Pubblicato su formiche
Dal G20 di Amburgo (una sconfitta casalinga per la Merkel) agli abbracci
Trump-Macron sugli Champs-Elysees (manovre di accerchiamento della
Germania?), passando per il discorso di Trump a Varsavia in difesa
dell'Occidente, snobbato dai media, e l'incontro con Putin, che hanno
seppellito i falsi miti su Trump
Con il presidente americano Trump ai Campi Elisi, Parigi, invitato dal presidente francese Macron alle celebrazioni del 14 luglio per la presa della Bastiglia, si chiudono dieci giorni densi di avvenimenti sulla scena internazionale. E si moltiplicano gli indizi che ci inducono a intravedere tempi non facili per la locomotiva tedesca, e quindi per la macchinista, la cancelliera Angela Merkel. Le manovre di accerchiamento sono cominciate, vedremo se assumeranno le sembianze di un vero e proprio assedio a Berlino perché si decida a modificare le sue politiche europee e commerciali.
Forte della sua ambizione e di una solida maggioranza parlamentare, Macron è determinato a riequilibrare il motore franco-tedesco prima che vada fuori giri. Ed è pronto a giocare di sponda con Trump, sfidando persino l'impopolarità del presidente Usa, invitato a cena sulla Tour Eiffel e alle celebrazioni del 14 luglio (con i militari americani ad aprire la parata ai Campi Elisi). Serve luce verde da Washington inoltre per i suoi sogni di "grandeur": la guida della difesa europea e la supremazia francese nel Mediterraneo. Per Londra è addirittura una necessità rivolgersi al di là dell'Atlantico e cercare nell'Anglosfera una prospettiva post-Brexit.
Macron è una buona carta anche per gli Stati Uniti, che hanno sempre sostenuto il progetto europeo, ma non sono contenti della piega germano-centrica che sta prendendo. L'Ue serve a garantire stabilità e benessere agli europei. Gli attuali squilibri, accentuati dalle politiche e dal primato di Berlino, potrebbero non essere sostenibili nel medio periodo e rischiano di compromettere sia stabilità che benessere dell'Europa, indebolendo l'Occidente. Una Germania europea, non un'Europa tedesca avevano in mente gli americani quando hanno sostenuto la riunificazione nel contesto dell'integrazione europea.
Poi c'è la Russia, che preme ai confini orientali dell'Europa. A difesa dei paesi dell'Est, un mercato prezioso per Berlino, non ci sono certo le truppe della cancelliera, ma la Nato, ovvero l'arsenale americano. E nel pieno della crisi con Mosca per l'Ucraina, nonostante il regime di sanzioni, con le sue scelte di politica energetica, tra cui il raddoppio del gasdotto North Stream, la Germania (e l'Ue con essa) ha accresciuto anziché ridurre la dipendenza dal gas russo. Una prospettiva che non può far piacere a Washington.
Ma facciamo un passo indietro. Il G20 di Amburgo si prestava come palcoscenico ideale per l'esordio sulla scena internazionale della "nuova leader del mondo libero" (e liberal), la cancelliera tedesca Angela Merkel. Tuttavia, già alla vigilia si era compreso che qualcosa non tornava, se per far apparire isolata l'America di Trump sul clima aveva dovuto ostentare l'appoggio di Russia e Cina, non esattamente due fari del liberalismo (e ovviamente Putin e Xi non si sono lasciati pregare...), ma soprattutto se la cancelliera, che così meticolosamente in questi mesi ha coltivato il ruolo di Berlino come alfiere del libero commercio e della globalizzazione contro le minacce protezionistiche trumpiane, si era trovata sulla scrivania la seguente storia di copertina dell'Economist: "Il problema tedesco. Perché il surplus commerciale della Germania fa male all'economia mondiale". Ma come, l'organo "ufficiale" dell'intellighentzia "global", dell'ordine economico liberale, che rilancia la stessa identica critica sollevata dall'amministrazione Trump all'indirizzo di Berlino?
Se poi, a leggere la dichiarazione finale del G20 di Amburgo, sulla falsa riga di quella sottoscritta a Taormina, gli echi trumpiani sembrano addirittura dare il tono all'intero documento, non è esagerato parlare di una brutta sconfitta casalinga per la Merkel.
Né i leader del G7 riuniti a Taormina, né quelli del G20 ad Amburgo vedono più la globalizzazione come un fenomeno dalle magnifiche sorti e progressive, anzi ammettono che non tutti ci hanno guadagnato, ci sono dei "perdenti", dei "dimenticati" – quei dimenticati che hanno portato Trump alla Casa Bianca – e riconoscono che "rimangono delle sfide per realizzare una globalizzazione inclusiva, corretta e sostenibile", servono politiche di aggiustamento per mitigarne gli effetti distorsivi.
