma più cara di Milano
Il capoluogo lombardo è al 26esimo posto su 32 metropoli europee, Roma al 21esimo. E' quanto emerge da una elaborazione della Camera di commercio di Milano su dati dell'Economist intelligence unit. Ne avevo avuto l'impressione le poche volte che sono salito a Milano in questi ultimi anni. Roma inoltre risulta la quinta città europea ad aver avuto la maggior crescita dei prezzi dall'introduzione dell'euro a oggi. E' Oslo la città più cara d'Europa, mentre Londra è in testa per gli affitti e Milano per l'abbigliamento.
Più convenienti del capoluogo lombardo solo Atene (indice: 99), Lisbona (96), Dusserldorf (93), e tre città dell'Est: Bucarest (86), Budapest (78) e Sofia (67). Roma al 21esimo posto (107). Tra le singole voci, poi, non sorprende che Milano sia la città meno cara in assoluto per il costo degli alcolici. E' invece al 27esimo posto per il costo delle utilities (prima Vienna con 210; ultima Praga con 63); al 25esimo per gli articoli per la casa (prima Oslo con 250; ultima Sofia con 63); al 24esimo per gli alimentari (prima Copenaghen con 155; ultime Budapest e Sofia con 66); al 21esimo posto per gli affitti (prima Londra con 404; ultima Sofia con 51); al 21esimo per la cura personale (prima Copenaghen con 146; ultima Sofia con 55).
Milano sale tra le 20 città più care per i divertimenti (al 19esimo posto: prima Oslo con 136; ultima Sofia con 65), per il costo del tabacco (al 16esimo posto; prima Oslo con 225; ultima Budapest con 51) e per i trasporti (al 15esimo posto; prima Oslo con 165; ultima Sofia con 61). Mentre è nella top-ten delle città europee più care per quanto riguarda l'abbigliamento: al quinto posto in assoluto (città più cara Francoforte con 110; città più conveniente Manchester con 41). Nota: sono stato a Francoforte lo scorso inverno e c'erano ottimi affari.
Per quanto riguarda l'aumento dei prezzi dopo l'introduzione dell'euro, qualcosa di cui ci eravamo accorti anche nel nostro piccolo: è Roma ad aver registrato gli aumenti più vertiginosi. Tra il 2002 e il 2008 i prezzi sono aumentati del 27,6% per l'agroalimentare, del 24,8% per gli alcolici, del 49,3% per gli articoli per la casa, del 28,3% per i prodotti per la cura personale, del 39,1% per il settore del tabacco, del 31,8% per le utilities, del 5,2% per l'abbigliamento, del 13,7% per il divertimento, del 30,2% per i trasporti, del 29,4% per gli affitti (all'ottavo posto di questa classifica, mentre Milano è al 16esimo, con un +23,5%).
Più convenienti del capoluogo lombardo solo Atene (indice: 99), Lisbona (96), Dusserldorf (93), e tre città dell'Est: Bucarest (86), Budapest (78) e Sofia (67). Roma al 21esimo posto (107). Tra le singole voci, poi, non sorprende che Milano sia la città meno cara in assoluto per il costo degli alcolici. E' invece al 27esimo posto per il costo delle utilities (prima Vienna con 210; ultima Praga con 63); al 25esimo per gli articoli per la casa (prima Oslo con 250; ultima Sofia con 63); al 24esimo per gli alimentari (prima Copenaghen con 155; ultime Budapest e Sofia con 66); al 21esimo posto per gli affitti (prima Londra con 404; ultima Sofia con 51); al 21esimo per la cura personale (prima Copenaghen con 146; ultima Sofia con 55).
Milano sale tra le 20 città più care per i divertimenti (al 19esimo posto: prima Oslo con 136; ultima Sofia con 65), per il costo del tabacco (al 16esimo posto; prima Oslo con 225; ultima Budapest con 51) e per i trasporti (al 15esimo posto; prima Oslo con 165; ultima Sofia con 61). Mentre è nella top-ten delle città europee più care per quanto riguarda l'abbigliamento: al quinto posto in assoluto (città più cara Francoforte con 110; città più conveniente Manchester con 41). Nota: sono stato a Francoforte lo scorso inverno e c'erano ottimi affari.
Per quanto riguarda l'aumento dei prezzi dopo l'introduzione dell'euro, qualcosa di cui ci eravamo accorti anche nel nostro piccolo: è Roma ad aver registrato gli aumenti più vertiginosi. Tra il 2002 e il 2008 i prezzi sono aumentati del 27,6% per l'agroalimentare, del 24,8% per gli alcolici, del 49,3% per gli articoli per la casa, del 28,3% per i prodotti per la cura personale, del 39,1% per il settore del tabacco, del 31,8% per le utilities, del 5,2% per l'abbigliamento, del 13,7% per il divertimento, del 30,2% per i trasporti, del 29,4% per gli affitti (all'ottavo posto di questa classifica, mentre Milano è al 16esimo, con un +23,5%).
Friday, April 03, 2009
G20, ritorno alla realtà
Tutti contenti al G20 di Londra. Al di là del Fondo monetario internazionale, tra i vincitori ci sono gli Usa. Ok, Obama non ha ottenuto dagli europei un vero e proprio stimolo fiscale (per fortuna), ma attravero il FMI e la Banca mondiale altri mille miliardi di dollari verranno messi in circolo nell'economia mondiale: 500 miliardi di dollari in più al Fondo monetario internazionale, le cui risorse per sostenere le economie in difficoltà passano da 250 a 750 miliardi; 250 miliardi di dollari per sostenere la ripresa del commercio mondiale; e altri 250 miliardi nella linea di credito costituita dai cosiddetti "diritti speciali di prelievo" per le economie dei Paesi in via di sviluppo.
Accontentate anche Francia e Germania, nella loro richiesta di un più rigido controllo sugli hedge funds e nella loro ossessiva guerra ai "paradisi fiscali", che non c'entrano niente con la crisi, ma c'entrano con la necessità tutta politica di rispondere alle pulsioni populiste delle opinioni pubbliche contro il mondo della finanza. «Addio paradisi fiscali», ha potuto annunciare trionfalmente Sarkozy. Compariranno in una "lista nera" compilata dall'Ocse e quelli che non coopereranno saranno oggetto di sanzioni. «L'era della segretezza bancaria è finita», si legge nel comunicato di Londra. Ma è molto meno di quel più grande e più centralizzato sistema di regolazione finanziaria globale che alcuni paesi europei volevano.
Escono sconfitti i top manager, le cui remunerazioni e bonus saranno legati alla performance complessiva e di lungo periodo dell'impresa, i trader e le banche, che saranno sottoposti a requisiti di capitale più severi e a controlli più rigidi della leva finanziaria.
