Le sberle che sta prendendo Bersani in questi giorni dimostrano inequivocabilmente che chi di giustizialismo ferisce, di giustizialismo perisce. Cavalcarlo contro i propri avversari politici - mentre ai "compagni" s'impone sì la gogna pubblica, nell'illusione di placare l'ira delle masse, salvo poi ripescarli sottobanco come è accaduto con Tedesco al Senato - non risparmia il Pd dal ricatto della magistratura e dal fango dei giornali. Bersani e la sinistra sono giustamente criticati per il loro insopportabile "doppio standard", ma agli esponenti coinvolti va riconosciuta la presunzione d'innocenza (a maggior ragione se ad accusarli è una magistratura screditata dai molti errori e dall'eccessiva politicizzazione) e il Pd non va sottoposto a demonizzazione e processi collettivi. Va piuttosto denunciato e combattuto politicamente il sistema di potere che soprattutto localmente i Democratici hanno ereditato dai tempi del Pci.
Ma non risolveremo i problemi di questo Paese con le «ghigliottine», evocate stamattina da Barbara Spinelli sul Fatto quotidiano, al pari di un Borghezio che giustifica il massacratore di Utoya. Fa ridere, certo, il balletto degli amministratori del Pd che si autospendono ma non si dimettono. Tuttavia, non si possono tacere anche nelle vicende che li riguardano comportamenti sospetti da parte dei magistrati che li indagano: nel caso di Tedesco, del quale si chiede l'arresto solo quando diventa senatore, e quindi un boccone improvvisamente appetitoso, per un'inchiesta che molto stranamente nemmeno sfiora il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola; e nel caso di Penati, il cui coinvolgimento (risalente alla fine del 2010) viene reso noto solo oggi, dopo le elezioni amministrative e, guarda caso, nell'imminenza del voto parlamentare su Papa e Tedesco.
Non scordiamoci, poi, il caso di Ottaviano Del Turco. In modo molto simile a quanto sta accadendo a Penati, l'ex presidente della Regione Abruzzo veniva accusato da un imprenditore nei guai di aver preso tangenti. Sembrava un'accusa a prova di bomba, eppure da lì a poco - dopo dimissioni, giorni di carcere e relativa gogna mediatica - sarebbe emerso come un tentativo dell'imprenditore di alleggerire e giustificare la sua situazione fallimentare.
Ma al di là degli aspetti penali, i casi Pronzato e Penati hanno almeno il merito di evidenziare in modo cristallino quale sia la vera radice politica, prima che morale, della corruzione e del malaffare. E' opportuno che un dirigente di partito sieda nel consiglio di amministrazione dell'Enac? Ed è buona politica che la Provincia di Milano guidata da Penati abbia acquisito azioni di una società autostradale, peraltro già a maggioranza di capitale pubblico? E' tutto qui (o quasi), non mi stancherò mai di ripeterlo, il punto. Il problema della corruzione e del malaffare non si risolve a colpi di campagne moralizzatrici condotto dalle Procure e sui giornali. Si tratta di un fenomeno che può essere drasticamente ridotto - non del tutto eliminato perché fisiologico ad ogni centro di potere - tagliando il nodo dell'ipertrofia della politica, della sua eccessiva intrusione nell'economia, nelle società a controllo pubblico, sia a livello statale che locale, le cosiddette municipalizzate.
La radice del male, insomma, è lo statalismo, in particolare nella sua versione municipale. E la cura sono privatizzazioni e liberalizzazioni. Chi non ci sta, si becca le caste. Infatti, il paradosso è che gli stessi cittadini più arrabbiati per le malversazioni, o presunte tali, e per i privilegi e gli sprechi della "Casta", sono gli stessi che si sono precipitati alle urne per garantire che le società di distribuzione dell'acqua rimanessero in mano pubblica, cioè nelle mani di quella stessa "Casta" di cui denunciano inefficienza e ruberie. E allora mi chiedo: non è che ce lo meritiamo quello che abbiamo?
Thursday, July 28, 2011
Wednesday, July 27, 2011
Si contrasta così l'omofobia?
D'accordo, se si tratta di dare un segnale, di lanciare un messaggio, siamo tutti d'accordo. La violenza perpetrata in ragione di una discriminazione nei confronti della razza, del sesso o dell'orientamento sessuale della vittima è sempre odiosa. Ma ad una legge, in uno stato di diritto, è bene attribuire un valore pedagogico, o addirittura di manifesto? Non rischia piuttosto di diventare una semplice ostentazione del "politicamente corretto" e una fonte di ulteriori discriminazioni? Lo dico in punta di piedi: a me la legge sull'omofobia respinta dalla Camera non convinceva affatto. Certo, un po' mi preoccupa trovarmi d'accordo con Buttiglione, ma d'altra parte mi solleva trovarmi d'accordo anche con Pecorella.
Resta innegabile l'esigenza di contrastare efficacemente ogni violenza compiuta con motivi puramente discriminatori. E allora, a mio modesto avviso, basterebbe aggiungere esplicitamente questa fattispecie all'aggravante già prevista nel codice per «avere agito per motivi abbietti o futili». Anche se tra i motivi «abietti» è implicita la discriminazione, si potrebbe riformulare il testo in modo che sia più esplicito. Prevedendo l'aggravante per «avere agito per motivi abbietti, futili e discriminatori», si includono tutte le tipologie di discriminazione, presenti e future, senza fare torto ad alcuna.
No, invece si vuole una norma manifesto, un simbolo che l'orgoglio omosessuale possa sbandierare. Ma questa semplicemente non è la funzione della legge e che simili norme manifesto già esistano nel nostro ordinamento non appare un motivo sufficiente per aggiungerne delle altre. Perché non prevedere, allora, esplicite aggravanti per le violenze, comunissime (forse anche più di quelle contro gli omosessuali), commesse in ragione delle opinioni politiche o del tifo calcistico della vittima? E perché non anche per quelle perpetrate per la condizione di handicap della vittima, purtroppo sempre più frequenti soprattutto tra i giovani?
Vi invito a leggervi il testo della legge e il testo delle pregiudiziali di costituzionalità e vedrete che le ragioni di queste ultime non appaiono così infondate. Balza agli occhi subito, per esempio, che per contrastare una discriminazione se ne creano altre, si viola il principio di uguaglianza, riconoscendo una protezione rafforzata alla persona offesa in ragione del proprio orientamento sessuale e non in ragione di altri altrettanto validi motivi. Non si contano, infatti, le condizioni, le opinioni e gli stili di vita che già oggi, o in un futuro non troppo lontano, possono costituire il movente per una violenza discriminatoria. Poi c'è il grosso problema dell'accertamento che il presunto reo abbia agito spinto davvero da sentimenti di «omofobia» e «transfobia». Il rischio è che si finisca per presumerlo automaticamente ogni volta che vittima della violenza sia un omosessuale o un transessuale. Meno grave, ma sempre fastidioso, c'è il problema di dover accertare in sede giudiziaria l'orientamento sessuale della vittima e la sua riconoscibilità come tale dall'aggressore.
Insomma, si può essere favorevoli o contrari a quel testo, ma 1) che da una parte ci siano i paladini dell'uguaglianza e dall'altra i difensori dei violenti e degli omofobi non sta né in cielo né in terra, e 2) se si vuole ottenere il risultato, dal punto di vista normativo, il modo c'è anche senza aprire la strada alle discriminazioni "positive".
Resta innegabile l'esigenza di contrastare efficacemente ogni violenza compiuta con motivi puramente discriminatori. E allora, a mio modesto avviso, basterebbe aggiungere esplicitamente questa fattispecie all'aggravante già prevista nel codice per «avere agito per motivi abbietti o futili». Anche se tra i motivi «abietti» è implicita la discriminazione, si potrebbe riformulare il testo in modo che sia più esplicito. Prevedendo l'aggravante per «avere agito per motivi abbietti, futili e discriminatori», si includono tutte le tipologie di discriminazione, presenti e future, senza fare torto ad alcuna.
No, invece si vuole una norma manifesto, un simbolo che l'orgoglio omosessuale possa sbandierare. Ma questa semplicemente non è la funzione della legge e che simili norme manifesto già esistano nel nostro ordinamento non appare un motivo sufficiente per aggiungerne delle altre. Perché non prevedere, allora, esplicite aggravanti per le violenze, comunissime (forse anche più di quelle contro gli omosessuali), commesse in ragione delle opinioni politiche o del tifo calcistico della vittima? E perché non anche per quelle perpetrate per la condizione di handicap della vittima, purtroppo sempre più frequenti soprattutto tra i giovani?
Vi invito a leggervi il testo della legge e il testo delle pregiudiziali di costituzionalità e vedrete che le ragioni di queste ultime non appaiono così infondate. Balza agli occhi subito, per esempio, che per contrastare una discriminazione se ne creano altre, si viola il principio di uguaglianza, riconoscendo una protezione rafforzata alla persona offesa in ragione del proprio orientamento sessuale e non in ragione di altri altrettanto validi motivi. Non si contano, infatti, le condizioni, le opinioni e gli stili di vita che già oggi, o in un futuro non troppo lontano, possono costituire il movente per una violenza discriminatoria. Poi c'è il grosso problema dell'accertamento che il presunto reo abbia agito spinto davvero da sentimenti di «omofobia» e «transfobia». Il rischio è che si finisca per presumerlo automaticamente ogni volta che vittima della violenza sia un omosessuale o un transessuale. Meno grave, ma sempre fastidioso, c'è il problema di dover accertare in sede giudiziaria l'orientamento sessuale della vittima e la sua riconoscibilità come tale dall'aggressore.
Insomma, si può essere favorevoli o contrari a quel testo, ma 1) che da una parte ci siano i paladini dell'uguaglianza e dall'altra i difensori dei violenti e degli omofobi non sta né in cielo né in terra, e 2) se si vuole ottenere il risultato, dal punto di vista normativo, il modo c'è anche senza aprire la strada alle discriminazioni "positive".
Tuesday, July 26, 2011
Una vergogna nazionale
Su taccuinopolitico.it
Da Perugia un colpo durissimo all'immagine e alla credibilità del nostro Paese. Per salvare almeno la faccia: proscioglimenti immediati, scuse ufficiali di Napolitano e rimozione dei procuratori
Non solo il giustizialismo politico, che sembra ormai aver messo sotto scacco il Parlamento - lato centrodestra (con l'arresto del deputato Pdl Papa) e lato centrosinistra (con le accuse a Penati rese note "ad orologeria"); e non solo un presidente della Camera in pieno delirio istituzionale nel prospettare la caduta del governo e il ministro dell'Interno come nuovo premier. In cima ai pensieri del presidente della Repubblica dovrebbero posizionarsi anche gli ultimi sviluppi del processo di Perugia ad Amanda Knox e a Raffaele Sollecito, che si sta rapidamente trasformando in una disfatta purtroppo tristemente annunciata per la giustizia italiana, e quindi in una delle pagine più vergognose per l'intera nazione. Questo processo, molto più dell'«intollerabile» conflitto - così l'ha definito il presidente in una sua recente uscita - tra politica e magistratura, rischia di radere al suolo ciò che resta della credibilità della giustizia italiana, agli occhi sia dell'opinione pubblica interna che del mondo civile.
Un processo seguito infatti con molto interesse sia in Gran Bretagna, per la nazionalità della vittima (Meredith Kercher), che nella patria della principale accusata, gli Stati Uniti, dove alcune inchieste giornalistiche e persino una fiction televisiva hanno sollevato pesanti dubbi sul modo di procedere degli inquirenti italiani. I quali nei confronti di Amanda avrebbero intentato un processo alle streghe, negandole garanzie basilari del giusto processo e persino manipolando le prove a suo carico. Accuse respinte con sdegno dalla Procura, ma che in questi giorni e ore si stanno rivelando più che fondate.
I periti nominati dal tribunale nel processo di appello non solo hanno smontato le due prove "regine" che avevano portato alla condanna della Knox e di Sollecito in primo grado, le uniche che collegavano gli imputati alla scena del delitto, ma hanno anche stabilito che la polizia scientifica non ha seguito le «procedure internazionali di sopralluogo e i protocolli di raccolta e campionamento» dei reperti, i quali dunque risultano contaminati e comunque inattendibili. Non c'è il sangue della vittima sulla presunta arma del delitto; né è attendibile che la traccia di Dna rinvenuta sul gancetto del reggiseno della ragazza uccisa sia di Sollecito, sia perché di dimensioni inferiori agli standard per determinare a chi appartenga, sia perché durante la repertazione il gancetto (repertato ben 46 giorni dopo l'omicidio) fu toccato con «un guanto sporco». Esattamente come denunciavano mesi fa le inchieste giornalistiche e le trasmissioni televisive americane, snobbate dai nostri media, adesso anche i periti italiani puntano l'indice sulle modalità approssimative della repertazione: gli agenti non portavano tute di protezione; indossavano guanti già utilizzati, quindi sporchi; spostavano reperti chiave, come il materasso che copriva il cadavere, da una stanza all'altra.
Insomma, ci sono tutti gli elementi per uno di quei film "claustrofobici" in cui un malcapitato cittadino americano in un Paese esotico viene accusato ingiustamente perché qualcuno ha messo a sua insaputa una partita di droga nel suo zainetto, e si ritrova immerso in un'odissea giudiziaria senza via di scampo. Solo che stavolta, diversamente dalla versione hollywoodiana, non siamo in Thailandia o in Cina. Siamo in Italia. Ma l'immagine di totale inaffidabilità del sistema giudiziario che questo caso potrebbe esportare all'estero, in Europa e negli Stati Uniti, è pressoché equivalente.