Ribadito l'impegno per il libero commercio e a "tenere i mercati aperti", tuttavia di fronte "alle pratiche commerciali scorrette" si riconosce "l'uso di strumenti legittimi di difesa commerciale". Strumenti che come abbiamo già scritto per Formiche non fanno solo parte dell'arsenale negoziale del presidente americano, ma sempre più sono invocati anche dai principali soci del club Ue – Francia, Italia e la stessa Germania – per rispondere alle "scorrettezze" cinesi. Nero su bianco, nel documento troviamo le doglianze americane ed europee nei confronti di Pechino sia sul tema dell'acciaio, per la sua eccessiva capacità produttiva, che per il dumping sul costo del lavoro, essendo il mercato cinese ancora lontanissimo dai nostri standard sociali, ambientali e di diritti umani.
A ben vedere nemmeno sul clima la cancelliera tedesca può contare un punto inequivocabilmente a suo favore. Ammesso e non concesso di poter isolare gli Stati Uniti su un tema come il clima, che certo non è alla base dei rapporti transatlantici, l'accordo di Parigi viene sì definito "irreversibile", ma nella dichiarazione si legge anche che verrà applicato "con differenziate responsabilità e rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali". Insomma, una sorta di "liberi tutti", ognuno lo interpreti come vuole... E il presidente turco Erdogan ha già fatto sapere che se non arriva il bonifico dai paesi ricchi la Turchia è anch'essa pronta a uscire dall'accordo.
Sull'immigrazione infine, viene confermato l'approccio già uscito da Taormina: i leader del G20 sottolineano "il diritto sovrano degli stati di controllare e difendere i propri confini e perseguire politiche nel proprio interesse nazionale e per la propria sicurezza nazionale".
Dichiarazione del G20 a parte, a rubare la scena alla Merkel sono stati il discorso di Trump in Polonia e il primo faccia a faccia tra il presidente americano e quello russo, dal quale (doveva durare mezz'ora, senza un'agenda prefissata, ma è durato due ore) è scaturito il primo cessate-il-fuoco a firma Usa-Russia in Siria, sebbene parziale. Certo, le cronache della stampa mainstream vi hanno raccontato altro, ma è comprensibile: il discorso di Varsavia e il primo confronto Trump-Putin hanno contraddetto la narrazione del giornalista collettivo sul nuovo inquilino della Casa Bianca in almeno due aspetti fondamentali. Trump non è il "puppet" di Putin. E l'America di Trump è tutt'altro che isolazionista. "America First" non significa "America alone", come hanno spiegato di recente sul WSJ i consiglieri del presidente McMaster e Cohn. Semmai, vuol dire che l'America è tornata.
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Sunday, July 16, 2017
Friday, November 04, 2011
Sorvegliati speciali
Il monitoraggio Fmi sull'implementazione delle riforme su cui il governo si è impegnato con l'Ue e il G20, che sia stato richiesto o imposto, certifica, come d'altronde ha ammesso esplicitamente la direttrice del Fondo, Christine Lagarde, che il problema dell'Italia è «la mancanza di credibilità» delle misure annunciate. I mercati dubitano che verranno mai realizzate. Ma non illudiamoci che dipenda solo dai demeriti, innegabili, del governo. Si tratta di una mancanza di credibilità, come più volte ho ripetuto su questo blog, "di sistema", delle forze politiche, economiche e sociali, e della stessa opinione pubblica, che in grandissima parte si oppongono ai cambiamenti necessari. Da qui consegue che non basterà cambiare governo per risolvere i problemi, come ci ha ricordato ieri un portavoce di Obama.
Le parole della Lagarde però implicano anche che i cosiddetti fondamentali sono solidi, a conferma di quanto il governo non si stanca di ripetere, irriso da media e commentatori. Se sbaglia il governo, sbaglia anche la Lagarde a individuare principalmente nella «credibilità» il nostro problema. Era inevitabile che la Borsa e gli spread sui nostri titoli risentissero del nostro quasi commissariamento sancito dal G20. L'interessamento dell'Fmi è di per sé la conferma che la situazione è molto seria e gli investitori ne traggono le conseguenze, ma credo che nel medio periodo il monitoraggio, meritato oltre che imbarazzante per la nostra politica e lo stesso governo, non possa far altro che bene al nostro Paese, costringendoci a rispettare gli impegni.