Annunciato anche un approccio comune per ripulire le banche dagli "asset tossici" e un nuovo Consiglio per la stabilità finanziaria globale, per una maggiore cooperazione internazionale nella vigilanza. Infine, la messa all'indice dei paesi che non rispettano le regole internazionali del commercio dovrebbe scongiurare un ritorno al protezionismo, anche se la maggior parte delle nazioni del G20 ha adottato striscianti misure protezionistiche fin dall'inizio della crisi.
Al di là dei toni entusiastici, e di quel numero facile da ricordare - 1000 miliardi - secondo il Wall Street Journal il G20 ha segnato un ritorno alla realtà, ai fatti. Dietro l'altisonante annuncio del «più grande stimolo fiscale e monetario e del più completo programma di sostegno del settore finanziario dei tempi moderni», si intravede, molto meno visibile, nascosto nel mezzo del comunicato finale, un paragrafo sulle "exit strategies" per assicurare la «stabilità dei prezzi». «E' rassicurante», perché «indica che c'è almeno una qualche consapevolezza del fatto che la strategia promossa dagli Usa di stampare migliaia di miliardi di dollari per finanziare lo stimolo globale porta con sé la minaccia di una futura inflazione piuttosto significativa - a meno che le banche centrali non restringano questa politica monetaria espansiva prima che arrivi l'inflazione».
Un'altra prova di realismo è che «la maggior parte degli altri impegni dovranno essere attuati non da un'unica entità chiamata G20, ma da 20 o più singole nazioni sovrane». Anche il proposito di eliminare i "paradisi fiscali" sembra più che altro un «disperato tentativo» da parte di quelle nazioni la cui spesa pubblica ha raggiunto un livello tale che sono disperatamente alla ricerca di introiti fiscali. «Se la vera questione fosse l'"armonizzazione" fiscale attraverso i confini a livelli relativamente alti di tassazione, ci sarebbe da chiedersi dove il mondo troverà gli incentivi per una nuova crescita economica».
«Ciò che è emerso a Londra - conclude il WSJ - suggerisce che questi leader riconoscono di essere mortali e che il loro vero lavoro per la ripresa economica dovrà ricominciare quando i loro aerei li avranno riportati a casa».
Accontentate anche Francia e Germania, nella loro richiesta di un più rigido controllo sugli hedge funds e nella loro ossessiva guerra ai "paradisi fiscali", che non c'entrano niente con la crisi, ma c'entrano con la necessità tutta politica di rispondere alle pulsioni populiste delle opinioni pubbliche contro il mondo della finanza. «Addio paradisi fiscali», ha potuto annunciare trionfalmente Sarkozy. Compariranno in una "lista nera" compilata dall'Ocse e quelli che non coopereranno saranno oggetto di sanzioni. «L'era della segretezza bancaria è finita», si legge nel comunicato di Londra. Ma è molto meno di quel più grande e più centralizzato sistema di regolazione finanziaria globale che alcuni paesi europei volevano.
Escono sconfitti i top manager, le cui remunerazioni e bonus saranno legati alla performance complessiva e di lungo periodo dell'impresa, i trader e le banche, che saranno sottoposti a requisiti di capitale più severi e a controlli più rigidi della leva finanziaria.
Annunciato anche un approccio comune per ripulire le banche dagli "asset tossici" e un nuovo Consiglio per la stabilità finanziaria globale, per una maggiore cooperazione internazionale nella vigilanza. Infine, la messa all'indice dei paesi che non rispettano le regole internazionali del commercio dovrebbe scongiurare un ritorno al protezionismo, anche se la maggior parte delle nazioni del G20 ha adottato striscianti misure protezionistiche fin dall'inizio della crisi.
Al di là dei toni entusiastici, e di quel numero facile da ricordare - 1000 miliardi - secondo il Wall Street Journal il G20 ha segnato un ritorno alla realtà, ai fatti. Dietro l'altisonante annuncio del «più grande stimolo fiscale e monetario e del più completo programma di sostegno del settore finanziario dei tempi moderni», si intravede, molto meno visibile, nascosto nel mezzo del comunicato finale, un paragrafo sulle "exit strategies" per assicurare la «stabilità dei prezzi». «E' rassicurante», perché «indica che c'è almeno una qualche consapevolezza del fatto che la strategia promossa dagli Usa di stampare migliaia di miliardi di dollari per finanziare lo stimolo globale porta con sé la minaccia di una futura inflazione piuttosto significativa - a meno che le banche centrali non restringano questa politica monetaria espansiva prima che arrivi l'inflazione».
Un'altra prova di realismo è che «la maggior parte degli altri impegni dovranno essere attuati non da un'unica entità chiamata G20, ma da 20 o più singole nazioni sovrane». Anche il proposito di eliminare i "paradisi fiscali" sembra più che altro un «disperato tentativo» da parte di quelle nazioni la cui spesa pubblica ha raggiunto un livello tale che sono disperatamente alla ricerca di introiti fiscali. «Se la vera questione fosse l'"armonizzazione" fiscale attraverso i confini a livelli relativamente alti di tassazione, ci sarebbe da chiedersi dove il mondo troverà gli incentivi per una nuova crescita economica».
«Ciò che è emerso a Londra - conclude il WSJ - suggerisce che questi leader riconoscono di essere mortali e che il loro vero lavoro per la ripresa economica dovrà ricominciare quando i loro aerei li avranno riportati a casa».
Monday, December 22, 2008
I "laghi di credito" della Fed
Con gli ultimi tagli dei tassi d'interesse, praticamente azzerati, la Fed sta inondando l'economia americana di liquidità per scongiurare l'eventualità di una deflazione, ma c'è chi è più preoccupato del rischio che tutto questo denaro generi piuttosto inflazione e nuove bolle come quella immobiliare. Secondo Gerald O'Driscoll, del Cato Institute, «lo spettro della deflazione sta perseguitando» il presidente della Fed Ben Bernanke. Il taglio dei tassi di martedì scorso riflette la sua paura di un'altra Grande Depressione stile anni '30. Ma c'è anche chi invece prevede che questo e i precedenti tagli provocheranno inflazione.
«Siamo dunque di fronte a un'altra Grande Depressione, o ad un'inflazione galoppante?» si chiede O'Driscoll: «Nessuna delle due è probabile, ma per la prima volta da decenni, nessuna delle due paure può essere esclusa su due piedi. Sì, l'economia americana sta per essere sferzata da forze sia deflazionistiche che inflazionistiche. Per il momento - spiega - con l'indice dei prezzi al consumo caduto dell'1,7%, la deflazione sembra in vantaggio». Ma la deflazione è «una sostenuta caduta dei prezzi», mentre la discesa che abbiamo visto «per lo più riflette l'esplosione della bolla petrolifera, non una tendenza di lungo termine. Inoltre, la debolezza dell'economia ha raffreddato la propensione agli acquisti non necessari».