Per salvare almeno la faccia, per tutelare l'immagine dell'intero Paese, i giudici di Perugia dovrebbero fermare la farsa, chiudere immediatamente il processo con il proscioglimento degli imputati da ogni accusa; il presidente Napolitano dovrebbe scusarsi pubblicamente con i due giovani accusati; e i procuratori dovrebbero essere subito rimossi dall'incarico e possibilmente licenziati. Purtroppo i talk show televisivi sono in vacanza, ma dubito fortemente che alla loro ripresa i conduttori faranno ammenda per essersi appiattiti sulle tesi dell'accusa con tutte le pittoresche ricostruzioni e analisi socio-psicologiche del caso.
P.S.
Il Pdl dovrebbe esprimere una forte e severa presa di posizione, anche a livello governativo, in merito a tali misfatti giudiziari e comprendere finalmente che su questi - molto più che sulla persecuzione giudiziaria nei confronti di Berlusconi - può far leva per giustificare una profonda, urgente riforma del sistema giustizia.
Da Perugia un colpo durissimo all'immagine e alla credibilità del nostro Paese. Per salvare almeno la faccia: proscioglimenti immediati, scuse ufficiali di Napolitano e rimozione dei procuratori
Non solo il giustizialismo politico, che sembra ormai aver messo sotto scacco il Parlamento - lato centrodestra (con l'arresto del deputato Pdl Papa) e lato centrosinistra (con le accuse a Penati rese note "ad orologeria"); e non solo un presidente della Camera in pieno delirio istituzionale nel prospettare la caduta del governo e il ministro dell'Interno come nuovo premier. In cima ai pensieri del presidente della Repubblica dovrebbero posizionarsi anche gli ultimi sviluppi del processo di Perugia ad Amanda Knox e a Raffaele Sollecito, che si sta rapidamente trasformando in una disfatta purtroppo tristemente annunciata per la giustizia italiana, e quindi in una delle pagine più vergognose per l'intera nazione. Questo processo, molto più dell'«intollerabile» conflitto - così l'ha definito il presidente in una sua recente uscita - tra politica e magistratura, rischia di radere al suolo ciò che resta della credibilità della giustizia italiana, agli occhi sia dell'opinione pubblica interna che del mondo civile.
Un processo seguito infatti con molto interesse sia in Gran Bretagna, per la nazionalità della vittima (Meredith Kercher), che nella patria della principale accusata, gli Stati Uniti, dove alcune inchieste giornalistiche e persino una fiction televisiva hanno sollevato pesanti dubbi sul modo di procedere degli inquirenti italiani. I quali nei confronti di Amanda avrebbero intentato un processo alle streghe, negandole garanzie basilari del giusto processo e persino manipolando le prove a suo carico. Accuse respinte con sdegno dalla Procura, ma che in questi giorni e ore si stanno rivelando più che fondate.
I periti nominati dal tribunale nel processo di appello non solo hanno smontato le due prove "regine" che avevano portato alla condanna della Knox e di Sollecito in primo grado, le uniche che collegavano gli imputati alla scena del delitto, ma hanno anche stabilito che la polizia scientifica non ha seguito le «procedure internazionali di sopralluogo e i protocolli di raccolta e campionamento» dei reperti, i quali dunque risultano contaminati e comunque inattendibili. Non c'è il sangue della vittima sulla presunta arma del delitto; né è attendibile che la traccia di Dna rinvenuta sul gancetto del reggiseno della ragazza uccisa sia di Sollecito, sia perché di dimensioni inferiori agli standard per determinare a chi appartenga, sia perché durante la repertazione il gancetto (repertato ben 46 giorni dopo l'omicidio) fu toccato con «un guanto sporco». Esattamente come denunciavano mesi fa le inchieste giornalistiche e le trasmissioni televisive americane, snobbate dai nostri media, adesso anche i periti italiani puntano l'indice sulle modalità approssimative della repertazione: gli agenti non portavano tute di protezione; indossavano guanti già utilizzati, quindi sporchi; spostavano reperti chiave, come il materasso che copriva il cadavere, da una stanza all'altra.
Insomma, ci sono tutti gli elementi per uno di quei film "claustrofobici" in cui un malcapitato cittadino americano in un Paese esotico viene accusato ingiustamente perché qualcuno ha messo a sua insaputa una partita di droga nel suo zainetto, e si ritrova immerso in un'odissea giudiziaria senza via di scampo. Solo che stavolta, diversamente dalla versione hollywoodiana, non siamo in Thailandia o in Cina. Siamo in Italia. Ma l'immagine di totale inaffidabilità del sistema giudiziario che questo caso potrebbe esportare all'estero, in Europa e negli Stati Uniti, è pressoché equivalente.
Per salvare almeno la faccia, per tutelare l'immagine dell'intero Paese, i giudici di Perugia dovrebbero fermare la farsa, chiudere immediatamente il processo con il proscioglimento degli imputati da ogni accusa; il presidente Napolitano dovrebbe scusarsi pubblicamente con i due giovani accusati; e i procuratori dovrebbero essere subito rimossi dall'incarico e possibilmente licenziati. Purtroppo i talk show televisivi sono in vacanza, ma dubito fortemente che alla loro ripresa i conduttori faranno ammenda per essersi appiattiti sulle tesi dell'accusa con tutte le pittoresche ricostruzioni e analisi socio-psicologiche del caso.
P.S.
Il Pdl dovrebbe esprimere una forte e severa presa di posizione, anche a livello governativo, in merito a tali misfatti giudiziari e comprendere finalmente che su questi - molto più che sulla persecuzione giudiziaria nei confronti di Berlusconi - può far leva per giustificare una profonda, urgente riforma del sistema giustizia.
Monday, July 25, 2011
Sotto mentite spoglie
Mettiamo subito in chiaro una cosa: non esistono governi "tecnici", che fanno l'interesse generale nei momenti di crisi, nell'illusione che si possa governare asetticamente, come se ci fosse da risolvere un'equazione matematica. I governi cosiddetti "tecnici" decidono sempre cose sommamente politiche. Di "tecnico" c'è solo che tecnicamente nessuno se ne assume la responsabilità politica, nessuno ci mette la faccia per farsi giudicare dagli elettori. I governi "tecnici" sono governi politici sotto mentite spoglie, agiscono come società fiduciarie, per conto terzi. Terzi di cui l'opinione pubblica non afferra l'identità. Si configura con i governi "tecnici", insomma, il conflitto di interessi all'ennesima potenza, il delitto perfetto. E se si lasciano tracce, si fa in modo che A e B non siano collegabili e che il tutto venga nascosto sotto montagne di teorie cospiratorie indimostrabili.
Ecco perché nel bene o nel male, chi ha fiducia nella democrazia si assume i rischi di un governo incapace, ma legittimato democraticamente e quindi politicamente responsabile, e diffida delle scorciatoie tecnocratiche, che hanno la stessa probabilità di una dittatura illuminata di produrre esiti liberali.
Ecco perché nel bene o nel male, chi ha fiducia nella democrazia si assume i rischi di un governo incapace, ma legittimato democraticamente e quindi politicamente responsabile, e diffida delle scorciatoie tecnocratiche, che hanno la stessa probabilità di una dittatura illuminata di produrre esiti liberali.
Thursday, July 21, 2011
Napolitano bacchetta le toghe
Ogni anno lo stesso vigoroso discorso, e se il capo dello Stato non ravvisasse con preoccupazione delle pesanti anomalie nei comportamenti di certi magistrati, non sentirebbe l'esigenza ogni anno di ripetere raccomandazioni così specifiche ai giovani magistrati. Nelle aperture dei loro siti internet ("Basta scontri tra politica e toghe") i giornali mainstream di fatto nascondono il monito del presidente, che è tutto rivolto all'indirizzo dei magistrati (leggere per credere). Napolitano anche oggi è stato eloquente, a parole, ma nei fatti, in qualità di presidente del Csm, è latitante. L'organo di autogoverno della magistratura non sanziona adeguatamente i comportamenti che il suo presidente a parole denuncia. Anzi, i magistrati che più indulgono in questi comportamenti "deviati" vengono premiati e onorati, dalla categoria e dai media.
Per il presidente della Repubblica «alla crisi di fiducia in atto» nel sistema-giustizia concorre «anche un offuscamento dell'immagine della magistratura, sul quale non mi stanco di sollecitare una seria riflessione critica». Esorta i giovani magistrati a «ispirare le proprie condotte a criteri di misura e riservatezza, a non cedere a fuorvianti "esposizioni mediatiche", a non sentirsi investiti di "improprie ed esorbitanti missioni", a non indulgere in atteggiamenti protagonistici e personalistici che possono mettere in discussione la imparzialità dei singoli, dell'ufficio giudiziario cui appartengono, della magistratura in generale». Atteggiamenti evidentemente diffusi anche secondo il capo dello Stato, se sente il bisogno di mettere così caldamente in guardia le nuove leve della magistratura.
«L'affermazione e il riconoscimento del ruolo dei magistrati - prosegue Napolitano - non può prescindere dal rispetto dei limiti che, di per se stesso, tale ruolo impone. Il magistrato deve assicurare - in ogni momento, anche al di fuori delle sue funzioni - l'imparzialità e l'immagine di imparzialità su cui poggia la percezione che i cittadini hanno della sua indipendenza e quindi la loro fiducia». Non solo imparziali nelle loro funzioni, dunque, i magistrati devono anche apparire imparziali, è il monito di Napolitano, perché ne va della loro stessa indipendenza e credibilità.
«Vanno perciò evitate - ammonisce il capo dello Stato - condotte che comunque creino indebita confusione di ruoli e fomentino l'ormai intollerabile, sterile scontro tra politica e magistratura. Ciò accade ad esempio, quando il magistrato si propone per incarichi politici nella sede in cui svolge la sua attività oppure quando esercita il diritto di critica pubblica senza tenere in pieno conto che la sua posizione accentua i doveri di correttezza espositiva, compostezza, riserbo e sobrietà».
Ma Napolitano rileva delle anomalie e degli abusi anche nell'uso delle intercettazioni e della carcerazione preventiva, raccomandando caldamente, «nell'avvio e nella conduzione delle indagini», di «applicare scrupolosamente le norme e far uso sapiente ed equilibrato dei mezzi investigativi bilanciando le esigenze del procedimento con la piena tutela dei diritti costituzionalmente garantiti. Il discorso vale, in specie, per le intercettazioni cui non sempre si fa ricorso - come invece insegna la Corte di Cassazione - solo nei casi di "assoluta indispensabilità" per le specifiche indagini e delle quali viene poi spesso divulgato il contenuto pur quando esso è privo di rilievo processuale, ma può essere lesivo della privatezza dell'indagato o, ancor più, di soggetti estranei al giudizio». Dunque, raccomanda di «evitare l'inserimento nei provvedimenti giudiziari di riferimenti non pertinenti o chiaramente eccedenti rispetto alle finalità dei provvedimenti stessi», così come invita «a usare il massimo scrupolo nella valutazione degli elementi necessari per decidere l'apertura di un procedimento e, a maggior ragione, la richiesta o l'applicazione di misure cautelari».
Napolitano con le sue raccomandazioni e i suoi moniti traccia un identikit molto preciso, che corrisponde perfettamente a Woodcock e Ingroia. Ma viene palesemente preso per il culo, visto che ciò nonostante proprio i magistrati che più di tutti eccedono nei comportamenti che si sforza di stigmatizzare vengono premiati e onorati.
Per il presidente della Repubblica «alla crisi di fiducia in atto» nel sistema-giustizia concorre «anche un offuscamento dell'immagine della magistratura, sul quale non mi stanco di sollecitare una seria riflessione critica». Esorta i giovani magistrati a «ispirare le proprie condotte a criteri di misura e riservatezza, a non cedere a fuorvianti "esposizioni mediatiche", a non sentirsi investiti di "improprie ed esorbitanti missioni", a non indulgere in atteggiamenti protagonistici e personalistici che possono mettere in discussione la imparzialità dei singoli, dell'ufficio giudiziario cui appartengono, della magistratura in generale». Atteggiamenti evidentemente diffusi anche secondo il capo dello Stato, se sente il bisogno di mettere così caldamente in guardia le nuove leve della magistratura.
«L'affermazione e il riconoscimento del ruolo dei magistrati - prosegue Napolitano - non può prescindere dal rispetto dei limiti che, di per se stesso, tale ruolo impone. Il magistrato deve assicurare - in ogni momento, anche al di fuori delle sue funzioni - l'imparzialità e l'immagine di imparzialità su cui poggia la percezione che i cittadini hanno della sua indipendenza e quindi la loro fiducia». Non solo imparziali nelle loro funzioni, dunque, i magistrati devono anche apparire imparziali, è il monito di Napolitano, perché ne va della loro stessa indipendenza e credibilità.
«Vanno perciò evitate - ammonisce il capo dello Stato - condotte che comunque creino indebita confusione di ruoli e fomentino l'ormai intollerabile, sterile scontro tra politica e magistratura. Ciò accade ad esempio, quando il magistrato si propone per incarichi politici nella sede in cui svolge la sua attività oppure quando esercita il diritto di critica pubblica senza tenere in pieno conto che la sua posizione accentua i doveri di correttezza espositiva, compostezza, riserbo e sobrietà».