Ma un effetto più pesante su Borsa e spread potrebbe averlo provocato a mio avviso l'offerta di fondi da parte dell'Fmi. Non vedo perché questa volta il premier si sarebbe dovuto inventare una cosa del genere. E' probabile che in effetti l'offerta ci sia stata. Ma peggio che bugiardo, scellerato Berlusconi a rivelarlo solo per pavoneggiarsi di aver rifiutato i fondi. Ovvio che per i mercati è di per sé allarmante che siano stati offerti. E infatti più tardi la Lagarde ha dovuto smentire: l'Fmi «non ha offerto fondi» all'Italia, perché l'Italia «non ha bisogno di linee di credito precauzionali». Questa sì una gaffe molto sciagurata.
Comunque, se è lecito ironizzare sul nostro premier quando dichiara che l'attacco ai nostri titoli è una «moda passeggera», per la cronaca sembra echeggiare proprio Berlusconi il presidente Obama quando afferma che «la crisi in molti casi è psicologica» e che «l'Italia è un grande Paese, con un'enorme base industriale, grande ricchezza, grandi risorse». Ma lui è cool, può permettersi di dire qualsiasi cosa, non rischia di essere sbertucciato.
Le parole della Lagarde però implicano anche che i cosiddetti fondamentali sono solidi, a conferma di quanto il governo non si stanca di ripetere, irriso da media e commentatori. Se sbaglia il governo, sbaglia anche la Lagarde a individuare principalmente nella «credibilità» il nostro problema. Era inevitabile che la Borsa e gli spread sui nostri titoli risentissero del nostro quasi commissariamento sancito dal G20. L'interessamento dell'Fmi è di per sé la conferma che la situazione è molto seria e gli investitori ne traggono le conseguenze, ma credo che nel medio periodo il monitoraggio, meritato oltre che imbarazzante per la nostra politica e lo stesso governo, non possa far altro che bene al nostro Paese, costringendoci a rispettare gli impegni.
Ma un effetto più pesante su Borsa e spread potrebbe averlo provocato a mio avviso l'offerta di fondi da parte dell'Fmi. Non vedo perché questa volta il premier si sarebbe dovuto inventare una cosa del genere. E' probabile che in effetti l'offerta ci sia stata. Ma peggio che bugiardo, scellerato Berlusconi a rivelarlo solo per pavoneggiarsi di aver rifiutato i fondi. Ovvio che per i mercati è di per sé allarmante che siano stati offerti. E infatti più tardi la Lagarde ha dovuto smentire: l'Fmi «non ha offerto fondi» all'Italia, perché l'Italia «non ha bisogno di linee di credito precauzionali». Questa sì una gaffe molto sciagurata.
Comunque, se è lecito ironizzare sul nostro premier quando dichiara che l'attacco ai nostri titoli è una «moda passeggera», per la cronaca sembra echeggiare proprio Berlusconi il presidente Obama quando afferma che «la crisi in molti casi è psicologica» e che «l'Italia è un grande Paese, con un'enorme base industriale, grande ricchezza, grandi risorse». Ma lui è cool, può permettersi di dire qualsiasi cosa, non rischia di essere sbertucciato.
A breccia aperta

Peccato che sull'altare dell'ennesima manovra di palazzo sia stato sacrificato un altro pezzo di credibilità del nostro Paese. Che Berlusconi abbia accettato o meno il monitoraggio dell'Italia da parte del Fmi, il che non è detto sia un male, è evidente che senza quel decreto, quindi senza nuove misure già in vigore, il nostro Paese si è presentato al G20 di Cannes ancor più debole politicamente di quanto già non fosse per i demeriti del governo. Tremonti e - bisogna dirlo - Napolitano portano per intero questa responsabilità. Quella che nelle intenzioni del ministro e a questo punto credo anche del capo dello Stato non era che una tattica parlamentare per favorire la caduta del premier, e quindi una «nuova prospettiva di larga convergenza», agli occhi degli interlocutori internazionali è apparsa come l'ennesima dimostrazione della mancanza di volontà delle istituzioni italiane ad agire con rapidità sulla strada delle riforme.
A ciò si aggiungano altri gravi strappi costituzionali, senza precedenti, come le consultazioni pre-crisi, il ministro dell'Economia che concerta con il capo dello Stato atti di governo alle spalle del Consiglio dei ministri, il presidente della Camera che partecipa in prima persona alla campagna acquisti per far cadere il governo. Cose cui purtroppo assisteremo anche in futuro e che contribuiranno ad aggravare l'instabilità del nostro sistema politico-istituzionale.