Ma è improbabile che tutto ciò provochi deflazione, anche perché il presidente della Fed Bernanke è spaventato da una deflazione e da una depressione anni '30 e ha adottato - e adotterà se necessario - misure straordinarie per fornire liquidità al mercato del credito. In questi anni - ricorda O'Driscoll - la Fed ha creato «laghi di credito». «Questi laghi sono ora contenuti da una diga di paura e cautela, ma quando la diga si romperà potrebbe scatenarsi forze inflazionistiche difficili da contenere. I tassi all'1% sotto Greenspan ci hanno portati alla bolla immobiliare, quelli allo 0% sotto Bernanke possono scatenare una nuova bolla. Per ora, questa possibilità sembra remota. Ma forse il prezzo dell'oro sopra gli 800 dollari sta a indicare qualcosa: inflazione, non depressione, nel 2010 e oltre», conclude O'Driscoll.
«Siamo dunque di fronte a un'altra Grande Depressione, o ad un'inflazione galoppante?» si chiede O'Driscoll: «Nessuna delle due è probabile, ma per la prima volta da decenni, nessuna delle due paure può essere esclusa su due piedi. Sì, l'economia americana sta per essere sferzata da forze sia deflazionistiche che inflazionistiche. Per il momento - spiega - con l'indice dei prezzi al consumo caduto dell'1,7%, la deflazione sembra in vantaggio». Ma la deflazione è «una sostenuta caduta dei prezzi», mentre la discesa che abbiamo visto «per lo più riflette l'esplosione della bolla petrolifera, non una tendenza di lungo termine. Inoltre, la debolezza dell'economia ha raffreddato la propensione agli acquisti non necessari».
Ma è improbabile che tutto ciò provochi deflazione, anche perché il presidente della Fed Bernanke è spaventato da una deflazione e da una depressione anni '30 e ha adottato - e adotterà se necessario - misure straordinarie per fornire liquidità al mercato del credito. In questi anni - ricorda O'Driscoll - la Fed ha creato «laghi di credito». «Questi laghi sono ora contenuti da una diga di paura e cautela, ma quando la diga si romperà potrebbe scatenarsi forze inflazionistiche difficili da contenere. I tassi all'1% sotto Greenspan ci hanno portati alla bolla immobiliare, quelli allo 0% sotto Bernanke possono scatenare una nuova bolla. Per ora, questa possibilità sembra remota. Ma forse il prezzo dell'oro sopra gli 800 dollari sta a indicare qualcosa: inflazione, non depressione, nel 2010 e oltre», conclude O'Driscoll.
Wednesday, March 12, 2008
Bufale quotidiane, per ignoranza e pregiudizi
I giornali italiani una ne scrivono mille ne combinano. Eclatanti due casi nelle ultime ore.
Oggi pomeriggio sono stati diffusi dal Ministero dell'Economia i dati della Trimestrale di cassa, ovviamente disastrosi: il "tesoretto", se c'è, lo scopriremo solo a giugno, Padoa-Schioppa non si sbilancia, ma intanto sono riviste al ribasso, e di molto, le stime di crescita del Pil nel 2008: +1,5%, aveva previsto il governo qualche mese fa; +0,6% dice ora. Rivista invece al rialzo l'inflazione, al 2,6%. «Risanamento solido», esulta il ministro, il che è come dire: "L'intervento è riuscito ma il paziente è morto".
Ebbene, Corriere.it titola: «Pil dimezzato» (!). Come dimezzato? Il Pil «dimezzato» è compatibile con uno scenario post guerra atomica. Dimezzata, semmai, potrà essere la crescita del Pil, altrimenti vorrebbe dire che una recessione fulminea ha eroso il 50% della ricchezza prodotta ogni anno in Italia. E' evidente che chi ha inserito quel titolo non ha idea di cosa sia il Pil e a cosa si riferisca quel +0,6%, che è un indice di incremento. Insomma, non è all'improvviso sparita mezza torta, ma solo metà della sottile fetta che ogni anno si aggiunge alla torta intera. Vallo a spiegare...
Quel titolo, «Pil dimezzato», è rimasto a caratteri cubitali sull'homepage di Corriere.it per alcune ore, per essere sostituito poi dal più cauto «Stime dimezzate sul Pil».
Il secondo strafalcione, stavolta non dovuto all'ignoranza ma al pregiudizio anti-americano, riguarda tutti (o quasi) i quotidiani italiani, anche di centrodestra (mi riferisco a il Giornale). Tutti oggi riportavano in grande evidenza e con malcelata soddisfazione la notizia secondo cui gli Stati Uniti avrebbero «cancellato» la Cina dalla lista dei «cattivi», quei Paesi che violano sistematicamente i diritti umani. Falso. Si salva solo La Stampa, che titola: «La Cina esce dalla top ten dei cattivi». Ah, dalla «top ten»! Già è meglio.
La maggior parte dei titoli lasciavano intendere che gli Usa non contestassero più alla Cina le violazioni dei diritti umani. Washington è più accondiscendente con Pechino nell'anno delle Olimpiadi, era la maliziosa lettura politica che i somari in redazione davano. Il segno politico è esattamente il contrario. Il rapporto annuale redatto dal Dipartimento di Stato Usa contiene invece un duro atto d'accusa nei confronti della Cina, fornendo l'elenco e la descrizione dettagliati delle violazioni, sottolineando addirittura il peggioramento di alcune situazioni. Giudizio severo anche per la Russia di Putin, di cui si denuncia l'involuzione autoritaria.
Se la Cina non risulta - per quest'anno - tra i primi dieci per "cattiveria", basta andarsi a leggere chi sono i primi dieci più "cattivi" (Corea del Nord, Myanmar, Iran, Siria, Zimbabwe, Cuba, Bielorussia, Uzbekistan, Eritrea e Sudan) per non rimanere stupiti più di tanto. A pesare in questi casi è anche il grado di chiusura e impenetrabilità dei regimi dall'esterno. Una decisione che si può non condividere - e non la condivido - ma non sono certo cancellate dal rapporto le violazioni della Cina.
Oggi pomeriggio sono stati diffusi dal Ministero dell'Economia i dati della Trimestrale di cassa, ovviamente disastrosi: il "tesoretto", se c'è, lo scopriremo solo a giugno, Padoa-Schioppa non si sbilancia, ma intanto sono riviste al ribasso, e di molto, le stime di crescita del Pil nel 2008: +1,5%, aveva previsto il governo qualche mese fa; +0,6% dice ora. Rivista invece al rialzo l'inflazione, al 2,6%. «Risanamento solido», esulta il ministro, il che è come dire: "L'intervento è riuscito ma il paziente è morto".