Ma Napolitano rileva delle anomalie e degli abusi anche nell'uso delle intercettazioni e della carcerazione preventiva, raccomandando caldamente, «nell'avvio e nella conduzione delle indagini», di «applicare scrupolosamente le norme e far uso sapiente ed equilibrato dei mezzi investigativi bilanciando le esigenze del procedimento con la piena tutela dei diritti costituzionalmente garantiti. Il discorso vale, in specie, per le intercettazioni cui non sempre si fa ricorso - come invece insegna la Corte di Cassazione - solo nei casi di "assoluta indispensabilità" per le specifiche indagini e delle quali viene poi spesso divulgato il contenuto pur quando esso è privo di rilievo processuale, ma può essere lesivo della privatezza dell'indagato o, ancor più, di soggetti estranei al giudizio». Dunque, raccomanda di «evitare l'inserimento nei provvedimenti giudiziari di riferimenti non pertinenti o chiaramente eccedenti rispetto alle finalità dei provvedimenti stessi», così come invita «a usare il massimo scrupolo nella valutazione degli elementi necessari per decidere l'apertura di un procedimento e, a maggior ragione, la richiesta o l'applicazione di misure cautelari».
Napolitano con le sue raccomandazioni e i suoi moniti traccia un identikit molto preciso, che corrisponde perfettamente a Woodcock e Ingroia. Ma viene palesemente preso per il culo, visto che ciò nonostante proprio i magistrati che più di tutti eccedono nei comportamenti che si sforza di stigmatizzare vengono premiati e onorati.
Benvenuti nella Repubblica delle Procure
Su Notapolitica.it
Nonostante non abbia mantenuto le promesse di riformare la giustizia e di tagliare le tasse (non vuol essere questa la sede per soppesare colpe e attenuanti), Berlusconi ha sempre rappresentato un vero e proprio argine - quasi fisico - rispetto sia alle tentazioni di alzarle le tasse, sia allo strapotere e al ricatto della magistratura sulla politica. Nel giro di nemmeno un mese, questi due argini sono stati travolti e ci siamo ritrovati con una manovra finanziaria di un governo di centrodestra che per la prima volta così pesantemente mette le mani nelle tasche degli italiani e con un Parlamento che cede all'imbarbarimento giustizialista come mai nella sua storia aveva ceduto, nemmeno durante i burrascosi anni di Tangentopoli. Due segnali evidenti del rapido tramonto della leadership berlusconiana. Ci sarà tempo e modo per ragionare sulle cause e sulle responsabilità, ma prima o poi sarebbe dovuto accadere. Travolto l'ultimo argine, dimostrato cioè che Berlusconi non basta più a tenere unita la maggioranza contro il giustizialismo, il rischio più prossimo è che si abbatterà sul Pdl un vero e proprio tsunami di richieste d'arresto fino a costringere il governo, dilaniato dalle divisioni Pdl-Lega, a gettare la spugna. Più preoccupante però è che, come in molti paventavamo, sull'orizzonte del dopo Berlusconi non si scorge l'eroe che realizzerà i "sogni" che il Cav. ha mancato di realizzare, né la normalizzazione politica che molti auspicano, ma si stagliano le ombre minacciose delle tasse e del giustizialismo. Fuori dai giochi Berlusconi, quale altro leader politico disporrà del consenso popolare e della forza economica per resistere un solo mese ad un assalto di qualche magistrato politicizzato o solo ansioso di farsi pubblicità?
Non ci siamo ancora, certo, ma ieri le Procure hanno ipotecato la Terza Repubblica, una Repubblica delle Procure, in cui nessun Parlamento potrà permettersi neanche di discutere una riforma della giustizia sgradita alla magistratura associata; in cui qualsiasi governo - non credo solo di centrodestra, ma soprattutto di centrodestra - sarà letteralmente sotto il ricatto delle Procure. La nostra rischia di diventare rapidamente, ancor più di quanto non lo sia stata dal 1992 ad oggi, una democrazia sotto tutela da parte di poteri non espressione della volontà popolare. Persino sui singoli parlamentari peserà il pre-giudizio della magistratura, basterà un avviso di garanzia o una richiesta di arresto preventivo per estrometterli dalla vita politica, quasi come in Iran, dove spetta al Consiglio dei Guardiani l'ultima parola sulle candidature.
CONTINUA su Notapolitica.it
Nonostante non abbia mantenuto le promesse di riformare la giustizia e di tagliare le tasse (non vuol essere questa la sede per soppesare colpe e attenuanti), Berlusconi ha sempre rappresentato un vero e proprio argine - quasi fisico - rispetto sia alle tentazioni di alzarle le tasse, sia allo strapotere e al ricatto della magistratura sulla politica. Nel giro di nemmeno un mese, questi due argini sono stati travolti e ci siamo ritrovati con una manovra finanziaria di un governo di centrodestra che per la prima volta così pesantemente mette le mani nelle tasche degli italiani e con un Parlamento che cede all'imbarbarimento giustizialista come mai nella sua storia aveva ceduto, nemmeno durante i burrascosi anni di Tangentopoli. Due segnali evidenti del rapido tramonto della leadership berlusconiana. Ci sarà tempo e modo per ragionare sulle cause e sulle responsabilità, ma prima o poi sarebbe dovuto accadere. Travolto l'ultimo argine, dimostrato cioè che Berlusconi non basta più a tenere unita la maggioranza contro il giustizialismo, il rischio più prossimo è che si abbatterà sul Pdl un vero e proprio tsunami di richieste d'arresto fino a costringere il governo, dilaniato dalle divisioni Pdl-Lega, a gettare la spugna. Più preoccupante però è che, come in molti paventavamo, sull'orizzonte del dopo Berlusconi non si scorge l'eroe che realizzerà i "sogni" che il Cav. ha mancato di realizzare, né la normalizzazione politica che molti auspicano, ma si stagliano le ombre minacciose delle tasse e del giustizialismo. Fuori dai giochi Berlusconi, quale altro leader politico disporrà del consenso popolare e della forza economica per resistere un solo mese ad un assalto di qualche magistrato politicizzato o solo ansioso di farsi pubblicità?
Non ci siamo ancora, certo, ma ieri le Procure hanno ipotecato la Terza Repubblica, una Repubblica delle Procure, in cui nessun Parlamento potrà permettersi neanche di discutere una riforma della giustizia sgradita alla magistratura associata; in cui qualsiasi governo - non credo solo di centrodestra, ma soprattutto di centrodestra - sarà letteralmente sotto il ricatto delle Procure. La nostra rischia di diventare rapidamente, ancor più di quanto non lo sia stata dal 1992 ad oggi, una democrazia sotto tutela da parte di poteri non espressione della volontà popolare. Persino sui singoli parlamentari peserà il pre-giudizio della magistratura, basterà un avviso di garanzia o una richiesta di arresto preventivo per estrometterli dalla vita politica, quasi come in Iran, dove spetta al Consiglio dei Guardiani l'ultima parola sulle candidature.
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Tuesday, July 19, 2011
Qualcosa di buono. Ma presto!
Venuto meno da parte del governo non solo l'impegno a modernizzare questo Paese in senso liberale, cioè a ridurre il peso dello Stato, ma anche il "minimo sindacale" del non mettere le mani nelle tasche degli italiani, il tempo per fare qualcosa di buono, per tentare di non essere travolti nel 2013 dai propri elettori inferociti, o per salvare almeno la faccia, c'è eccome. Basta volerlo. Ieri, per esempio, il ministro Calderoli ha presentato una buona proposta di riforma costituzionale, molto simile a quella approvata dal centrodestra nel 2005, ma poi bocciata a furor di popolo nel referendum confermativo del 2006; e molto simile anche alla cosiddetta "Bozza Violante", approvata dalla Commissione Affari costituzionali della Camera nella precedente legislatura. Dimezzamento dei parlamentari (un taglio più netto, quasi del 50%); Senato federale, quindi superamento del bicameralismo perfetto; rafforzamento dei poteri del premier; sfiducia costruttiva e anti-ribaltoni. Riforme volte a rendere più snello ed efficiente il processo legislativo, più stabili i governi e le legislature, con un non trascurabile risparmio di denaro pubblico.
Riforme che sarebbero potute essere già in vigore se 5 anni fa non fossero state cancellate dagli italiani che si sono bevuti la propaganda del centrosinistra. Ve li ricordate, privi di qualsiasi senso del ridicolo, paventare i rischi "dittatura" e "secessione"? L'unica cosa che gl'importava era "no pasaran" le riforme del centrodestra, tanto che solo un anno più tardi la riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto con un Senato federale, persino un lieve rafforzamento dei poteri del premier, sarebbero stati recepiti nella "Bozza Violante" e oggi, almeno a parole, fanno parte di quel pacchetto di riforme cosiddette "condivise".
Per questo la proposta Calderoli rappresenta una sfida anche per le opposizioni. Queste riforme - se ciascuno mantiene la propria parola - si possono approvare davvero in un batter d'occhio, esattamente come la manovra finanziaria (ovviamente rispettando i diversi tempi prescritti dalla Costituzione). Certo, tutto è perfettibile e migliorabile, ma è qualcosa (nella giusta direzione) contro il nulla. Già sarebbe importante che non parta la solita giostra di costituzionalisti militanti arruolati per eccepire ed obiettare, con dotte disquisizioni giuridiche il cui unico vero scopo è quello di far naufragare per l'ennesima volta queste piccole riforme solo per il fatto di essere proposte da un governo di centrodestra. In questo Paese tutti invocano "riforme riforme!", ma poi appena si tocca qualcosa si scoprono tutti per lo status quo. Ok, spacchiamo pure in quattro il capello, però poi non ci lamentiamo se non cambia mai nulla.
Ma in questo scenario - con i mercati pronti a divorarci, l'antipolitica con i suoi buoni motivi per montare come uno tsunami, la magistratura che sente l'odore di un nuovo '92 e il Parlamento che comincia a farsi intimidire - la riforma costituzionale non può bastare. E' l'emergenza economica che va affrontata di petto, ma in questo caso i margini temporali sono ancor più ristretti. Abbiamo circa due-tre settimane per incardinare due-tre riforme economiche chiave, nella speranza di mettere al riparo il nostro futuro. Qualcosa di buono, almeno per salvare la faccia, questo governo può ancora farlo, se solo lo volesse per davvero. Il tempo scarseggia, ma c'è. E' una questione di volontà politica. L'unico che può battere un colpo è lui, Berlusconi, ma la domanda è: è ancora in grado di agire, di riprendere il controllo di un governo ad oggi, de facto, a guida Napolitano-Tremonti?
Riforme che sarebbero potute essere già in vigore se 5 anni fa non fossero state cancellate dagli italiani che si sono bevuti la propaganda del centrosinistra. Ve li ricordate, privi di qualsiasi senso del ridicolo, paventare i rischi "dittatura" e "secessione"? L'unica cosa che gl'importava era "no pasaran" le riforme del centrodestra, tanto che solo un anno più tardi la riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto con un Senato federale, persino un lieve rafforzamento dei poteri del premier, sarebbero stati recepiti nella "Bozza Violante" e oggi, almeno a parole, fanno parte di quel pacchetto di riforme cosiddette "condivise".
Per questo la proposta Calderoli rappresenta una sfida anche per le opposizioni. Queste riforme - se ciascuno mantiene la propria parola - si possono approvare davvero in un batter d'occhio, esattamente come la manovra finanziaria (ovviamente rispettando i diversi tempi prescritti dalla Costituzione). Certo, tutto è perfettibile e migliorabile, ma è qualcosa (nella giusta direzione) contro il nulla. Già sarebbe importante che non parta la solita giostra di costituzionalisti militanti arruolati per eccepire ed obiettare, con dotte disquisizioni giuridiche il cui unico vero scopo è quello di far naufragare per l'ennesima volta queste piccole riforme solo per il fatto di essere proposte da un governo di centrodestra. In questo Paese tutti invocano "riforme riforme!", ma poi appena si tocca qualcosa si scoprono tutti per lo status quo. Ok, spacchiamo pure in quattro il capello, però poi non ci lamentiamo se non cambia mai nulla.
Ma in questo scenario - con i mercati pronti a divorarci, l'antipolitica con i suoi buoni motivi per montare come uno tsunami, la magistratura che sente l'odore di un nuovo '92 e il Parlamento che comincia a farsi intimidire - la riforma costituzionale non può bastare. E' l'emergenza economica che va affrontata di petto, ma in questo caso i margini temporali sono ancor più ristretti. Abbiamo circa due-tre settimane per incardinare due-tre riforme economiche chiave, nella speranza di mettere al riparo il nostro futuro. Qualcosa di buono, almeno per salvare la faccia, questo governo può ancora farlo, se solo lo volesse per davvero. Il tempo scarseggia, ma c'è. E' una questione di volontà politica. L'unico che può battere un colpo è lui, Berlusconi, ma la domanda è: è ancora in grado di agire, di riprendere il controllo di un governo ad oggi, de facto, a guida Napolitano-Tremonti?
Friday, July 15, 2011
I "mostri" della crisi non basta vederli...