Per carità, i motivi di malcontento sono più che fondati e su questo blog non li abbiamo certo nascosti, ma per favore, almeno non credeteci così scemi da berci il racconto di improvvisi sussulti di responsabilità istituzionale. I movimenti di queste ore non hanno nulla a che fare né con il merito della politica del governo (anzi, sarà un caso che proprio ora che sembra costretto a cimentarsi in riforme serie, si fanno mancare i voti?), né con la credibilità di Berlusconi, né con l'assenza di dibattito nel Pdl, e nemmeno con chissà quali nobili strategie politiche. Semplicemente lo scenario è cambiato, un Berlusconi che ha provato a reagire e a rilanciarsi si è ulteriormente indebolito, forse in modo decisivo, il Pdl rischia lo sfaldamento, e ciascun deputato sta giocando la sua personalissima partita di miglior posizionamento possibile. E' così che vanno le cose in Italia perché questo è il sistema politico. E non mi si venga a raccontare che da una parte ci sono i venduti e dall'altra i "responsabili". Sono tutti venduti, chi per un posto di sottogoverno, chi per una ricandidatura, chi per un appartamento a Roma, chi per un pezzo di pane. Governo tecnico, di "larghe intese"? Con chi? E per fare cosa? Una patrimoniale e poco altro, e poi si ricomincerà come prima. Ma senza Berlusconi, questo è l'unico obiettivo che importa realmente. Ma come ha ricordato un portavoce della Casa Bianca, non è che cambiando un governo cambiano i problemi del Paese.
Non bisogna farsi distrarre dai tatticismi del momento, l'obiettivo ultimo di Casini non è governare insieme al Pdl senza Berlusconi, prospettiva da cui molti parlamentari sono ovviamente attratti, sembra così ragionevole... E' invece distruggere il Pdl (quante volte ha ripetuto di voler "disgregare" questo bipolarismo?) ed ergersi come unico soggetto aggregatore sulle macerie del centrodestra, spianando la strada alla discesa in campo di Montezemolo in quello spazio politico oggi occupato proprio dal Pdl. L'Udc è l'unico partito che in questa situazione non ha nulla da perdere, o almeno così crede. Se si forma un governo tecnico o transitorio, non potrà che acquisire una centralità sempre maggiore, da capitalizzare al momento del voto, soprattutto se nel frattempo si mettesse mano ad una riforma elettorale in senso proporzionalista; ma anche se si vota subito, con l'attuale legge (guarda caso facendo saltare il referendum per il ritorno al Mattarellum!), è probabile che al Senato risulti determinante. Ecco perché è il partito più attivo nel forzare il quadro politico, pur sapendo che al 90% si rischia di andare a votare a marzo. «Governo di larghe intese. Pdl dica sì o si dissolverà», è il titolo dell'intervista di Casini oggi al Corriere della Sera. L'impressione è che nei suoi piani/sogni il Pdl si dissolverà comunque.
Per quanto mi riguarda non riesco proprio a mandar giù questa logica del "passo indietro". Che sia auspicabile o meno la fine di questo governo e l'uscita di scena di Berlusconi, il modo più democratico e trasparente è ciò che molti, abituati ad una logica trasformistica e fangosa, chiamano "schianto", "ultima raffica", o "fucilata": un voto di sfiducia parlamentare, lineare, limpido. Nel quale ciascuno si assume le sue responsabilità guardando negli occhi l'avversario e il Paese. Non sarebbe nulla di drammatico. Sarebbe la democrazia, bellezza. Sarebbe.
Friday, April 03, 2009
G20, ritorno alla realtà
Tutti contenti al G20 di Londra. Al di là del Fondo monetario internazionale, tra i vincitori ci sono gli Usa. Ok, Obama non ha ottenuto dagli europei un vero e proprio stimolo fiscale (per fortuna), ma attravero il FMI e la Banca mondiale altri mille miliardi di dollari verranno messi in circolo nell'economia mondiale: 500 miliardi di dollari in più al Fondo monetario internazionale, le cui risorse per sostenere le economie in difficoltà passano da 250 a 750 miliardi; 250 miliardi di dollari per sostenere la ripresa del commercio mondiale; e altri 250 miliardi nella linea di credito costituita dai cosiddetti "diritti speciali di prelievo" per le economie dei Paesi in via di sviluppo.