Ebbene, Corriere.it titola: «Pil dimezzato» (!). Come dimezzato? Il Pil «dimezzato» è compatibile con uno scenario post guerra atomica. Dimezzata, semmai, potrà essere la crescita del Pil, altrimenti vorrebbe dire che una recessione fulminea ha eroso il 50% della ricchezza prodotta ogni anno in Italia. E' evidente che chi ha inserito quel titolo non ha idea di cosa sia il Pil e a cosa si riferisca quel +0,6%, che è un indice di incremento. Insomma, non è all'improvviso sparita mezza torta, ma solo metà della sottile fetta che ogni anno si aggiunge alla torta intera. Vallo a spiegare...
Quel titolo, «Pil dimezzato», è rimasto a caratteri cubitali sull'homepage di Corriere.it per alcune ore, per essere sostituito poi dal più cauto «Stime dimezzate sul Pil».
Il secondo strafalcione, stavolta non dovuto all'ignoranza ma al pregiudizio anti-americano, riguarda tutti (o quasi) i quotidiani italiani, anche di centrodestra (mi riferisco a il Giornale). Tutti oggi riportavano in grande evidenza e con malcelata soddisfazione la notizia secondo cui gli Stati Uniti avrebbero «cancellato» la Cina dalla lista dei «cattivi», quei Paesi che violano sistematicamente i diritti umani. Falso. Si salva solo La Stampa, che titola: «La Cina esce dalla top ten dei cattivi». Ah, dalla «top ten»! Già è meglio.
La maggior parte dei titoli lasciavano intendere che gli Usa non contestassero più alla Cina le violazioni dei diritti umani. Washington è più accondiscendente con Pechino nell'anno delle Olimpiadi, era la maliziosa lettura politica che i somari in redazione davano. Il segno politico è esattamente il contrario. Il rapporto annuale redatto dal Dipartimento di Stato Usa contiene invece un duro atto d'accusa nei confronti della Cina, fornendo l'elenco e la descrizione dettagliati delle violazioni, sottolineando addirittura il peggioramento di alcune situazioni. Giudizio severo anche per la Russia di Putin, di cui si denuncia l'involuzione autoritaria.
Se la Cina non risulta - per quest'anno - tra i primi dieci per "cattiveria", basta andarsi a leggere chi sono i primi dieci più "cattivi" (Corea del Nord, Myanmar, Iran, Siria, Zimbabwe, Cuba, Bielorussia, Uzbekistan, Eritrea e Sudan) per non rimanere stupiti più di tanto. A pesare in questi casi è anche il grado di chiusura e impenetrabilità dei regimi dall'esterno. Una decisione che si può non condividere - e non la condivido - ma non sono certo cancellate dal rapporto le violazioni della Cina.
Friday, March 07, 2008
Tremonti protezionista come Obama, McCain è global

«Forse è il caso di avvertire Obama e McCain che anche sui loro programmi elettorali — e non solo su quello del PdL — sta per abbattersi la scomunica» di protezionismo, ironizza Tremonti. Ebbene, si sbaglia di grosso. Forse, ma solo forse, le sue politiche commerciali sono simili a quelle di Obama (e di questo avremmo - lui e noi - di che preoccuparci), ma di certo non a quelle di McCain, come dimostra questa pagina che ci segnala Christian Rocca sul suo blog.
L'ex ministro inoltre ricorda che a dazi e quote l'Ue ha già fatto ricorso, «su pressione — tra l'altro — dell'industria e del governo italiani» (tra gli artefici la "ex liberista" Emma Bonino). Ebbene, non so se Tremonti si renda conto, ma dopo essersi paragonato ad Obama sta dicendo di voler prendere esempio dal Governo Prodi. E comunque sì, è vero, il dibattito su dazi e quote non è una novità in Europa, il punto è capire se le politiche protezionistiche siano vantaggiose per le nostre imprese e la nostra economia.
Da accogliere positivamente, invece, il chiarimento di Tremonti: «Ridurre la regolamentazione comunitaria» si riferisce a quella «regolamentazione eccessiva» di tipo burocratico (anche ai sussidi previsti dalla Pac?) e non ai vincoli e ai controlli europei per il rispetto della concorrenza.
«Parlare di beni di prima necessità, di Comuni e di volontariato, in definitiva di povertà, può essere dibattuto e controverso e certo anche criticato», ma non ci si può ridere sopra, lamenta infine Tremonti. Certo, ma bisogna vedere quali sono le ricette: se assistenzialismo o riforme liberali.
A Tremonti risponde indirettamente questo articolo di Fabrizio Onida, sul Sole 24 Ore, sul «fascino illusorio dei dazi contro la Cina». Il rischio dei dazi è «di ottenere in pratica risultati nulli se non controproducenti». Ormai l'interdipendenza economica è tale che non c'è un singolo prodotto sul quale aumentare i costi d'importazione introducendo i dazi non danneggerebbe anche le imprese e/o i consumatori.
I dazi e le quote «su prodotti intermedi (destinati a usi industriali, non all'utilizzatore finale) che le imprese importano da fornitori cinesi o dalle loro stesse affiliate in Cina e altri Paesi asiatici aumentano i costi dei prodotti finali, danneggiando la competitivita dei produttori a valle: parliamo di componenti metallurgiche, chimiche e plastiche, moltissime parti e componenti meccaniche elettriche ed elettroniche», e così via...
Inoltre, la globalizzazione rende possibile l'arrivo sui nostri mercati di «prodotti finali di consumo a basso prezzo, realizzando ricchi margini di guadagno, ma pur sempre fornendo un servizio gradito alle (purtroppo numerose) famiglie di consumatori a basso reddito. Va da sé che non parliamo di prodotti illegalmente contraffatti o nocivi alla salute, contro cui è legittimo e doveroso agire con misure restrittive».
Dunque, osserva Onida, «queste misure di disperata difesa contro la concorrenza dal basso rischiano di allentare la pressione sulle aziende e sulle istituzioni per mettere in atto l'unica strategia di vera sopravvivenza nel mercato globale e di valorizzazione del capitale umano del Paese, oggi a rischio di degrado. Non potendo invocare implausibili abbassamenti dei salari e degli standard di lavoro in casa nostra... per competere con i giganti emergenti (come Cina, India, Vietnam, Brasile) occorre puntare su aumenti significativi e continui della produttività. Aumenti che vengono conquistati tramite innovazione tecnologica nei processi, innovazione e creatività nella qualità...», che i governi europei dovrebbero rendere meno costosi alle proprie imprese.