... bisogna anche saperli abbattere
Tremonti rischia di passare alla storia come il ministro che aveva capito tutto in anticipo ma che ciò nonostante non ha saputo evitare il peggio. Aveva previsto la crisi della finanza e poi il trasferimento di quella crisi sui debiti nazionali, coniando l'efficace metafora della crisi come un videogioco dai "mostri" multiformi. I "mostri" li ha visti in tempo, ma non ha saputo abbatterli. Tremonti per primo ci ha spiegato, e ancora ama ripetere nelle sue lezioncine, che la crisi imponeva un cambiamento di paradigma, eppure lui stesso non ha saputo trarne le dovute conseguenze, sul piano nazionale e per le funzioni che è chiamato a svolgere. Mentre tutto questo accadeva, infatti, Tremonti, insieme al suo compare Sacconi, ci ripeteva che non si potevano fare le riforme durante la crisi.
Quindi avanti così, limitandoci a stringere (giustamente) i cordoni della borsa - ché tanto gli stimoli fiscali, come dimostrano i miliardi di dollari spesi dai contribuenti americani per volere di Obama, sono perfettamente inutili - e con piccoli grandi aggiustamenti contabili, che ci hanno permesso di non sprofondare come la Grecia. Ma adesso sta arrivando il conto di quell'immobilismo e potrebbe essere salatissimo. Il paradigma, nel frattempo, è cambiato davvero, non solo a parole. C'è molta liquidità nei mercati, ma gli investitori sono molto più diffidenti. Che uno Stato indebitato, anche se europeo, possa fallire non è più un'ipotesi così inimmaginabile e allora ecco che ottenere credito costa di più. Soprattutto se non cresci a ritmi tali da poterti permettere di pagare certi interessi. Allora sono guai.
L'Italia entrava nella crisi esattamente in questa situazione: con un debito alto e una crescita anemica. Allora bastava semplicemente restare al di sotto del rapporto deficit/Pil fissato da Maastricht al 3% (ricordate? Sembra passata una vita); ora, ci viene imposto il pareggio di bilancio e un rapporto debito/Pil del 60%. I parametri sono cambiati, quindi se qualcuno pensava che potessimo uscire dalla crisi esattamente come c'eravamo entrati - cioè con debito alto e crescita anemica - be', si sbagliava di grosso. Il fatto che nella nostra debolezza siamo "stabili", che siamo diventati esperti nel gestirla, e quindi per i nostri parametri i "conti sono in ordine", non basta più. E ha ragione Tremonti quando dice che il bilancio si fa per legge, ma la crescita non è nella disponibilità di un governo. Ma proprio per questo riforme strutturali dovevano essere avviate per tempo, mentre adesso rischiamo l'ennesima spremuta di tasse e una nuova svendita di aziende di Stato (con la differenza che stavolta ci sono rimaste solo le migliori).
Non che vada preso per oro colato ciò che scrivono, ma Alesina e Giavazzi, sul Corriere di oggi, spiegano - come anch'io suggerivo nel mio post di ieri - che l'ingresso dell'Italia nel gruppo dei Paesi a rischio, ormai quasi come la Spagna, è principalmente dovuto alla delusione dei mercati per una manovra «troppo sbilanciata sul lato delle entrate e poco sul taglio delle spese», fatta delle solite misure contabili e non di riforme strutturali. Perché altrimenti, non essendo sopravvenute novità nei fondamentali di finanza pubblica e di crescita, gli spread sui titoli italiani avrebbero preso a salire al ritmo di quelli spagnoli solo immediatamente dopo la pubblicazione del decreto?
Gli investitori non si fanno impressionare più solo da cifre roboanti. Valutano la qualità e la credibilità di una manovra. Non si preoccupano più solo del rigore, ma di capire se è in grado di favorire una crescita sostenuta nel lungo periodo. Se, per esempio, ci sono troppe tasse, vuol dire che i soldi in più raccolti oggi verranno presto bruciati e l'attitudine dei politici alla spesa non cambierà di molto. Così come rinviare al 31 dicembre del 2013 non già le privatizzazioni, ma una norma che dovrebbe solo semplificare le procedure di vendita, o addirittura al 2032 l'innalzamento delle pensioni delle donne nel privato, dev'essere apparso una presa in giro, quasi più opportuno non inserirle affatto.
Non che la colpa sia solo di Tremonti. Berlusconi e i partiti di maggioranza conoscevano bene le sue idee quando gli hanno affidato il Tesoro, e non sono stati in grado di sbloccare questo stato di inerzia che tutto sommato faceva comodo anche a loro, perché rinviava negli anni il momento di scelte delicate e politicamente costose. Si è trattato di un deficit di leadership e di convinzioni. E Berlusconi, per motivi anagrafici ma soprattutto per gli attacchi mediatico-giudiziari cui è costretto a far fronte, non pare in grado di rimettersi al timone, di ripuntare l'azione politica del suo governo verso la destinazione promessa agli elettori del centrodestra. Anzi, appare sempre più esautorato, tanto che l'impressione è quella di trovarci già oggi, de facto, sotto un "governo del presidente", cioè del presidente della Repubblica.
L'esperienza di altre crisi finanziarie, avvertono Alesina e Giavazzi, insegna che «la metà di agosto è un momento propizio per gli attacchi», perché «i mercati sono poco liquidi e le decisioni di un piccolo numero di investitori sono facilmente amplificate». Abbiamo quindi ancora qualche settimana di tempo per almeno incardinare due-tre riforme strutturali che convincano i mercati che l'Italia sta davvero mutando paradigma sul peso e il perimetro dello Stato.
Tremonti rischia di passare alla storia come il ministro che aveva capito tutto in anticipo ma che ciò nonostante non ha saputo evitare il peggio. Aveva previsto la crisi della finanza e poi il trasferimento di quella crisi sui debiti nazionali, coniando l'efficace metafora della crisi come un videogioco dai "mostri" multiformi. I "mostri" li ha visti in tempo, ma non ha saputo abbatterli. Tremonti per primo ci ha spiegato, e ancora ama ripetere nelle sue lezioncine, che la crisi imponeva un cambiamento di paradigma, eppure lui stesso non ha saputo trarne le dovute conseguenze, sul piano nazionale e per le funzioni che è chiamato a svolgere. Mentre tutto questo accadeva, infatti, Tremonti, insieme al suo compare Sacconi, ci ripeteva che non si potevano fare le riforme durante la crisi.
Quindi avanti così, limitandoci a stringere (giustamente) i cordoni della borsa - ché tanto gli stimoli fiscali, come dimostrano i miliardi di dollari spesi dai contribuenti americani per volere di Obama, sono perfettamente inutili - e con piccoli grandi aggiustamenti contabili, che ci hanno permesso di non sprofondare come la Grecia. Ma adesso sta arrivando il conto di quell'immobilismo e potrebbe essere salatissimo. Il paradigma, nel frattempo, è cambiato davvero, non solo a parole. C'è molta liquidità nei mercati, ma gli investitori sono molto più diffidenti. Che uno Stato indebitato, anche se europeo, possa fallire non è più un'ipotesi così inimmaginabile e allora ecco che ottenere credito costa di più. Soprattutto se non cresci a ritmi tali da poterti permettere di pagare certi interessi. Allora sono guai.
L'Italia entrava nella crisi esattamente in questa situazione: con un debito alto e una crescita anemica. Allora bastava semplicemente restare al di sotto del rapporto deficit/Pil fissato da Maastricht al 3% (ricordate? Sembra passata una vita); ora, ci viene imposto il pareggio di bilancio e un rapporto debito/Pil del 60%. I parametri sono cambiati, quindi se qualcuno pensava che potessimo uscire dalla crisi esattamente come c'eravamo entrati - cioè con debito alto e crescita anemica - be', si sbagliava di grosso. Il fatto che nella nostra debolezza siamo "stabili", che siamo diventati esperti nel gestirla, e quindi per i nostri parametri i "conti sono in ordine", non basta più. E ha ragione Tremonti quando dice che il bilancio si fa per legge, ma la crescita non è nella disponibilità di un governo. Ma proprio per questo riforme strutturali dovevano essere avviate per tempo, mentre adesso rischiamo l'ennesima spremuta di tasse e una nuova svendita di aziende di Stato (con la differenza che stavolta ci sono rimaste solo le migliori).
Non che vada preso per oro colato ciò che scrivono, ma Alesina e Giavazzi, sul Corriere di oggi, spiegano - come anch'io suggerivo nel mio post di ieri - che l'ingresso dell'Italia nel gruppo dei Paesi a rischio, ormai quasi come la Spagna, è principalmente dovuto alla delusione dei mercati per una manovra «troppo sbilanciata sul lato delle entrate e poco sul taglio delle spese», fatta delle solite misure contabili e non di riforme strutturali. Perché altrimenti, non essendo sopravvenute novità nei fondamentali di finanza pubblica e di crescita, gli spread sui titoli italiani avrebbero preso a salire al ritmo di quelli spagnoli solo immediatamente dopo la pubblicazione del decreto?
Gli investitori non si fanno impressionare più solo da cifre roboanti. Valutano la qualità e la credibilità di una manovra. Non si preoccupano più solo del rigore, ma di capire se è in grado di favorire una crescita sostenuta nel lungo periodo. Se, per esempio, ci sono troppe tasse, vuol dire che i soldi in più raccolti oggi verranno presto bruciati e l'attitudine dei politici alla spesa non cambierà di molto. Così come rinviare al 31 dicembre del 2013 non già le privatizzazioni, ma una norma che dovrebbe solo semplificare le procedure di vendita, o addirittura al 2032 l'innalzamento delle pensioni delle donne nel privato, dev'essere apparso una presa in giro, quasi più opportuno non inserirle affatto.
Non che la colpa sia solo di Tremonti. Berlusconi e i partiti di maggioranza conoscevano bene le sue idee quando gli hanno affidato il Tesoro, e non sono stati in grado di sbloccare questo stato di inerzia che tutto sommato faceva comodo anche a loro, perché rinviava negli anni il momento di scelte delicate e politicamente costose. Si è trattato di un deficit di leadership e di convinzioni. E Berlusconi, per motivi anagrafici ma soprattutto per gli attacchi mediatico-giudiziari cui è costretto a far fronte, non pare in grado di rimettersi al timone, di ripuntare l'azione politica del suo governo verso la destinazione promessa agli elettori del centrodestra. Anzi, appare sempre più esautorato, tanto che l'impressione è quella di trovarci già oggi, de facto, sotto un "governo del presidente", cioè del presidente della Repubblica.
L'esperienza di altre crisi finanziarie, avvertono Alesina e Giavazzi, insegna che «la metà di agosto è un momento propizio per gli attacchi», perché «i mercati sono poco liquidi e le decisioni di un piccolo numero di investitori sono facilmente amplificate». Abbiamo quindi ancora qualche settimana di tempo per almeno incardinare due-tre riforme strutturali che convincano i mercati che l'Italia sta davvero mutando paradigma sul peso e il perimetro dello Stato.
Thursday, July 14, 2011
Di certo ci sono solo le tasse (e la morte)
Il bivio l'ha indicato in tutta la sua drammaticità l'ormai ex governatore Draghi parlando ieri all'assemblea Abi: o ulteriori tagli alla spesa, o nuove tasse. Tertium non datur. Ebbene, il governo sembra aver già scelto: il rafforzamento della manovra, reso urgente dalla sfiducia manifestata dai mercati sulla prima versione, è quasi tutto basato su nuove tasse e su misure estemporanee da Prima Repubblica, non strutturali. Solo ritocchi cosmetici, insomma, e impegni vaghi per il futuro, mentre è tutt'altro che cosmetico l'aggravio fiscale: 20 miliardi di minori agevolazioni Irpef. La norma scatta subito per il 2013-2014, e non si applica solo se entro il 30 settembre 2013 (sotto un nuovo governo, dunque) verrà esercitata la delega fiscale e assistenziale in modo da rendere gli stessi importi tramite tagli alle spese inutili.
Adesso, a mente fredda, appare sempre più evidente che l'inclusione dell'Italia nel gruppo dei Paesi dell'euro che i mercati percepiscono a rischio default (e ci rimarrà a lungo a prescindere dal sali-scendi quotidiano) è stata principalmente dovuta alla delusione per una manovra anche pesante, ma certo non strutturale, tanto che l'attacco ai titoli di Stato è esploso un minuto dopo la pubblicazione del decreto. Eppure, questa emergenza rappresentava anche una opportunità senza precedenti, ghiottissima, per imporre al Paese una vera rivoluzione fiscale, sia sul lato della spesa che su quello delle tasse, un nuovo paradigma del ruolo dello Stato, insomma la svolta che da 17 anni il centrodestra promette ai suoi elettori senza mai nemmeno provare ad attuarla. Per esempio, passando subito al cosiddetto "zero-based budgeting".
Invece, un'altra, l'ennesima occasione d'oro sperperata. La manovra è una somma di rattoppi, che forse (ma non è neanche certo) rassicura i mercati nel breve termine, ma manca una visione dello Stato, e del suo rapporto con i cittadini, diversa da quella attuale, colpevole dell'alto debito e della crescita anemica che stanno soffocando il nostro Paese. Una parte consistente del risanamento viene addirittura conseguito tramite nuove tasse, due quinti della manovra nel 2013 e oltre un quarto nel 2014, il che rischia di provocare un aumento non lieve della pressione fiscale, già a livelli insopportabili, e quindi di deprimere ancor di più l'economia.