Accontentate anche Francia e Germania, nella loro richiesta di un più rigido controllo sugli hedge funds e nella loro ossessiva guerra ai "paradisi fiscali", che non c'entrano niente con la crisi, ma c'entrano con la necessità tutta politica di rispondere alle pulsioni populiste delle opinioni pubbliche contro il mondo della finanza. «Addio paradisi fiscali», ha potuto annunciare trionfalmente Sarkozy. Compariranno in una "lista nera" compilata dall'Ocse e quelli che non coopereranno saranno oggetto di sanzioni. «L'era della segretezza bancaria è finita», si legge nel comunicato di Londra. Ma è molto meno di quel più grande e più centralizzato sistema di regolazione finanziaria globale che alcuni paesi europei volevano.
Escono sconfitti i top manager, le cui remunerazioni e bonus saranno legati alla performance complessiva e di lungo periodo dell'impresa, i trader e le banche, che saranno sottoposti a requisiti di capitale più severi e a controlli più rigidi della leva finanziaria.
Annunciato anche un approccio comune per ripulire le banche dagli "asset tossici" e un nuovo Consiglio per la stabilità finanziaria globale, per una maggiore cooperazione internazionale nella vigilanza. Infine, la messa all'indice dei paesi che non rispettano le regole internazionali del commercio dovrebbe scongiurare un ritorno al protezionismo, anche se la maggior parte delle nazioni del G20 ha adottato striscianti misure protezionistiche fin dall'inizio della crisi.
Al di là dei toni entusiastici, e di quel numero facile da ricordare - 1000 miliardi - secondo il Wall Street Journal il G20 ha segnato un ritorno alla realtà, ai fatti. Dietro l'altisonante annuncio del «più grande stimolo fiscale e monetario e del più completo programma di sostegno del settore finanziario dei tempi moderni», si intravede, molto meno visibile, nascosto nel mezzo del comunicato finale, un paragrafo sulle "exit strategies" per assicurare la «stabilità dei prezzi». «E' rassicurante», perché «indica che c'è almeno una qualche consapevolezza del fatto che la strategia promossa dagli Usa di stampare migliaia di miliardi di dollari per finanziare lo stimolo globale porta con sé la minaccia di una futura inflazione piuttosto significativa - a meno che le banche centrali non restringano questa politica monetaria espansiva prima che arrivi l'inflazione».
Un'altra prova di realismo è che «la maggior parte degli altri impegni dovranno essere attuati non da un'unica entità chiamata G20, ma da 20 o più singole nazioni sovrane». Anche il proposito di eliminare i "paradisi fiscali" sembra più che altro un «disperato tentativo» da parte di quelle nazioni la cui spesa pubblica ha raggiunto un livello tale che sono disperatamente alla ricerca di introiti fiscali. «Se la vera questione fosse l'"armonizzazione" fiscale attraverso i confini a livelli relativamente alti di tassazione, ci sarebbe da chiedersi dove il mondo troverà gli incentivi per una nuova crescita economica».
«Ciò che è emerso a Londra - conclude il WSJ - suggerisce che questi leader riconoscono di essere mortali e che il loro vero lavoro per la ripresa economica dovrà ricominciare quando i loro aerei li avranno riportati a casa».
Accontentate anche Francia e Germania, nella loro richiesta di un più rigido controllo sugli hedge funds e nella loro ossessiva guerra ai "paradisi fiscali", che non c'entrano niente con la crisi, ma c'entrano con la necessità tutta politica di rispondere alle pulsioni populiste delle opinioni pubbliche contro il mondo della finanza. «Addio paradisi fiscali», ha potuto annunciare trionfalmente Sarkozy. Compariranno in una "lista nera" compilata dall'Ocse e quelli che non coopereranno saranno oggetto di sanzioni. «L'era della segretezza bancaria è finita», si legge nel comunicato di Londra. Ma è molto meno di quel più grande e più centralizzato sistema di regolazione finanziaria globale che alcuni paesi europei volevano.
Escono sconfitti i top manager, le cui remunerazioni e bonus saranno legati alla performance complessiva e di lungo periodo dell'impresa, i trader e le banche, che saranno sottoposti a requisiti di capitale più severi e a controlli più rigidi della leva finanziaria.
Annunciato anche un approccio comune per ripulire le banche dagli "asset tossici" e un nuovo Consiglio per la stabilità finanziaria globale, per una maggiore cooperazione internazionale nella vigilanza. Infine, la messa all'indice dei paesi che non rispettano le regole internazionali del commercio dovrebbe scongiurare un ritorno al protezionismo, anche se la maggior parte delle nazioni del G20 ha adottato striscianti misure protezionistiche fin dall'inizio della crisi.