«Più che difenderci dalla nuova prorompente concorrenza con precarie e spesso dannose misure protezionistiche del mercato interno, conta mantenere aperti i nostri mercati internazionali di sbocco, puntare sull'appetibilità dei nostri prodotti e tecnologie presso una platea crescente di clienti negli altri Paesi». Anche perché si calcola che entro il 2010 «vi saranno una classe media di oltre 80 milioni di famiglie nella sola Cina e 40 milioni in India, un mercato più grande di quello paragonabile di Francia, Germania e Spagna messe insieme».
A Tremonti e al suo nuovo libro ("La paura e la speranza") rispondono anche intellettuali liberali come De Nicola, Antiseri e Mingardi.
«Da sessantottino che era in gioventù, Tremonti è diventato un conservatore ottocentesco. Assomiglia a certi aristocratici inglesi, che consideravano la rivoluzione industriale una sciagura... Ma la storia parla chiaro: l'apertura economica e culturale ha sempre generato pace e sviluppo, mentre la chiusura ha regolarmente prodotto la stagnazione e la guerra».Ma l'analisi più appronfondita ed efficace del libro di Tremonti è quella di Alberto Mingardi, su il Riformista di oggi. Tremonti, scrive, «non si distanzia poi molto da una tradizione "di destra", piuttosto comune nell'Europa continentale... In Francia e in Germania "di destra" sono l'ordine e una media ponderata degli interessi rilevanti: non la spiazzante promessa di abbattere l'intermediazione politica».
Alessandro De Nicola (Adam Smith Society)
«L'unico modo di fronteggiare la concorrenza internazionale è rendersi competitivi, puntando su specializzazione e innovazione. Non si può rinunciare ai benefici del libero scambio...»
Dario Antiseri
«Nel tentare di ricostruire una destra d'ordine, capace di aggregare consenso attorno a una rivalutazione dell'idea di autorità, non diversamente da tanti conservatori prima di lui», Tremonti «identifica nel mercato un agente disgregante»: denuncia quindi la globalizzazione e, in questo «non lontano dai teorici della sinistra no global», il suo sistema di valori, ovvero un «liberismo impersonale e materialista, corresponsabile della deflagrazione dei buoni valori dei padri».
Tremonti lamenta il «caro-vita» mondiale, perché i Paesi emergenti fanno crescere la domanda di materie prime come petrolio e grano, ma egli stesso cita i jeans cinesi a 5 euro e i voli low cost, che hanno permesso alla nostra generazione di viaggiare come e quanto i nostri padri non hanno potuto. In realtà, ricorda Mingardi, «laddove ci sono mercati aperti i prezzi tendono comunque a ridursi». Siamo sicuri che il «caro-vita» in Italia dipenda dalla «concorrenza globale» e non dai salari più bassi d'Europa, dai più alti costi d'impresa d'Europa, dalla bolletta energetica più alta d'Europa, delle mancate liberalizzazioni e da molto altro ancora? Le merci che vengono dalla Cina (quelle contraffatte e illegali vanno naturalmente combattute) «hanno calmierato molti beni, a beneficio soprattutto dei meno abbienti».
Sulle «qualità morali del libero scambio» come minaccia all'ordine morale e sociale dell'Europa, anche qui Tremonti è in buona compagnia: «Un'ampia famiglia di reazionari e comunitaristi ha sempre pensato che locale e globale, comunità e mercato, dovessero essere coppie antinomiche». L'esperienza dimostra il contrario, se la Coca Cola «non ammazza» affato il Barolo, «il mercato globale è una costellazione di nicchie». Ma qui c'è il salto di qualità di Mingardi, che coglie l'atteggiamento culturale di fondo in cui si muove il ragionare tremontiano: «Per i socialisti e per gli artistocratici (aggiungerei, per i cattolici, n.d.r.), lo scambio è volgare prima d'essere ingiusto», e per questo l'arricchito con il commercio una figura disprezzabile.
Certo, «l'internazionalizzazione "imbastardisce" le culture», ma «in una prospettiva liberale, questo è una ricchezza, non un problema. Ma solo perché il liberalismo è naturalmente cosmopolita. Se agli individui lontani da noi migliaia di miglia riconosciamo la stessa dignità d'individui del nostro vicino di casa, l'oggetto del saggio di Tremonti diventa inconcepibile».
Monday, February 25, 2008
Dal declino con Berlusconi al decesso con Prodi
I dati che stanno emergendo in questi giorni lasciano poco spazio a dubbi. Neanche due anni di Governo Prodi, sostenuto principalmente dal Pd oggi guidato da Veltroni, lasciano il Paese in condizioni peggiori di come lo lasciava Berlusconi nel 2006.
I dati sull'inflazione diffusi dall'Istat (2,9%), mai così alta da sette anni a questa parte; le stime della Commissione Ue sulla crescita per il 2008, che ci vede ultimi tra i Paesi europei con il Pil in picchiata verso lo zero; i salari più bassi d'Europa; il dato confortante delle esportazioni che a questo punto c'è da temere sia dovuto alla crisi del mercato interno; e, oggi, il dato dell'Eurispes sull'inflazione reale all'8%. Dal 2001 al 2005, spiega il presidente dell'Eurispes, Gian Maria Fara, «abbiamo calcolato una crescita complessiva dell'inflazione del 23,7%. Dopo una fase di stasi l'inflazione ha ripreso a crescere nel corso del 2006 e 2007 a una media del 5% e ha registrato negli ultimi mesi del 2007 e in questi primi mesi del 2008 una nuova fiammata fino all'8%. In considerazione di questo andamento la perdita media del potere d'acquisto tra le diverse categorie si è ormai attestata intorno al 35 per cento».
Fattori esterni? Non solo, soprattutto una crisi di produttività: la nostra economia è al tappeto, non crea ricchezza e quindi i salari non crescono. Tasse, rigidità dei mercati, debito pubblico ci soffocano.
Come fanno gli italiani ad arrivare alla fine del mese? Moltissime coppie, soprattutto le più giovani, sono costrette a farsi ancora aiutare dalle famiglie di origine, cui non rimane altro che diventare «erogatori di servizi» per i propri figli offrendo, per esempio, lavoro di cura per i nipotini, facendo la spesa, ecc. In molti altri casi, invece, il reddito delle famiglie viene integrato ogni mese con 1.330 euro "in nero".