Senza contare che già da lunedì, alla riapertura dei mercati, gli investitori potrebbero ritenere non sufficienti i «rafforzamenti» predisposti. Una bocciatura che potrebbe davvero aprire la strada all'ipotesi preferita - ma per ora velleiteria - delle opposizioni: il governissimo. Che ovviamente è garanzia di ulteriore instabilità e di ulteriori patrimoniali. Si sta scherzando con il fuoco, insomma, perché non si è ancora capito che con la doppia crisi - prima del debito privato, poi dei debiti sovrani - sono mutati profondamente gli standard nella concessione del credito. Gli Stati non vengono più considerati al riparo da fallimenti (persino gli Usa), quindi la fiducia dei mercati va conquistata con i fatti e non con le promesse (questo entro il 2013, quello entro il 2014, l'altro entro il 2020, se non entro il 2050, sono tutte scadenze risibili, che non si beve più nessuno).
Non scandalizzano i ticket per i codici bianchi in pronto soccorso e sugli esami specialistici, strumento che può risultare efficace per responsabilizzare gli utenti rispetto all'inarrestabile ascesa della spesa sanitaria, né la minore rivalutazione sulle pensioni medie e il "contributo di solidarietà" sulle pensioni d'oro. Viene rimodulata la patrimoniale sui titoli di Stato, ma resta una patrimoniale e si mettono a bilancio fino al 2014 nuove cospicue entrate sottintendendo che i risparmiatori non reagiranno al salasso chiudendo i loro conti.
Il vero scandalo però sono il rinvio sine die delle riforme strutturali, gli impegni troppo vaghi e lontani nel tempo sulle privatizzioni, sulle liberalizzazioni e sulla riduzione dei costi della politica. Si anticipa al 2013 l'aggancio delle pensioni all'aspettativa di vita, ma perché non dal 2012? Mentre l'innalzamento a 65 anni dell'età pensionabile delle donne anche nel privato viene rinviato di due decenni. Rinviato di fatto alla prossima legislatura anche il ritorno alle privatizzazioni: entro il 31 dicembre 2013 (fra due anni e mezzo!) una legge quadro dovrebbe semplificare il percorso delle dismissioni delle partecipazioni dello Stato e da lì si potrà ragionare su cosa e come dismettere. Ci arriveremo a quella data?
Anche sulle liberalizzazioni, la manovra prevede impegni spostati nel futuro: da qui a otto mesi cosa e come liberalizzare sarà deciso dal governo insieme alle corporazioni. Non si toccano le professioni con l'esame di Stato, il che è come dire che non si tocca nulla, e per le altre saranno le corporazioni stesse che saranno chiamate ad elaborare, in accordo col governo, nuove regole. E vi pare che qualche corporazione sia disposta a liberalizzare se stessa. Sarebbe comprensibile se la ritrosia del centrodestra fosse dovuta alla preoccupazione di salvaguardare la propria "costituency" elettorale? Ma pare non sia solo così. Perché, infatti, non liberalizzare il mercato del lavoro (abolendo l'articolo 18) e il mercato dell'istruzione superiore, abolendo il valore legale della laurea e riformando la casta universitaria?
Adesso, a mente fredda, appare sempre più evidente che l'inclusione dell'Italia nel gruppo dei Paesi dell'euro che i mercati percepiscono a rischio default (e ci rimarrà a lungo a prescindere dal sali-scendi quotidiano) è stata principalmente dovuta alla delusione per una manovra anche pesante, ma certo non strutturale, tanto che l'attacco ai titoli di Stato è esploso un minuto dopo la pubblicazione del decreto. Eppure, questa emergenza rappresentava anche una opportunità senza precedenti, ghiottissima, per imporre al Paese una vera rivoluzione fiscale, sia sul lato della spesa che su quello delle tasse, un nuovo paradigma del ruolo dello Stato, insomma la svolta che da 17 anni il centrodestra promette ai suoi elettori senza mai nemmeno provare ad attuarla. Per esempio, passando subito al cosiddetto "zero-based budgeting".
Invece, un'altra, l'ennesima occasione d'oro sperperata. La manovra è una somma di rattoppi, che forse (ma non è neanche certo) rassicura i mercati nel breve termine, ma manca una visione dello Stato, e del suo rapporto con i cittadini, diversa da quella attuale, colpevole dell'alto debito e della crescita anemica che stanno soffocando il nostro Paese. Una parte consistente del risanamento viene addirittura conseguito tramite nuove tasse, due quinti della manovra nel 2013 e oltre un quarto nel 2014, il che rischia di provocare un aumento non lieve della pressione fiscale, già a livelli insopportabili, e quindi di deprimere ancor di più l'economia.
Senza contare che già da lunedì, alla riapertura dei mercati, gli investitori potrebbero ritenere non sufficienti i «rafforzamenti» predisposti. Una bocciatura che potrebbe davvero aprire la strada all'ipotesi preferita - ma per ora velleiteria - delle opposizioni: il governissimo. Che ovviamente è garanzia di ulteriore instabilità e di ulteriori patrimoniali. Si sta scherzando con il fuoco, insomma, perché non si è ancora capito che con la doppia crisi - prima del debito privato, poi dei debiti sovrani - sono mutati profondamente gli standard nella concessione del credito. Gli Stati non vengono più considerati al riparo da fallimenti (persino gli Usa), quindi la fiducia dei mercati va conquistata con i fatti e non con le promesse (questo entro il 2013, quello entro il 2014, l'altro entro il 2020, se non entro il 2050, sono tutte scadenze risibili, che non si beve più nessuno).
Non scandalizzano i ticket per i codici bianchi in pronto soccorso e sugli esami specialistici, strumento che può risultare efficace per responsabilizzare gli utenti rispetto all'inarrestabile ascesa della spesa sanitaria, né la minore rivalutazione sulle pensioni medie e il "contributo di solidarietà" sulle pensioni d'oro. Viene rimodulata la patrimoniale sui titoli di Stato, ma resta una patrimoniale e si mettono a bilancio fino al 2014 nuove cospicue entrate sottintendendo che i risparmiatori non reagiranno al salasso chiudendo i loro conti.
Il vero scandalo però sono il rinvio sine die delle riforme strutturali, gli impegni troppo vaghi e lontani nel tempo sulle privatizzioni, sulle liberalizzazioni e sulla riduzione dei costi della politica. Si anticipa al 2013 l'aggancio delle pensioni all'aspettativa di vita, ma perché non dal 2012? Mentre l'innalzamento a 65 anni dell'età pensionabile delle donne anche nel privato viene rinviato di due decenni. Rinviato di fatto alla prossima legislatura anche il ritorno alle privatizzazioni: entro il 31 dicembre 2013 (fra due anni e mezzo!) una legge quadro dovrebbe semplificare il percorso delle dismissioni delle partecipazioni dello Stato e da lì si potrà ragionare su cosa e come dismettere. Ci arriveremo a quella data?
Anche sulle liberalizzazioni, la manovra prevede impegni spostati nel futuro: da qui a otto mesi cosa e come liberalizzare sarà deciso dal governo insieme alle corporazioni. Non si toccano le professioni con l'esame di Stato, il che è come dire che non si tocca nulla, e per le altre saranno le corporazioni stesse che saranno chiamate ad elaborare, in accordo col governo, nuove regole. E vi pare che qualche corporazione sia disposta a liberalizzare se stessa. Sarebbe comprensibile se la ritrosia del centrodestra fosse dovuta alla preoccupazione di salvaguardare la propria "costituency" elettorale? Ma pare non sia solo così. Perché, infatti, non liberalizzare il mercato del lavoro (abolendo l'articolo 18) e il mercato dell'istruzione superiore, abolendo il valore legale della laurea e riformando la casta universitaria?
Wednesday, July 13, 2011
Abbassa la cresta, caro Giulio
Hai ragione, «sono stati persi tre anni». Da voi.
Pur dimesso nel tono della voce, il ministro Tremonti ha proferito all'assemblea dell'Abi la sua lezione sulla crisi. Se l'è presa con gli strumenti finanziari, con il deficit di governance nell'Ue («è in discussione l'idea stessa di Europa»), con il debito degli Stati, appesantito perché con i salvataggi si è accollato i debiti privati, con il balzo degli spread che è un problema «non del singolo Stato, ma della struttura complessiva». Tutto vero, verissimo, ma abbassa la cresta, caro Giulio, un po' d'autocritica, please, perché la tua manovra ha fallito, va riscritta e rischia di farci perdere molti soldi.
«Sono stati persi tre anni» e «nulla è stato fatto di quello che andava fatto», recrimina Tremonti. Ma se questo è vero a livello europeo e globale, è ancor più vero per quanto riguarda l'Italia, caro Giulio! Chi è che teorizzava che durante la crisi non si potevano fare le riforme? Il nostro debito alto non deriva dai salvataggi delle banche, ma da tre decenni di spesa incontrollata, e la crescita anemica dura da almeno un decennio. Malattie del nostro Paese che precedevano la crisi, con cui la crisi non c'entra nulla, che andavano curate indipendentemente dalla crisi e che stanno sopravvivendo alla crisi per l'immobilismo del governo e del suo ministro del Tesoro.
E l'ennesima manovra, quella che doveva evitare all'Italia di entrare a far parte del gruppo dei Paesi dell'euro a rischio default, ha fallito. Oltre a essere illiberale, si è rivelata insufficiente, perché indugia in una serie di misure ragionieristiche e di balzelli da Prima Repubblica, rinviando all'«anno del mai» i risparmi e le riforme strutturali, nonché la questione della crescita. In pratica, rinvia le scelte, non "governa". I mercati se ne sono accorti benissimo, e infatti hanno aspettato la pubblicazione del decreto prima di includere anche l'Italia nel moto di sfiducia che sta colpendo il ventre molle dell'area euro.
Di questo fallimento sono responsabili in primo luogo Tremonti, artefice dell'impianto e della "filosofia" della manovra, dominus della politica economica del governo, che fino ad ora aveva avuto per lo meno il merito di aver resistito alle sirene pro spesa interne ed esterne all'Esecutivo, ma che oggi palesa tutti i suoi limiti di visione politica e culturale; e in secondo luogo, Berlusconi e gli altri ministri, che hanno lasciato carta bianca a Tremonti e, anzi, avrebbero voluto una manovra ancor più annacquata. Errori grossolani, per mancanza totale di consapevolezza della gravità del momento ma soprattutto - ancor più grave - per mancanza di ambizione politica.
L'azzeramento del deficit, infatti, dovrebbe rappresentare - ancor di più agli occhi di un governo di centrodestra - un risultato epocale per l'Italia, da rivendicare con fierezza dinanzi all'opinione pubblica, e non da far passare come imposizione che viene dall'esterno, da rinviare il più possibile e di cui scusarsi con il cappello in mano di fronte ai cittadini. Certo è che se ci si muove con la destrezza di ladri che si aggirano notte tempo nelle tasche degli italiani, allora è ovvio che venga vissuta in questo modo. E' questo deficit direi culturale, l'incapacità di individuare e far propri nell'azione di governo obiettivi di cambiamento ambiziosi, il fallimento più grande.
E se il centrodestra, il Pdl in particolare, in futuro vorrà rinascere dalle ceneri di oggi, dovrà fare piazza pulita della cultura politica del duo Tremonti-Sacconi, che durante la crisi ripetevano che nulla si dovesse toccare, e che ancora oggi solo la sveglia dei mercati induce a muovere alcuni timidi passi. Pare infatti che il governo sarà costretto a far rientrare dalla finestra ciò che aveva inopinatamente fatto uscire dal proprio orizzonte politico di questi anni e, di conseguenza, anche dalla manovra: Tremonti ha confermato, intervenendo all'assemblea Abi, che privatizzazioni (vendita di aziende di Stato e municipalizzate) e liberalizzazioni entrano nella manovra. Un suicidio politico, un esercizio di tafazzismo, farsi imporre dall'Ue e dai mercati qualcosa che tra l'altro faceva parte dei propri programmi elettorali del 2008 e delle elezioni precedenti.
Privatizzare, privatizzare, privatizzare, dunque. Se si vuole davvero aggredire il debito, lo sanno tutti, è condizione necessaria (ma non sufficiente), come indicano anche Perotti e Zingales, oggi sul Sole 24 Ore, nel loro "programma" per il pareggio di bilancio. Una vera e propria dichiarazione di guerra ai "poteri forti" e parassitari del Paese: aziende di Stato, fondazioni bancarie (il presidente dell'Abi ha già replicato stizzito), municipalizzate, politici, burocrazia. Se entro sei mesi dal confronto tra il governo e le associazioni non usciranno regole ed eccezioni, scatteranno per tutti i settori automaticamente le liberalizzazioni.
Pare, inoltre, che Tremonti si sia deciso a presentare in Cdm un disegno di legge, promesso da mesi, per inserire nella Costituzione i vincoli Ue sul debito. Benissimo, ma allo stesso tempo bisogna inserire anche un tetto alla pressione fiscale, altrimenti il solo vincolo di bilancio rischia di tradursi in una spremuta di tasse senza fine. Ma la vera rivoluzione sarebbe quella (invocata da sempre dal solo Giannino, a quanto mi risulta) di passare dalle manovre fatte sugli aumenti tendenziali della spesa, per cui in termini reali la spesa corrente cresce sempre, e con essa le entrate, al cosiddetto "zero-based budgeting", in cui è l'intero budget di ciascun ente di spesa ad essere rivisto. «Se non si incide anche su altre voci di spesa - ha avvertito Draghi oggi all'assemblea Abi - il ricorso alla delega fiscale e assistenziale per completare la manovra nel 2013-2014 non potrà evitare un aumento delle imposte». Cioè, quella delega concepita originariamente per mantenere la promessa di ridurre le tasse, rischia di trasformarsi nell'occasione per un salasso.