Al di là dei toni entusiastici, e di quel numero facile da ricordare - 1000 miliardi - secondo il Wall Street Journal il G20 ha segnato un ritorno alla realtà, ai fatti. Dietro l'altisonante annuncio del «più grande stimolo fiscale e monetario e del più completo programma di sostegno del settore finanziario dei tempi moderni», si intravede, molto meno visibile, nascosto nel mezzo del comunicato finale, un paragrafo sulle "exit strategies" per assicurare la «stabilità dei prezzi». «E' rassicurante», perché «indica che c'è almeno una qualche consapevolezza del fatto che la strategia promossa dagli Usa di stampare migliaia di miliardi di dollari per finanziare lo stimolo globale porta con sé la minaccia di una futura inflazione piuttosto significativa - a meno che le banche centrali non restringano questa politica monetaria espansiva prima che arrivi l'inflazione».
Un'altra prova di realismo è che «la maggior parte degli altri impegni dovranno essere attuati non da un'unica entità chiamata G20, ma da 20 o più singole nazioni sovrane». Anche il proposito di eliminare i "paradisi fiscali" sembra più che altro un «disperato tentativo» da parte di quelle nazioni la cui spesa pubblica ha raggiunto un livello tale che sono disperatamente alla ricerca di introiti fiscali. «Se la vera questione fosse l'"armonizzazione" fiscale attraverso i confini a livelli relativamente alti di tassazione, ci sarebbe da chiedersi dove il mondo troverà gli incentivi per una nuova crescita economica».
«Ciò che è emerso a Londra - conclude il WSJ - suggerisce che questi leader riconoscono di essere mortali e che il loro vero lavoro per la ripresa economica dovrà ricominciare quando i loro aerei li avranno riportati a casa».
Wednesday, April 01, 2009
G20, la crisi è una sfida al potere Usa. Ma anche al regime di Pechino

Sebbene - osserva il Wall Street Journal - Obama ammetta le responsabilità degli Usa in questa crisi e l'inadeguatezza delle regole, e sebbene sembri aver rinunciato all'idea di convincere gli altri paesi ad approvare più ampi pacchetti di stimolo, tuttavia il presidente Usa avverte che «il resto del mondo non può contare esclusivamente sugli Stati Uniti e i suoi consumatori per rilanciare la crescita globale». Non possono essere solo gli Stati Uniti il «motore» della crescita, «tutti devono camminare di pari passo».
Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha spiegato la sua posizione sulle pagine del Washington Post. La priorità ora non è approvare nuove misure anti-crisi, ma «riformare il sistema finanziario internazionale e ricostruire, insieme, una forma meglio regolata di capitalismo, con un maggiore senso di moralità e solidarietà». A suo avviso è questa la «precondizione per mobilitare l'economia globale» e garantire una «crescita sostenibile». «Abbiamo già tenuto alla larga lo spettro del protezionismo», e molte nazioni hanno già provveduto a sostenere le loro economie con «ambiziosi pacchetti di stimolo, accrescendo in modo significativo la spesa per il welfare collegato alla crisi», spiega Sarkozy quasi rispondendo alle richieste dell'amministrazione Usa. Adesso «dobbiamo attribuire la stessa urgenza alla riforma della regolamentazione dei mercati finanziari» e «offrire molto più spazio alle nazioni emergenti» in tutti gli organismi internazionali, soprattutto nelle istituzioni finanziarie internazionali.
Secondo Alvaro Vargas Llosa, nel mezzo di questa crisi l'unica «voce di buon senso» è quella di Angela Merkel, di cui ammira (come alcune settimane fa il Wall Street Journal) la responsabilità fiscale. «Nel mezzo del panico di questi giorni, con i governi che creano, prestano e spendono soldi come marinai ubriachi, la cancelliera tedesca si è rivelata la coscienza critica del mondo sviluppato. Tra tutti i leader è l'unica ad averci ricordato l'origine dei problemi attuali e perché il rimedio preso da quasi tutti i governi è pericoloso: "Stavamo vivendo al di là le nostre possibilità... dopo la crisi asiatica e l'11 settembre, per sostenere la crescita i governi hanno incoraggiato l'assunzione di rischi eccessivi, riversando soldi sempre più a minor costo nel sistema finanziario"», scriveva la Merkel sul Financial Times. «In risposta alle pressioni dell'amministrazione Usa per aumentare la spesa pubblica, quindi, la Merkel ha fatto notare che "questa crisi non si è verificata perché abbiamo emesso troppo poco denaro, ma perché abbiamo creato crescita economica con troppo denaro, e non è stata una crescita sostenibile"».