Qualcuno (tra gli ex radicali?) fa notare che siamo passati dal «declino» con Berlusconi al «decesso» con Prodi. Chi risponde politicamente di questa situazione? Prodi, Visco e Padoa Schioppa si sono fatti da parte, sono scomparsi, ma i partiti che lo hanno sostenuto sono ancora lì e sorridono. Stanno facendo finta di niente. Il Pd si presenta con il volto sereno e furbastro di Veltroni, ma oltre ad aver tenuto in piedi quel governo fino all'altro giorno e a riempire le sue file al 70%, oggi ne difende persino l'operato, non spiegando come mai nessuno dei protagonisti viene ripresentato.
I dati sull'inflazione diffusi dall'Istat (2,9%), mai così alta da sette anni a questa parte; le stime della Commissione Ue sulla crescita per il 2008, che ci vede ultimi tra i Paesi europei con il Pil in picchiata verso lo zero; i salari più bassi d'Europa; il dato confortante delle esportazioni che a questo punto c'è da temere sia dovuto alla crisi del mercato interno; e, oggi, il dato dell'Eurispes sull'inflazione reale all'8%. Dal 2001 al 2005, spiega il presidente dell'Eurispes, Gian Maria Fara, «abbiamo calcolato una crescita complessiva dell'inflazione del 23,7%. Dopo una fase di stasi l'inflazione ha ripreso a crescere nel corso del 2006 e 2007 a una media del 5% e ha registrato negli ultimi mesi del 2007 e in questi primi mesi del 2008 una nuova fiammata fino all'8%. In considerazione di questo andamento la perdita media del potere d'acquisto tra le diverse categorie si è ormai attestata intorno al 35 per cento».
Fattori esterni? Non solo, soprattutto una crisi di produttività: la nostra economia è al tappeto, non crea ricchezza e quindi i salari non crescono. Tasse, rigidità dei mercati, debito pubblico ci soffocano.
Come fanno gli italiani ad arrivare alla fine del mese? Moltissime coppie, soprattutto le più giovani, sono costrette a farsi ancora aiutare dalle famiglie di origine, cui non rimane altro che diventare «erogatori di servizi» per i propri figli offrendo, per esempio, lavoro di cura per i nipotini, facendo la spesa, ecc. In molti altri casi, invece, il reddito delle famiglie viene integrato ogni mese con 1.330 euro "in nero".
Qualcuno (tra gli ex radicali?) fa notare che siamo passati dal «declino» con Berlusconi al «decesso» con Prodi. Chi risponde politicamente di questa situazione? Prodi, Visco e Padoa Schioppa si sono fatti da parte, sono scomparsi, ma i partiti che lo hanno sostenuto sono ancora lì e sorridono. Stanno facendo finta di niente. Il Pd si presenta con il volto sereno e furbastro di Veltroni, ma oltre ad aver tenuto in piedi quel governo fino all'altro giorno e a riempire le sue file al 70%, oggi ne difende persino l'operato, non spiegando come mai nessuno dei protagonisti viene ripresentato.
Thursday, February 14, 2008
All'Italia serve uno shock lungo una legislatura

All'allarme del Sole 24 Ore (niente tesoretto, buco di 7 miliardi e necessaria manovrina) e a quello della Corte dei Conti («incontrollato aumento della spesa corrente») si aggiunge il dato della produzione industriale in calo del 4%. Per non parlare dell'impennata dell'inflazione (a gennaio registrata dall'Istat in aumento del 2,9% rispetto allo stesso mese del 2007) e del dato dei salari fornito dalla Banca d'Italia, i più bassi d'Europa e a crescita zero dal 2000 considerando gli aumenti annui del costo della vita. Questo quadro è tanto più sconfortante se confrontato con le timide proposte economiche trapelate in questi giorni dai programmi, in verità ancora in via di elaborazione, dei due maggiori partiti, Pd e PdL.
Entrambi si limitano ad interventi - annunciati nelle interviste a Nicola Rossi e a Renato Brunetta, ma confermati sia da Veltroni che da Berlusconi, ieri sera a Porta a Porta - sulla cosiddetta «contrattazione di secondo livello»: detassazione sulle parti della retribuzione legate alla produttività e al merito e sugli straordinari. Una mancia che, se non proprio impercettibile rischia comunque di non modificare in modo apprezzabile le buste paga. Forse capace di provocare un breve sussulto di produttività, ma certo non di produrre effetti rilevabili e prolungati sul potere d'acquisto e sulla crescita.
Soprattutto dal PdL ci aspettiamo molto più coraggio. Se le proposte di politica fiscale rimanessero queste, Veltroni avrebbe gioco facile nell'eguagliarle. Berlusconi non dovrebbe sottovalutare l'inedita concorrenza del Pd su questo piano: per la prima volta promette di ridurre le tasse e per la prima volta si presenta agli elettori con la maggiore credibilità che gli deriva dalla scelta di correre da solo, finalmente non più alleato con la sinistra comunista e massimalista. E se la competizione si confermerà fortemente personalizzata, una sorta di referendum tra i due leader, con i due partiti e i due programmi relegati in secondo piano, allora Veltroni potrebbe anche indovinare la campagna elettorale, riuscendo a diffondere su di sé l'immagine della freschezza e sull'avversario della stanchezza.
Il taglio dell'Ici; le detassazioni sui salari; una seria riforma delle pensioni; i disegni di legge che saranno varati nei primi consigli dei ministri. Tutto ottimo, ma oltre alle misure più urgenti, da attuare nei primi 100 giorni e persino nelle prime 100 ore, ci vorrebbe un progetto di legislatura per un consistente taglio delle tasse e della spesa pubblica, supportato da cifre, scadenze e impegni precisi. Berlusconi non parla più di aliquote Irpef, se non, come ha fatto ieri sera da Vespa, per evocare l'obiettivo dei sogni: arrivare a una tassazione massima del 33%. Obiettivo dei sogni, o Berlusconi si impegnerà a portarlo a compimento entro la prossima legislatura? E perché non la flat tax al 20% in 5 anni, come propone, dati alla mano, Decidere.net?
L'obiettivo di ridurre dell'1% sia la spesa pubblica che la pressione fiscale nel 2008 va nella direzione giusta, ma sono dimensioni che a mio avviso denotano una percezione ancora approssimativa, erronea per difetto, della gravità e delle proporzioni dell'emergenza economica e sociale nel nostro Paese. Occorre invece uno shock fiscale, tale da restituire nelle tasche degli italiani la cospicua parte di ricchezza che la politica ha sottratto loro dimostrando poi di non essere capace di spenderla nel migliore dei modi.