E' deprimente, infatti, che i soli soldi veri che entreranno di sicuro nella manovra siano i 15 miliardi della cosiddetta "clausola di salvaguardia", il taglio del 15% su tutte le agevolazioni fiscali che scatterà in automatico dal 2013 nel caso non si desse corso alla delega fiscale che prevede il riordino delle prestazioni assistenziali per lo stesso importo (in pratica, aumenti Irpef tramite eliminazione di deduzioni e detrazioni), e che l'innalzamento dell'età pensionabile delle donne nel privato subirà, pare, un ritocco solo cosmetico, rimanendo previsto a regime entro una data semplicemente ridicola (il 2029). In tutto questo, il contributo alla manovra da parte delle opposizioni (preoccupate delle indicizzazioni delle pensioni, della progressività del bollo sui depositi titoli e della norma sull'ammortamento per le società concessionarie) conferma l'assenza di alternative credibili in termini di austerità e crescita.
Pur dimesso nel tono della voce, il ministro Tremonti ha proferito all'assemblea dell'Abi la sua lezione sulla crisi. Se l'è presa con gli strumenti finanziari, con il deficit di governance nell'Ue («è in discussione l'idea stessa di Europa»), con il debito degli Stati, appesantito perché con i salvataggi si è accollato i debiti privati, con il balzo degli spread che è un problema «non del singolo Stato, ma della struttura complessiva». Tutto vero, verissimo, ma abbassa la cresta, caro Giulio, un po' d'autocritica, please, perché la tua manovra ha fallito, va riscritta e rischia di farci perdere molti soldi.
«Sono stati persi tre anni» e «nulla è stato fatto di quello che andava fatto», recrimina Tremonti. Ma se questo è vero a livello europeo e globale, è ancor più vero per quanto riguarda l'Italia, caro Giulio! Chi è che teorizzava che durante la crisi non si potevano fare le riforme? Il nostro debito alto non deriva dai salvataggi delle banche, ma da tre decenni di spesa incontrollata, e la crescita anemica dura da almeno un decennio. Malattie del nostro Paese che precedevano la crisi, con cui la crisi non c'entra nulla, che andavano curate indipendentemente dalla crisi e che stanno sopravvivendo alla crisi per l'immobilismo del governo e del suo ministro del Tesoro.
E l'ennesima manovra, quella che doveva evitare all'Italia di entrare a far parte del gruppo dei Paesi dell'euro a rischio default, ha fallito. Oltre a essere illiberale, si è rivelata insufficiente, perché indugia in una serie di misure ragionieristiche e di balzelli da Prima Repubblica, rinviando all'«anno del mai» i risparmi e le riforme strutturali, nonché la questione della crescita. In pratica, rinvia le scelte, non "governa". I mercati se ne sono accorti benissimo, e infatti hanno aspettato la pubblicazione del decreto prima di includere anche l'Italia nel moto di sfiducia che sta colpendo il ventre molle dell'area euro.
Di questo fallimento sono responsabili in primo luogo Tremonti, artefice dell'impianto e della "filosofia" della manovra, dominus della politica economica del governo, che fino ad ora aveva avuto per lo meno il merito di aver resistito alle sirene pro spesa interne ed esterne all'Esecutivo, ma che oggi palesa tutti i suoi limiti di visione politica e culturale; e in secondo luogo, Berlusconi e gli altri ministri, che hanno lasciato carta bianca a Tremonti e, anzi, avrebbero voluto una manovra ancor più annacquata. Errori grossolani, per mancanza totale di consapevolezza della gravità del momento ma soprattutto - ancor più grave - per mancanza di ambizione politica.
L'azzeramento del deficit, infatti, dovrebbe rappresentare - ancor di più agli occhi di un governo di centrodestra - un risultato epocale per l'Italia, da rivendicare con fierezza dinanzi all'opinione pubblica, e non da far passare come imposizione che viene dall'esterno, da rinviare il più possibile e di cui scusarsi con il cappello in mano di fronte ai cittadini. Certo è che se ci si muove con la destrezza di ladri che si aggirano notte tempo nelle tasche degli italiani, allora è ovvio che venga vissuta in questo modo. E' questo deficit direi culturale, l'incapacità di individuare e far propri nell'azione di governo obiettivi di cambiamento ambiziosi, il fallimento più grande.
E se il centrodestra, il Pdl in particolare, in futuro vorrà rinascere dalle ceneri di oggi, dovrà fare piazza pulita della cultura politica del duo Tremonti-Sacconi, che durante la crisi ripetevano che nulla si dovesse toccare, e che ancora oggi solo la sveglia dei mercati induce a muovere alcuni timidi passi. Pare infatti che il governo sarà costretto a far rientrare dalla finestra ciò che aveva inopinatamente fatto uscire dal proprio orizzonte politico di questi anni e, di conseguenza, anche dalla manovra: Tremonti ha confermato, intervenendo all'assemblea Abi, che privatizzazioni (vendita di aziende di Stato e municipalizzate) e liberalizzazioni entrano nella manovra. Un suicidio politico, un esercizio di tafazzismo, farsi imporre dall'Ue e dai mercati qualcosa che tra l'altro faceva parte dei propri programmi elettorali del 2008 e delle elezioni precedenti.
Privatizzare, privatizzare, privatizzare, dunque. Se si vuole davvero aggredire il debito, lo sanno tutti, è condizione necessaria (ma non sufficiente), come indicano anche Perotti e Zingales, oggi sul Sole 24 Ore, nel loro "programma" per il pareggio di bilancio. Una vera e propria dichiarazione di guerra ai "poteri forti" e parassitari del Paese: aziende di Stato, fondazioni bancarie (il presidente dell'Abi ha già replicato stizzito), municipalizzate, politici, burocrazia. Se entro sei mesi dal confronto tra il governo e le associazioni non usciranno regole ed eccezioni, scatteranno per tutti i settori automaticamente le liberalizzazioni.
Pare, inoltre, che Tremonti si sia deciso a presentare in Cdm un disegno di legge, promesso da mesi, per inserire nella Costituzione i vincoli Ue sul debito. Benissimo, ma allo stesso tempo bisogna inserire anche un tetto alla pressione fiscale, altrimenti il solo vincolo di bilancio rischia di tradursi in una spremuta di tasse senza fine. Ma la vera rivoluzione sarebbe quella (invocata da sempre dal solo Giannino, a quanto mi risulta) di passare dalle manovre fatte sugli aumenti tendenziali della spesa, per cui in termini reali la spesa corrente cresce sempre, e con essa le entrate, al cosiddetto "zero-based budgeting", in cui è l'intero budget di ciascun ente di spesa ad essere rivisto. «Se non si incide anche su altre voci di spesa - ha avvertito Draghi oggi all'assemblea Abi - il ricorso alla delega fiscale e assistenziale per completare la manovra nel 2013-2014 non potrà evitare un aumento delle imposte». Cioè, quella delega concepita originariamente per mantenere la promessa di ridurre le tasse, rischia di trasformarsi nell'occasione per un salasso.
E' deprimente, infatti, che i soli soldi veri che entreranno di sicuro nella manovra siano i 15 miliardi della cosiddetta "clausola di salvaguardia", il taglio del 15% su tutte le agevolazioni fiscali che scatterà in automatico dal 2013 nel caso non si desse corso alla delega fiscale che prevede il riordino delle prestazioni assistenziali per lo stesso importo (in pratica, aumenti Irpef tramite eliminazione di deduzioni e detrazioni), e che l'innalzamento dell'età pensionabile delle donne nel privato subirà, pare, un ritocco solo cosmetico, rimanendo previsto a regime entro una data semplicemente ridicola (il 2029). In tutto questo, il contributo alla manovra da parte delle opposizioni (preoccupate delle indicizzazioni delle pensioni, della progressività del bollo sui depositi titoli e della norma sull'ammortamento per le società concessionarie) conferma l'assenza di alternative credibili in termini di austerità e crescita.
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Tuesday, July 12, 2011
Agire in poche ore o perire
Quello che non hanno ancora capito è che la manovra è già superata dai fatti. Non basta più approvarla subito, bisogna tagliare di più e non a partire dal 2020 per il 2030. Annunciare subito: tutti in pensione a 65 anni dal 2012, a 67 dal 2018 (e invece c'è un ministro irresponsabile che ancora ieri si vantava che l'aumento dell'età pensionabile delle donne nel privato era rinviato «all'anno del mai»); che dal 2012 la spesa non crescerà di un solo euro, ma in termini "reali" e non tendenziali; privatizzazioni per un paio di punti di Pil per abbattere il debito; e subito detassazione lavoro-capitale, perché davvero (ma davvero davvero) i mercati non guardano solo al rigore, che dev'esserci con misure strutturali, ma anche alle prospettive di crescita: se non cresci il debito come lo paghi? Sarà banale, ma anche tremendamente vero che il rigore senza crescita non risolve nulla, perché se il Pil aumenta, ogni anno, meno degli interessi, il rapporto debito/Pil aumenta.
No, invece, fermamente no a nuove patrimoniali, misure una tantum che non incidono sulla spesa pubblica, non mutano l'attitudine dei politici a spendere, e le cui entrate vengono sperperate nell'arco di pochi anni in nuove spese. Il segnale forte, come suggerivano giorni fa Perotti e Zingales, dev'essere «il pareggio di bilancio nell'arco diciamo di un anno». Su questo blog è dal giorno di presentazione della manovra che ripeto quanto sia opportuno anticiparlo al 2013 rispetto alle richieste europee (2014). Come? Se lo fai con le entrate, ammazzi l'economia, la crescita, quindi non raggiungi il pareggio e sei daccapo.
È vero che i fondamentali economici del nostro Paese - sia di finanza pubblica (in questi anni abbiamo fatto meno deficit di tutti, se si esclude la Germania; le banche italiane non hanno avuto bisogno di salvataggi pubblici), che di bassa crescita (attorno all'1%) - non sono mutati nelle ultime settimane; è vero che Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna stanno peggio di noi. Cosa, allora, può giustificare un attacco simile? Prendersela con gli speculatori è l'alibi preferito dei politici. Sullo sfondo c'è il contesto europeo e internazionale: la Grecia fallirà e questo rende maggiore il rischio economico sui nostri titoli di Stato e su quelli degli altri "Pigs", rendendo incerte persino le prospettive dell'euro, anche per le indecisioni europee e, soprattutto, tedesche sul da farsi in sua difesa. A ciò si aggiunga il baratro del debito Usa che si sta aprendo e l'interesse di molti, dunque, ad accanirsi sulle debolezze europee.
Se è vero che altri stanno peggio di noi, è anche vero che il valore assoluto del nostro debito è incomparabile al loro, e quindi molto più rischioso per l'intero sistema. Pesano ovviamente anche i fattori nazionali: se si vive per anni sul bordo del precipizio - debito alto e bassa crescita - non importa quanto si possa apparire stabili, capaci equilibristi, prima o poi si può iniziare a scivolare verso il basso anche per uno spiffero d'aria. L'incertezza politica di un governo diviso al suo interno, di un'opposizione irresponsabile che non offre alternative credibili in termini di austerità e crescita, e delle inchieste che lambiscono il ministro del Tesoro fanno il resto, ma sono tutto sommato aspetti marginali.
Effettivamente, i nostri conti pubblici durante la crisi del 2008-2009 sono rimasti in ordine, principalmente per merito di Tremonti che ha resistito sia alle sirene interne di parecchi ministri, sia a quelle di Bersani che chiedeva più soldi - «freschi» - per stimolare l'economia. E tenere i conti in ordine durante la crisi era condizione indispensabile per non finire come la Grecia, ma non sufficiente per ripartire col piede giusto e per restare fuori dalla crisi del debito che ha colpito l'area euro. L'Italia ce l'avrebbe fatta solo a patto di approfittare di questa finestra temporale, di questa maschera ad ossigeno, per realizzare vere riforme. Ciò che il governo - e soprattutto il duo socialista Tremonti-Sacconi, che dall'inizio ha avuto in mano la politica economica teorizzando che durante la crisi non si dovesse toccare nulla - non si è mai convinto a fare, illudendosi invece di poter vivacchiare con correzioni ragionieristiche.
La manovra tanto attesa era l'ultima spiaggia per evitare i colpi che probabilmente i mercati avevano già in canna, ma ha già fallito, perché rinvia i tagli strutturali di vent'anni, continua a botte di patrimoniali e mancano vere "frustate" per la crescita. Ora i nodi stanno venendo al pettine, il Paese sta pagando e continuerà a pagare a caro prezzo l'immobilismo del governo in tema di riforme, che subito dal 2008 abbiamo denunciato, e il tempo è (quasi) scaduto.