Poi c'è chi, come Irwin Stelzer, sul Weekly Standard, ritiene che il vero problema non verrà affrontato dal G20, ma da un "G2" Usa-Cina. «La maggior parte delle nazioni respingeranno la richiesta di Obama di adeguarsi al suo pacchetto di stimolo. I britannici lo farebbero, ma Gordon Brown ha speso così tanto in welfare che le sue casse sono vuote». La cancelliera tedesca Angela Merkel non vuole rischiare di alimentare l'inflazione e «la Francia di Sarkozy intende usare misure protezionistiche per mitigare il declino del suo paese, non importa che furono misure simili ad aggravare e a prolungare la Grande Depressione».
I leader del G20, prevede Stelzer, «prometteranno ancora di evitare il protezionismo, daranno qualche aiuto ai paesi in via di sviluppo, aumentando i contributi al Fondo monetario internazionale, e diranno qualcosa sulla necessità che i regolatori finanziari cooperino di più tra di loro. Tuttavia, non concederanno a Obama più che una retorica annacquata circa la necessità che tutti i paesi contribuiscano alla ripresa dell'economia. Mentre Obama respingerà gli appelli franco-tedeschi per una regolamentazione oppressiva del sistema finanziario».
Per capire davvero cosa sta succedendo non bisogna guardare al G20, ma al G2: America e Cina. «La Cina è seduta su oltre mille miliardi di titoli di debito americani», che ha comprato con i dollari guadagnati grazie alle sue esportazioni. «Ora è preoccupata che Obama dovrà finanziare il suo ampio deficit riversando sul mercato altri Bot Usa sotto costo e che il governatore della Fed, Bernanke, ridurrà il valore della sua riserva di dollari quando manterrà la promessa di stamparne altri miliardi».
Ciò che davvero sta accadendo, quindi, osserva Stelzer, è «l'inizio di un accordo tra Cina e Stati Uniti per riequilibrare il sistema mondiale»: «La Cina ha bisogno di investire di più al suo interno per far sì che i suoi consumatori possano acquistare più nostri prodotti, e noi dobbiamo risparmiare e investire di più in modo da non mandare così tanti dollari in Cina. Perché quando i cinesi usano questi dollari per comprare i Buoni del Tesoro Usa, fanno scendere i tassi di interesse e incoraggiano quel tipo di indebitamento che ha portato alla rovina così tante nostre banche e così tanti consumatori». Se bisogna rilanciare l'economia mondiale, conclude Stelzer, «noi abbiamo bisogno della Cina e la Cina di noi». Il resto sono dettagli. «E la Cina non assumerà alcun ruolo finché non gli verrà riconosciuta la posizione che sente di meritare come superpotenza emergente».
Dunque, l'uscita dalla crisi passa inevitabilmente per una sfida all'egemonia americana e occidentale, alla centralità degli Usa nel sistema finanziario internazionale, ma a ben vedere getta le basi anche per una sfida all'autorità del Partito comunista cinese.
Per riequilibrare il sistema, infatti, Pechino dovrà fare qualcosa che guarda caso ha cercato fino ad oggi di ritardare, giocando quasi esclusivamente sull'export: espandere la sua domanda interna, adottare politiche che mettano i suoi cittadini nelle condizioni di acquistare più prodotti e servizi americani (e occidentali) e di godere di una maggiore libertà di piccola-media impresa, diffusa e rivolta al mercato interno. Ciò potrebbe determinare un'apertura senza precedenti, una vera apertura, della Cina al mondo (finora infatti la Cina si è "aperta" al mondo soprattutto tramite le sue esportazioni). Significherebbe l'ingresso nel mercato di una domanda che va ben oltre una relativamente stretta cerchia di uomini d'affari e di establishment che in un modo o nell'altro devono il loro benessere al regime.
Un'apertura che negli anni potrebbe cambiare gli stili di vita e la mentalità di decine, centinaia di milioni di cinesi. Ma soprattutto, assaporando la pluralità e la qualità di un mercato in cui si trovano finalmente nelle condizioni per poter giocare un ruolo da protagonisti, sia sul lato della domanda che dell'offerta, potrebbe mutare radicalmente la loro concezione del rapporto tra stato e cittadino. Il monopartitismo reggerà all'impatto? Saprà rispondere alla crescente domanda di libertà anche politiche? Può darsi, ma è certo che una sfida senza precedenti aspetta anche il regime di Pechino.