Siamo al paradosso che da uno stipendio lordo di 1.600 euro, che a mio modo di vedere dovrebbe essere totalmente o quasi esente da tassazione, si arriva a un netto in busta paga di 1.100 euro. Il problema dei problemi in Italia, una vera e propria questione sociale fonte di privilegi e ingiustizie, è una macchina statale inefficiente che succhia la linfa vitale della nostra società. «Per voltare pagina l'Italia deve liberarsi dalla mentalità statalista e dirigista che ha prevalso nell'ultimo mezzo secolo, mentalità che chiamerei cattocomunista», ha scritto ieri, su Libero, il prof. Antonio Martino.
L'espansione dei compiti che lo Stato si attribuisce, e per i quali chiede ulteriori risorse, lo rende poi incapace di assolvere al meglio i compiti essenziali che giustificano la sua esistenza. L'espansione dei compiti dello Stato non è dovuta a reali esigenze dei cittadini, ma al bisogno della classe politica di controllare e gestire sempre più servizi, perché tramite quel controllo e quella gestione crea rapporti di clientela e ricava consensi per rimanere al potere.
Per ridurre il peso dello Stato non si può partire dai tagli sulle varie voci di spesa, perché quando ci si siede a tavolino tutto sembra indispensabile ai governi che non vogliono scontentare nessuno per non perdere quote di consenso. Si deve partire "affamando la bestia". Tagliando radicalmente le aliquote fiscali. Restituire le risorse direttamente nelle mani dei ceti produttivi, sia imprenditori che lavoratori, togliendole da quelle del ceto parassitario dei politici, dei burocrati e degli assistiti.
L'Europa chiede all'Italia un tasso di occupazione femminile del 60% entro il 2010, ma siamo drammaticamente fermi al 46,3%, dato rilevato nel 2006, penultimi in Europa. E ciò costituisce certamente un freno rilevante alla crescita economica. A fronte di tanti tagli possibili nella Pubblica amministrazione, dei tanti compiti che lo Stato non dovrebbe svolgere, servirebbe un grande programma statale - lo diciamo da liberisti pragmatici - e temporaneo (finché non torni ad aumentare la ricchezza pro capite), per rendere meno gravoso alle donne conciliare lavoro e maternità: un buono-asilo sia alle donne sia ai comuni da finanziare con l'innalzamento dell'età pensionabile da 60 a 65 anni.
Se non si ha il coraggio di chiedere esplicitamente adesso, in campagna elettorale, i voti agli elettori sulla base di tali impegni (due o tre di grande portata, qualificanti), non si avranno mai la forza e la legittimazione sufficienti, una volta al governo, per procedere con un forte ridimensionamento della tassazione e, quindi, del peso dello Stato.
Tuesday, February 05, 2008
Non possiamo aspettare
Se associamo i dati sui salari italiani, i più bassi d'Europa, all'impennata dell'inflazione registrata dall'Istat (a gennaio +2,9% rispetto allo stesso mese del 2007), ai livelli massimi dal 2001, e all'«incontrollato aumento della spesa corrente» denunciato dalla Corte dei Conti, ricaviamo un panorama completo dell'impoverimento e del malgoverno di cui è responsabile Prodi, e dell'urgenza di trovare nelle urne un colpo d'ala, un Governo che sia almeno in grado di affrontare immediatamente l'emergenza economica.
C'è il Dpef da preparare e proprio in questa fase non può essere lasciato a un governo balneare senza alcuna forza e legittimazione popolare.
C'è il Dpef da preparare e proprio in questa fase non può essere lasciato a un governo balneare senza alcuna forza e legittimazione popolare.
Tuesday, January 29, 2008
I redditi soffocati da euro e tasse
Quante volte ci è capitato di non riconoscere la nostra quotidiana esperienza di consumatori nelle statistiche ufficiali sull'inflazione? Ebbene, per una volta la percezione comune dei cittadini sembra trovare una corrispondenza statistica e una spiegazione logica nel rapporto diffuso ieri dalla Banca d'Italia sui bilanci delle famiglie.
Già da un'indagine di qualche giorno fa risultavano in Italia i redditi più bassi tra quelli percepiti nei Paesi Ue. Ora la Banca d'Italia avverte che nel periodo 2000-2006 il reddito delle famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente è rimasto sostanzialmente fermo, con un aumento impercettibile dello 0,96%, mentre nello stesso periodo ha fatto registrare una crescita sostanziosa, del 13,86%, il reddito delle famiglie con capofamiglia lavoratore autonomo.
A fronte di un aumento di reddito solo dello 0,96% in un arco di tempo così lungo, è ovvio che anche i dati più ottimistici e confortanti sull'inflazione rappresentino un'oggettiva sofferenza per le famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente e si prestino quindi ad essere percepiti come falsi. Basta osservare i dati Istat sull'inflazione nello stesso periodo, 2000-2006: +2,5% nel 2000; +2,7% nel 2001; +2,5% nel 2002; +2,7% nel 2003; +2,2% nel 2004; +1,9% nel 2005; +2,1% nel 2006. L'intero aumento di reddito che le famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente hanno percepito nell'arco di sei anni non è sufficiente a recuperare il potere d'acquisto eroso dall'inflazione durante uno solo di questi anni.
Tra le interpretazioni che abbiamo letto oggi sui giornali, quella di Fabrizio Galimberti, su Il Sole 24 Ore, ci è parsa la più convincente, anche perché fa riferimento all'introduzione dell'euro (gennaio 2002). «Gli effetti sui prezzi, e soprattutto la differenza fra inflazione effettiva e inflazione percepita, hanno dato origine a molti studi, che hanno sostanzialmente confermato la correttezza delle rilevazioni dei prezzi e avanzato altre spiegazioni di quella discrasia. Ma non vi è dubbio che il change-over ha permesso a molte categorie, che hanno il controllo sui prezzi dei propri servizi (prezzi che non fanno parte necessariamente delle rilevazioni dell'Istat) di "approfittare" del nuovo metro monetario per appropriarsi di altre fette di reddito. Insomma, l'euro non ha influito sull'inflazione ma sulla distribuzione dei redditi».
Proprio in concomitanza con il passaggio dalla lira all'euro, mentre gli uni ritoccavano verso l'alto i prezzi di merci, beni e servizi - rincari che il mercato ha assorbito, visto che la gente ha continuato ad acquistarli - gli altri hanno visto il livello delle loro retribuzioni rimanere inviariato per anni, acutizzando in questo modo la percezione di un'elevata inflazione e determinando un reale impoverimento.
Ciò non autorizza a criminalizzare i lavoratori autonomi, che hanno lecitamente "approfittato" di un aumento dei prezzi reso possibile e indotto dal nuovo metro monetario e dalle conseguenti difficoltà di orientamento nella spesa da parte dei consumatori. Probabilmente hanno solo sfruttato la prima occasione buona per recuperare parti di reddito che gli erano precluse a causa di una tassazione troppo elevata e di una burocrazia asfissiante.