No, invece, fermamente no a nuove patrimoniali, misure una tantum che non incidono sulla spesa pubblica, non mutano l'attitudine dei politici a spendere, e le cui entrate vengono sperperate nell'arco di pochi anni in nuove spese. Il segnale forte, come suggerivano giorni fa Perotti e Zingales, dev'essere «il pareggio di bilancio nell'arco diciamo di un anno». Su questo blog è dal giorno di presentazione della manovra che ripeto quanto sia opportuno anticiparlo al 2013 rispetto alle richieste europee (2014). Come? Se lo fai con le entrate, ammazzi l'economia, la crescita, quindi non raggiungi il pareggio e sei daccapo.
È vero che i fondamentali economici del nostro Paese - sia di finanza pubblica (in questi anni abbiamo fatto meno deficit di tutti, se si esclude la Germania; le banche italiane non hanno avuto bisogno di salvataggi pubblici), che di bassa crescita (attorno all'1%) - non sono mutati nelle ultime settimane; è vero che Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna stanno peggio di noi. Cosa, allora, può giustificare un attacco simile? Prendersela con gli speculatori è l'alibi preferito dei politici. Sullo sfondo c'è il contesto europeo e internazionale: la Grecia fallirà e questo rende maggiore il rischio economico sui nostri titoli di Stato e su quelli degli altri "Pigs", rendendo incerte persino le prospettive dell'euro, anche per le indecisioni europee e, soprattutto, tedesche sul da farsi in sua difesa. A ciò si aggiunga il baratro del debito Usa che si sta aprendo e l'interesse di molti, dunque, ad accanirsi sulle debolezze europee.
Se è vero che altri stanno peggio di noi, è anche vero che il valore assoluto del nostro debito è incomparabile al loro, e quindi molto più rischioso per l'intero sistema. Pesano ovviamente anche i fattori nazionali: se si vive per anni sul bordo del precipizio - debito alto e bassa crescita - non importa quanto si possa apparire stabili, capaci equilibristi, prima o poi si può iniziare a scivolare verso il basso anche per uno spiffero d'aria. L'incertezza politica di un governo diviso al suo interno, di un'opposizione irresponsabile che non offre alternative credibili in termini di austerità e crescita, e delle inchieste che lambiscono il ministro del Tesoro fanno il resto, ma sono tutto sommato aspetti marginali.
Effettivamente, i nostri conti pubblici durante la crisi del 2008-2009 sono rimasti in ordine, principalmente per merito di Tremonti che ha resistito sia alle sirene interne di parecchi ministri, sia a quelle di Bersani che chiedeva più soldi - «freschi» - per stimolare l'economia. E tenere i conti in ordine durante la crisi era condizione indispensabile per non finire come la Grecia, ma non sufficiente per ripartire col piede giusto e per restare fuori dalla crisi del debito che ha colpito l'area euro. L'Italia ce l'avrebbe fatta solo a patto di approfittare di questa finestra temporale, di questa maschera ad ossigeno, per realizzare vere riforme. Ciò che il governo - e soprattutto il duo socialista Tremonti-Sacconi, che dall'inizio ha avuto in mano la politica economica teorizzando che durante la crisi non si dovesse toccare nulla - non si è mai convinto a fare, illudendosi invece di poter vivacchiare con correzioni ragionieristiche.
La manovra tanto attesa era l'ultima spiaggia per evitare i colpi che probabilmente i mercati avevano già in canna, ma ha già fallito, perché rinvia i tagli strutturali di vent'anni, continua a botte di patrimoniali e mancano vere "frustate" per la crescita. Ora i nodi stanno venendo al pettine, il Paese sta pagando e continuerà a pagare a caro prezzo l'immobilismo del governo in tema di riforme, che subito dal 2008 abbiamo denunciato, e il tempo è (quasi) scaduto.
Monday, July 11, 2011
Faster, please!
Prendo in prestito un motto di Michael Ledeen per applicarlo alla nostra politica di bilancio. Il 2014 sarà anche il termine-obiettivo fissato dall'Europa, e sul quale ci siamo impegnati, per il pareggio di bilancio. Persino il presidente Napolitano giorni fa certificava, evidentemente rivolto alle opposizioni, che la manovra rispetta in pieno richieste e scadenze di Bruxelles, da cui la concentrazione dei sacrifici maggiori nel biennio 2013-2014 per arrivare all'azzeramento del deficit, appunto, nel 2014. Tuttavia, i mercati fanno inequivocabilmente capire di preferire tempi più rapidi. Forse non ci concederanno tutto il tempo che ci è stato concesso in sede Ue. E, come scrivevo qualche giorno fa, all'indomani della presentazione della manovra, in mancanza di altre grandi riforme "epocali" da poter vantare, un'accelerazione sarebbe nell'interesse più strettamente politico proprio dell'attuale governo.
Il pareggio di bilancio nel 2013 anziché nel 2014, cioè con un anno di anticipo, significherebbe certo fare più di quanto la stessa Europa ci ha chiesto, certamente comporterebbe tagli maggiori nel 2011 e nel 2012, ma forse sorprenderemmo positivamente i mercati, evitando di restare sul filo del rasoio per altri due anni, e sul piano politico la maggioranza uscente potrebbe presentarsi agli italiani con un grande, storico obiettivo centrato prima del voto. Gli italiani hanno capito che è una stangata, gli elettori di centrodestra hanno capito che la promessa di non mettere le mani nelle loro tasche è tradita, e ormai sono delusi. Tanto vale non correre rischi e arrivare al 2013 con un obiettivo concreto - almeno uno - centrato.
Il pareggio di bilancio nel 2013 anziché nel 2014, cioè con un anno di anticipo, significherebbe certo fare più di quanto la stessa Europa ci ha chiesto, certamente comporterebbe tagli maggiori nel 2011 e nel 2012, ma forse sorprenderemmo positivamente i mercati, evitando di restare sul filo del rasoio per altri due anni, e sul piano politico la maggioranza uscente potrebbe presentarsi agli italiani con un grande, storico obiettivo centrato prima del voto. Gli italiani hanno capito che è una stangata, gli elettori di centrodestra hanno capito che la promessa di non mettere le mani nelle loro tasche è tradita, e ormai sono delusi. Tanto vale non correre rischi e arrivare al 2013 con un obiettivo concreto - almeno uno - centrato.
Sull'agenda di Alfano
Primarie sì, non ci sarebbe nemmeno da discuterne, sono ormai imprescindibili, ma a mio avviso l'impegno del nuovo segretario del Pdl Alfano nei prossimi mesi dovrebbe concentrarsi prioritariamente su altro. Mi rendo conto che trattasi di impresa disperata, ma dovrebbe impegnare tutto il partito e i suoi parlamentari a raddrizzare il governo, ormai con quest'ultima manovra naufragato su una linea illiberale che rischia, primarie o non primarie, di provocare un bagno di sangue alle prossime elezioni (e speriamo non anche per i titoli di Stato), chiunque sia il candidato premier e in qualsiasi modo venga scelto. Secondo, dovrebbe impegnarsi a tessere un confronto con la Lega e il Pd, o almeno una parte di quest'ultimo, sulla riforma della legge elettorale. Con l'obiettivo prima di tutto di prendere l'iniziativa, anticipando pur remote possibilità che sul tema si costituiscano maggioranze diverse in Parlamento. E, se possibile, per arrivare ad una legge in grado di blindare il bipolarismo.
Purtroppo, invece, Alfano rischia di dilapidare il piccolo capitale politico rappresentato dalla novità della sua nomina infognandosi, esattamente come i vertici del Pd in questi anni, nel gioco delle alleanze. Corteggiare l'Udc da una posizione di debolezza è un errore, anche perché la prima cosa che Casini chiederebbe sarebbe il ritorno al proporzionale con preferenze e senza premi di maggioranza. E addio Pdl. Gli elettori di centro vanno "conquistati" nelle urne -lasciando pure a Pierferdy le sue clientele - e non alleandosi con un partito che si proclama "di centro".
Purtroppo, invece, Alfano rischia di dilapidare il piccolo capitale politico rappresentato dalla novità della sua nomina infognandosi, esattamente come i vertici del Pd in questi anni, nel gioco delle alleanze. Corteggiare l'Udc da una posizione di debolezza è un errore, anche perché la prima cosa che Casini chiederebbe sarebbe il ritorno al proporzionale con preferenze e senza premi di maggioranza. E addio Pdl. Gli elettori di centro vanno "conquistati" nelle urne -lasciando pure a Pierferdy le sue clientele - e non alleandosi con un partito che si proclama "di centro".
La manovra dei pm su Tremonti
Sì, vabbè, la lite, il riferimento al «metodo Boffo», è roba ghiotta per la stampa, ma il succo è che nell'interrogatorio il cui verbale è finito sui giornali sabato scorso, Tremonti smentisce il teorema di Curcio e Woodcock. I due pm cercano di fargli dire che Berlusconi ha usato la Gdf contro di lui, ma il ministro risponde tutt'altro: «Mi permetto di notare - mia impressione - che, dal tono della telefonata che ho ascoltato, le parole del presidente del Consiglio mi sembrano ispirate dal desiderio di un chiarimento in buona fede nei miei confronti».
Cosa è successo? Berlusconi e Tremonti discutono in modo acceso sulla politica economica, mentre sulla stampa di centrodestra il ministro viene criticato aspramente, fino a spingere per le sue dimissioni. Il ministro allora si «sfoga» con il premier dicendo che non ci sta a subire il «metodo Boffo» e accennando ai rapporti amichevoli tra Berlusconi e il gen. Adinolfi. Pesante allusione, ma allusione, come conferma lo stesso Tremonti: «Si trattò di uno sfogo non avendo io elementi per valutare i comportamenti di Adinolfi sotto il profilo deontologico»; con il «metodo Boffo», «non alludevo dunque come voi mi chiedete all'utilizzazione di notizie di carattere giudiziarie e riservate per fini strumentali»; «non ho mai detto a Berlusconi che lui mi voleva far fuori tramite la Guardia di Finanza. Ritengo che Berlusconi abbia fatto un erroneo collegamento fra diverse frasi da me pronunciate». E a quanto pare alcuni giorni dopo Berlusconi prende il telefono e chiama il gen. Adinolfi, che è sotto controllo, finendo dunque intercettato anche lui. Telefonata che i pm fanno ascoltare a Tremonti il quale così la interpreta: «Dal tono le parole del presidente del Consiglio mi sembrano ispirate dal desiderio di un chiarimento in buona fede nei miei confronti».
Se ne deduce che: 1) i pm tentano di strumentalizzare le divisioni politiche in seno all'Esecutivo, e in particolare fra Berlusconi e il ministro Tremonti, inducendo quest'ultimo ad accusare il primo di un comportamento illecito, cosa che non fa; 2) il tentativo getta ombre sul ministro e accresce i dubbi sulla sua permanenza alla guida del Tesoro, cosa che rischia di avere un effetto destabilizzante sui mercati. Chi ne risponderà se la sua chiamata in causa si rivelerà nient'altro che fuffa?; 3) ma siamo sicuri che l'intercettazione in cui dall'utenza di un indagato (il gen. Adinolfi) veniva ascoltata la voce del presidente del Consiglio poteva essere utilizzata in un interrogatorio, e quindi nell'inchiesta, senza prima l'autorizzazione della Camera e non andasse, invece, cestinata?
Cosa è successo? Berlusconi e Tremonti discutono in modo acceso sulla politica economica, mentre sulla stampa di centrodestra il ministro viene criticato aspramente, fino a spingere per le sue dimissioni. Il ministro allora si «sfoga» con il premier dicendo che non ci sta a subire il «metodo Boffo» e accennando ai rapporti amichevoli tra Berlusconi e il gen. Adinolfi. Pesante allusione, ma allusione, come conferma lo stesso Tremonti: «Si trattò di uno sfogo non avendo io elementi per valutare i comportamenti di Adinolfi sotto il profilo deontologico»; con il «metodo Boffo», «non alludevo dunque come voi mi chiedete all'utilizzazione di notizie di carattere giudiziarie e riservate per fini strumentali»; «non ho mai detto a Berlusconi che lui mi voleva far fuori tramite la Guardia di Finanza. Ritengo che Berlusconi abbia fatto un erroneo collegamento fra diverse frasi da me pronunciate». E a quanto pare alcuni giorni dopo Berlusconi prende il telefono e chiama il gen. Adinolfi, che è sotto controllo, finendo dunque intercettato anche lui. Telefonata che i pm fanno ascoltare a Tremonti il quale così la interpreta: «Dal tono le parole del presidente del Consiglio mi sembrano ispirate dal desiderio di un chiarimento in buona fede nei miei confronti».
Se ne deduce che: 1) i pm tentano di strumentalizzare le divisioni politiche in seno all'Esecutivo, e in particolare fra Berlusconi e il ministro Tremonti, inducendo quest'ultimo ad accusare il primo di un comportamento illecito, cosa che non fa; 2) il tentativo getta ombre sul ministro e accresce i dubbi sulla sua permanenza alla guida del Tesoro, cosa che rischia di avere un effetto destabilizzante sui mercati. Chi ne risponderà se la sua chiamata in causa si rivelerà nient'altro che fuffa?; 3) ma siamo sicuri che l'intercettazione in cui dall'utenza di un indagato (il gen. Adinolfi) veniva ascoltata la voce del presidente del Consiglio poteva essere utilizzata in un interrogatorio, e quindi nell'inchiesta, senza prima l'autorizzazione della Camera e non andasse, invece, cestinata?
Friday, July 08, 2011
E adesso?