Monday, November 17, 2008
Resistere alle tentazioni del protezionismo
Ci sono due messaggi positivi usciti dal G-20 di questo fine settimana. Il primo è che questi summit a 20 sono destinati a ripetersi presumibilmente andando via via a sostituire l'ormai limitato e datato G-8; il secondo è la rinnovata fiducia nel libero mercato e l'impegno - almeno a parole, vedremo se anche nei fatti - a resistere alle tentazioni protezionistiche, a non creare, bensì ad abbattere, le barriere nel commercio e negli investimenti. «Puntiamo ad un accordo quest'anno sul Doha Round», si legge nel comunicato finale. Mentre Mario Draghi, in qualità di presidente dello Stability Forum, spiega che il «sistema finanziario del futuro dovrà avere più capitale, meno debito, più trasparenza e più regole».
Un vigoroso atto di difesa del libero mercato è stato il discorso pronunciato dal presidente americano ormai uscente George W. Bush, giovedì scorso, a New York. Concetti poi ripetuti nei suoi interventi al summit.
Riconoscendo la necessità di mercati finanziari «più trasparenti e adeguatamente regolati», e di istituzioni come Fondo monetario internazionale e Banca mondiale più aperte alle nazioni in via di sviluppo, «più trasparenti, responsabili ed efficaci», Bush ha però sottolineato che «l'intervento pubblico non è una cura», ricordando come la storia abbia dimostrato che «la più grande minaccia al benessere economico non è troppo poco intervento del governo nel mercato, ma l'eccessivo intervento», come nel caso di Fannie Mae e Freddie Mac.
Un vigoroso atto di difesa del libero mercato è stato il discorso pronunciato dal presidente americano ormai uscente George W. Bush, giovedì scorso, a New York. Concetti poi ripetuti nei suoi interventi al summit.
Riconoscendo la necessità di mercati finanziari «più trasparenti e adeguatamente regolati», e di istituzioni come Fondo monetario internazionale e Banca mondiale più aperte alle nazioni in via di sviluppo, «più trasparenti, responsabili ed efficaci», Bush ha però sottolineato che «l'intervento pubblico non è una cura», ricordando come la storia abbia dimostrato che «la più grande minaccia al benessere economico non è troppo poco intervento del governo nel mercato, ma l'eccessivo intervento», come nel caso di Fannie Mae e Freddie Mac.
«C'è una lezione evidente: il nostro scopo non dovrebbe essere più governo, ma un governo più intelligente. Se le riforme nel settore finanziario sono essenziali, la soluzione a lungo temine ai problemi di oggi è una sostenuta crescita economica. E la via più sicura per quella crescita è il libero mercato... La crisi non è stata un fallimento del libero mercato. E la risposta non è tentare di reinventarlo. E' risolvere i problemi, fare le riforme, e andare avanti con i principi del libero mercato che hanno garantito benessere e speranza ai popoli di tutto il mondo.Anche Bush si è pronunciato contro il protezionismo, sostenendo che «importante come mantenere il libero mercato all'interno degli stati è mantenere la libera circolazione di beni e servizi tra gli stati».
Il capitalismo non è perfetto. Ma è di gran lunga il più efficiente e giusto modo di organizzare l'economia. Il capitalismo offre alle persone la possibilità di scegliere dove lavorare e cosa fare, di comprare e vendere i prodotti che desiderano, e la dignità che deriva dal trarre guadagni dal proprio talento e dal duro lavoro. Il libero mercato fornisce gli incentivi per lavorare, innovare, risparmiare, investire e creare lavoro. Il libero mercato offre a un marito e a una moglie la possibilità di avviare una loro attività, a un immigrato di aprire un ristorante, a una madre single di tornare al college e costruirsi una carriera migliore. E' ciò che ha permesso alle imprese nella Silicon Valley di cambiare il modo in cui il mondo vende i prodotti e cerca le informazioni. Che ha trasformato l'America da una frontiera rocciosa a una nazione che ha dato al mondo il battello a vapore e l'aereoplano, il computer e la TAC, internet e l'iPod... Le nazioni che hanno perseguito altri modelli hanno conosciuto esiti devastanti... Le prove sono inequivocabili: se vuoi crescita economica, giustizia sociale e dignità umana, il libero mercato è la strada che fa per te».
«Tenere i mercati aperti al commercio e agli investimenti è necessario soprattutto durante periodi di crisi economica. Subito dopo il crack finanziario del 1929, il Congresso approvò la "Smoot-Hawley tariff", una misura protezionistica volta a separare l'economia americana dalla competizione globale. Il risultato non fu la sicurezza economica, ma la rovina. I leader mondiali devono tenere a mente questo esempio e respingere la tentazione del protezionismo».
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