Rimane il problema: come permettere alle famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente di recuperare il potere d'acquisto perduto in questi anni? Certa sinistra vetero-marxista, e purtroppo anche il Pd, potrebbero essere tentati di massacrare di tasse e studi di settore i lavoratori autonomi nel tentativo di redistribuire il reddito, in parte trasformandolo in servizi pubblici.
Non solo le famiglie, anche le imprese e lo Stato percepiscono redditi. Mentre dal 2000 il reddito disponibile delle famiglie è aumentato di poco, il Pil (che comprende il reddito disponibile delle imprese) è cresciuto di più, ma ancor più nettamente è cresciuto il reddito disponibile della Pubblica Amministrazione, quella parte della pressione fiscale che serve ai servizi pubblici. Insomma, concludeva ironicamente Galimberti, «in teoria le famiglie si possono consolare pensando che hanno ricevuto maggiori redditi virtuali attraverso i servizi pubblici. Ma non è affatto sicuro che ritrovino nella quotidiana esperienza questi benefici...» Infatti, quel reddito di cui i cittadini avrebbero dovuto usufruire tramite servizi pubblici efficienti è rimasto a dir poco virtuale.
Sarebbe un errore far leva sull'invidia sociale, scatenare nuove e fuorvianti lotte di classe tra lavoratori autonomi e dipendenti. L'unica soluzione, a nostro avviso, è tagliare radicalmente le tasse: detassare subito e completamente i nuovi aumenti salariali, gli straordinari e i premi di produttività, e magari introdurre una flat tax al 20% in 5 anni, che costringerebbe anche a ridurre la spesa pubblica. In ogni caso, tagliando in modo coraggioso le aliquote, si restituisce subito reddito nelle buste paga e si rimettono in moto i meccanismi della crescita economica in grado di produrre ulteriore reddito.
Già da un'indagine di qualche giorno fa risultavano in Italia i redditi più bassi tra quelli percepiti nei Paesi Ue. Ora la Banca d'Italia avverte che nel periodo 2000-2006 il reddito delle famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente è rimasto sostanzialmente fermo, con un aumento impercettibile dello 0,96%, mentre nello stesso periodo ha fatto registrare una crescita sostanziosa, del 13,86%, il reddito delle famiglie con capofamiglia lavoratore autonomo.
A fronte di un aumento di reddito solo dello 0,96% in un arco di tempo così lungo, è ovvio che anche i dati più ottimistici e confortanti sull'inflazione rappresentino un'oggettiva sofferenza per le famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente e si prestino quindi ad essere percepiti come falsi. Basta osservare i dati Istat sull'inflazione nello stesso periodo, 2000-2006: +2,5% nel 2000; +2,7% nel 2001; +2,5% nel 2002; +2,7% nel 2003; +2,2% nel 2004; +1,9% nel 2005; +2,1% nel 2006. L'intero aumento di reddito che le famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente hanno percepito nell'arco di sei anni non è sufficiente a recuperare il potere d'acquisto eroso dall'inflazione durante uno solo di questi anni.
Tra le interpretazioni che abbiamo letto oggi sui giornali, quella di Fabrizio Galimberti, su Il Sole 24 Ore, ci è parsa la più convincente, anche perché fa riferimento all'introduzione dell'euro (gennaio 2002). «Gli effetti sui prezzi, e soprattutto la differenza fra inflazione effettiva e inflazione percepita, hanno dato origine a molti studi, che hanno sostanzialmente confermato la correttezza delle rilevazioni dei prezzi e avanzato altre spiegazioni di quella discrasia. Ma non vi è dubbio che il change-over ha permesso a molte categorie, che hanno il controllo sui prezzi dei propri servizi (prezzi che non fanno parte necessariamente delle rilevazioni dell'Istat) di "approfittare" del nuovo metro monetario per appropriarsi di altre fette di reddito. Insomma, l'euro non ha influito sull'inflazione ma sulla distribuzione dei redditi».
Proprio in concomitanza con il passaggio dalla lira all'euro, mentre gli uni ritoccavano verso l'alto i prezzi di merci, beni e servizi - rincari che il mercato ha assorbito, visto che la gente ha continuato ad acquistarli - gli altri hanno visto il livello delle loro retribuzioni rimanere inviariato per anni, acutizzando in questo modo la percezione di un'elevata inflazione e determinando un reale impoverimento.
Ciò non autorizza a criminalizzare i lavoratori autonomi, che hanno lecitamente "approfittato" di un aumento dei prezzi reso possibile e indotto dal nuovo metro monetario e dalle conseguenti difficoltà di orientamento nella spesa da parte dei consumatori. Probabilmente hanno solo sfruttato la prima occasione buona per recuperare parti di reddito che gli erano precluse a causa di una tassazione troppo elevata e di una burocrazia asfissiante.
Rimane il problema: come permettere alle famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente di recuperare il potere d'acquisto perduto in questi anni? Certa sinistra vetero-marxista, e purtroppo anche il Pd, potrebbero essere tentati di massacrare di tasse e studi di settore i lavoratori autonomi nel tentativo di redistribuire il reddito, in parte trasformandolo in servizi pubblici.
Non solo le famiglie, anche le imprese e lo Stato percepiscono redditi. Mentre dal 2000 il reddito disponibile delle famiglie è aumentato di poco, il Pil (che comprende il reddito disponibile delle imprese) è cresciuto di più, ma ancor più nettamente è cresciuto il reddito disponibile della Pubblica Amministrazione, quella parte della pressione fiscale che serve ai servizi pubblici. Insomma, concludeva ironicamente Galimberti, «in teoria le famiglie si possono consolare pensando che hanno ricevuto maggiori redditi virtuali attraverso i servizi pubblici. Ma non è affatto sicuro che ritrovino nella quotidiana esperienza questi benefici...» Infatti, quel reddito di cui i cittadini avrebbero dovuto usufruire tramite servizi pubblici efficienti è rimasto a dir poco virtuale.
Sarebbe un errore far leva sull'invidia sociale, scatenare nuove e fuorvianti lotte di classe tra lavoratori autonomi e dipendenti. L'unica soluzione, a nostro avviso, è tagliare radicalmente le tasse: detassare subito e completamente i nuovi aumenti salariali, gli straordinari e i premi di produttività, e magari introdurre una flat tax al 20% in 5 anni, che costringerebbe anche a ridurre la spesa pubblica. In ogni caso, tagliando in modo coraggioso le aliquote, si restituisce subito reddito nelle buste paga e si rimettono in moto i meccanismi della crescita economica in grado di produrre ulteriore reddito.
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