Era nell'aria, i segnali si accumulavano da tempo. E la manovra che contraddice la promessa aurea di non mettere le mani nelle tasche degli italiani è stata, forse, lo spartiacque. Berlusconi annuncia che non si ricandiderà alle politiche del 2013 e affida il suo annuncio al giornale del suo arci nemico De Benedetti: la Repubblica. Quasi ad invocare magnanimità almeno nell'ora del passaggio del testimone, e in qualche modo a riconoscere al suo acerrimo nemico di averlo combattuto in modo anche scorretto e violento, ma a viso aperto, alla luce del sole, al contrario della faziosità infida, perché dissimulata, di altri giornali cosiddetti della "borghesia".
I segnali, dicevamo, si erano accumulati. Forse, sul fronte giudiziario, il caso Ruby ha definitivamente fiaccato la volontà del Cavaliere. Da mesi comunque il suo ruolo in seno all'Esecutivo è sempre più quello del mediatore, del primus inter pares, piuttosto che del leader e del trascinatore; dopo lo scontro con Fini, l'iniziativa politica è andata via via scemando e si è ridotta ad una lunga e sfiancante campagna acquisti in Parlamento - che non è stata a mio avviso secondaria nel determinare la sconfitta alle amministrative. Nel frattempo, un altro sintomo della progressiva perdita di iniziativa e centralità politica di Berlusconi, è l'accrescersi del protagonismo di Napolitano (persino in aperto sostegno alle scelte economiche di Tremonti), fino ad arrivare al paradosso, di questi ultimi due giorni, di un premier che rinnega apertamente un'importante scelta di politica estera come la partecipazione alla campagna libica e che non nasconde la propria irritazione per una politica economica che sente lontanissima dai suoi principi. Insomma, è come se Berlusconi si fosse già dimesso, tanto che ieri pomeriggio, su Facebook, lanciavo la provocazione di un governo ormai, de facto, Napolitano-Tremonti.
Una scelta per quanto mi riguarda saggia quella di passare la mano alle prossime elezioni, resa inevitabile innanzitutto per motivi anagrafici: sia perché l'operatività che si richiede ad un premier è troppa anche per un tipo energico come Berlusconi, che nel 2013 avrebbe 77 anni; sia perché, a prescindere dai meriti che si possano o meno rivendicare dinanzi all'opinione pubblica, arriva prima o poi il momento in una democrazia in cui la gente chiede volti nuovi a prescindere. Ed è giusto, auspicabile che sia così. Anche se, ovviamente, l'orizzonte è tutt'altro che roseo e abbiamo la certezza che la fine della premiership di Berlusconi non coinciderà con l'incamminarsi del Paese verso la risoluzione dei suoi problemi. Anzi, c'è da temere il contrario. Sia per l'assenza di un'alternativa responsabile a sinistra, sia per il rischio concreto che la tutela che la magistratura politicizzata vuole imporre sulla nostra democrazia non trovi più alcun argine, non scorgendo all'orizzonte leader altrettanto forti, sia politicamente che patrimonialmente, come Berlusconi.
Ma è stato opportuno da parte del premier annunciare pubblicamente la sua prossima uscita di scena? E' vero che era nell'aria, nelle conversazioni private Berlusconi già vi accennava, e che la sua autorità appariva già da mesi erosa all'interno della stessa compagine governativa. Eppure, il parlarne in privato e l'annuncio pubblico rischiano di non attenuare la conflittualità interna ed esterna al governo, bensì di aumentare i tentativi e i fattori di destabilizzazione. Insomma, se da questo annuncio Berlusconi spera di ricavare vantaggi in termini di una ritrovata serenità all'interno del Pdl, e della maggioranza, e di una minore aggressività nei suoi confronti, e nei confronti del governo, da parte delle opposizioni - politiche, giudiziarie e mediatiche - e così di risparmiarsi un "Piazzale Loreto", temo che dovrà presto ricredersi.
Nella sua autobiografia Tony Blair dedica uno spazio molto rilevante al tormentato periodo del suo passaggio di consegne. Ed è qui che ammette esplicitamente di aver commesso degli errori. L'aver parlato privatamente al suo ministro del Tesoro, Gordon Brown, della sua intenzione di ritirarsi prima della fine del mandato, averglielo persino promesso di fronte alle insistenze di quest'ultimo perché lo annunciasse pubblicamente, e l'essersi infine arreso ad annunciarlo in pubblico, ha aumentato, non placato, le incomprensioni, le diffidenze e gli scontri fra i due, così come non si è placata l'aggressività dei media nei suoi confronti, arrivati quasi al linciaggio quotidiano. Ma soprattutto, si era illuso che tutto ciò avrebbe favorito un clima di serenità nel governo, e in particolare nei rapporti con il Tesoro, permettendogli così di completare l'ambizioso processo di riforme a cui teneva più di ogni altra cosa. Non è andata così: si è ritrovato a scontrarsi con un Gordon Brown che, sempre più ansioso di avere lui il totale controllo sulle decisioni di politica economica, così da preparare il terreno alla sua elezione, non faceva altro che mettergli i bastoni tra le ruote (già, messa giù così pare proprio di rivedere Tremonti). Blair quindi riconosce nel suo libro che il suo annuncio è coinciso con la perdita di fatto, in quello stesso istante, della residua autorità e autorevolezza da premier. Non annunciate la data del vostro ritiro se intendete fare ancora delle cose al governo, suggerisce.
Pur con tutte le dovute differenze, questo per dire che l'annuncio di Berlusconi rischia non solo di non attenuare le divisioni interne e l'aggressività delle opposizioni, ma di scatenarle definitivamente. Il rischio è che prevalga l'istinto animalesco all'odore del sangue dell'avversario politico e non il senso di responsabilità. Dopo oggi le elezioni nel 2012 anziché nel 2013 sono più probabili.
Adesso si aprirà anche la stagione dei bilanci. Al di là del merito - avremo molte occasioni per tornarci - credo che sia importante il metodo. Inutile aspettarsi dalla sinistra - politica e giornalistica - un contributo obiettivo ed «equanime», invocato non molto tempo fa da Giuliano Ferrara su Il Foglio. Più probabile una nuova "Piazzale Loreto", o un "Hotel Rafael". Piuttosto, a mio avviso riveste un'importanza decisiva che un giudizio equanime su Berlusconi sappia elaborarlo il centrodestra, e il Pdl in particolare. Il che non è affatto scontato. Che sappiano evitare una squallida corsa a smarcarsi dal berlusconismo, ma che sappiano anche individuare limiti ed errori di Berlusconi, e di chi in questi anni - e sono in molti - gli è stato o gli è passato al fianco, e trarre lezione sia da essi che dalle attenuanti e dagli alibi, non tutti infondati, che il Cavaliere può addurre.
I segnali, dicevamo, si erano accumulati. Forse, sul fronte giudiziario, il caso Ruby ha definitivamente fiaccato la volontà del Cavaliere. Da mesi comunque il suo ruolo in seno all'Esecutivo è sempre più quello del mediatore, del primus inter pares, piuttosto che del leader e del trascinatore; dopo lo scontro con Fini, l'iniziativa politica è andata via via scemando e si è ridotta ad una lunga e sfiancante campagna acquisti in Parlamento - che non è stata a mio avviso secondaria nel determinare la sconfitta alle amministrative. Nel frattempo, un altro sintomo della progressiva perdita di iniziativa e centralità politica di Berlusconi, è l'accrescersi del protagonismo di Napolitano (persino in aperto sostegno alle scelte economiche di Tremonti), fino ad arrivare al paradosso, di questi ultimi due giorni, di un premier che rinnega apertamente un'importante scelta di politica estera come la partecipazione alla campagna libica e che non nasconde la propria irritazione per una politica economica che sente lontanissima dai suoi principi. Insomma, è come se Berlusconi si fosse già dimesso, tanto che ieri pomeriggio, su Facebook, lanciavo la provocazione di un governo ormai, de facto, Napolitano-Tremonti.
Una scelta per quanto mi riguarda saggia quella di passare la mano alle prossime elezioni, resa inevitabile innanzitutto per motivi anagrafici: sia perché l'operatività che si richiede ad un premier è troppa anche per un tipo energico come Berlusconi, che nel 2013 avrebbe 77 anni; sia perché, a prescindere dai meriti che si possano o meno rivendicare dinanzi all'opinione pubblica, arriva prima o poi il momento in una democrazia in cui la gente chiede volti nuovi a prescindere. Ed è giusto, auspicabile che sia così. Anche se, ovviamente, l'orizzonte è tutt'altro che roseo e abbiamo la certezza che la fine della premiership di Berlusconi non coinciderà con l'incamminarsi del Paese verso la risoluzione dei suoi problemi. Anzi, c'è da temere il contrario. Sia per l'assenza di un'alternativa responsabile a sinistra, sia per il rischio concreto che la tutela che la magistratura politicizzata vuole imporre sulla nostra democrazia non trovi più alcun argine, non scorgendo all'orizzonte leader altrettanto forti, sia politicamente che patrimonialmente, come Berlusconi.
Ma è stato opportuno da parte del premier annunciare pubblicamente la sua prossima uscita di scena? E' vero che era nell'aria, nelle conversazioni private Berlusconi già vi accennava, e che la sua autorità appariva già da mesi erosa all'interno della stessa compagine governativa. Eppure, il parlarne in privato e l'annuncio pubblico rischiano di non attenuare la conflittualità interna ed esterna al governo, bensì di aumentare i tentativi e i fattori di destabilizzazione. Insomma, se da questo annuncio Berlusconi spera di ricavare vantaggi in termini di una ritrovata serenità all'interno del Pdl, e della maggioranza, e di una minore aggressività nei suoi confronti, e nei confronti del governo, da parte delle opposizioni - politiche, giudiziarie e mediatiche - e così di risparmiarsi un "Piazzale Loreto", temo che dovrà presto ricredersi.
Nella sua autobiografia Tony Blair dedica uno spazio molto rilevante al tormentato periodo del suo passaggio di consegne. Ed è qui che ammette esplicitamente di aver commesso degli errori. L'aver parlato privatamente al suo ministro del Tesoro, Gordon Brown, della sua intenzione di ritirarsi prima della fine del mandato, averglielo persino promesso di fronte alle insistenze di quest'ultimo perché lo annunciasse pubblicamente, e l'essersi infine arreso ad annunciarlo in pubblico, ha aumentato, non placato, le incomprensioni, le diffidenze e gli scontri fra i due, così come non si è placata l'aggressività dei media nei suoi confronti, arrivati quasi al linciaggio quotidiano. Ma soprattutto, si era illuso che tutto ciò avrebbe favorito un clima di serenità nel governo, e in particolare nei rapporti con il Tesoro, permettendogli così di completare l'ambizioso processo di riforme a cui teneva più di ogni altra cosa. Non è andata così: si è ritrovato a scontrarsi con un Gordon Brown che, sempre più ansioso di avere lui il totale controllo sulle decisioni di politica economica, così da preparare il terreno alla sua elezione, non faceva altro che mettergli i bastoni tra le ruote (già, messa giù così pare proprio di rivedere Tremonti). Blair quindi riconosce nel suo libro che il suo annuncio è coinciso con la perdita di fatto, in quello stesso istante, della residua autorità e autorevolezza da premier. Non annunciate la data del vostro ritiro se intendete fare ancora delle cose al governo, suggerisce.
Pur con tutte le dovute differenze, questo per dire che l'annuncio di Berlusconi rischia non solo di non attenuare le divisioni interne e l'aggressività delle opposizioni, ma di scatenarle definitivamente. Il rischio è che prevalga l'istinto animalesco all'odore del sangue dell'avversario politico e non il senso di responsabilità. Dopo oggi le elezioni nel 2012 anziché nel 2013 sono più probabili.
Adesso si aprirà anche la stagione dei bilanci. Al di là del merito - avremo molte occasioni per tornarci - credo che sia importante il metodo. Inutile aspettarsi dalla sinistra - politica e giornalistica - un contributo obiettivo ed «equanime», invocato non molto tempo fa da Giuliano Ferrara su Il Foglio. Più probabile una nuova "Piazzale Loreto", o un "Hotel Rafael". Piuttosto, a mio avviso riveste un'importanza decisiva che un giudizio equanime su Berlusconi sappia elaborarlo il centrodestra, e il Pdl in particolare. Il che non è affatto scontato. Che sappiano evitare una squallida corsa a smarcarsi dal berlusconismo, ma che sappiano anche individuare limiti ed errori di Berlusconi, e di chi in questi anni - e sono in molti - gli è stato o gli è passato al fianco, e trarre lezione sia da essi che dalle attenuanti e dagli alibi, non tutti infondati, che il Cavaliere può addurre.
Thursday, July 07, 2011
L'errore è a monte
Non so se i siti e le tv ieri, e i giornali oggi, sono stati abbastanza chiari, ma Tremonti ieri - in una conferenza stampa da far venire una crisi di nervi per la reticenza del ministro e il livello subumano delle domande dei giornalisti - ha annunciato che oltre ai 10,6 miliardi di nuove tasse di questa manovra, rischiamo di pagarne altri 17 miliardi tra il 2013 e il 2014, sotto forma di mancate detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali. Il fatto è questo: il ministro vuole fare la riforma del fisco e dell'assistenza, e dai tagli a quest'ultima si aspetta di ricavare 17 miliardi in due anni da destinare all'obiettivo di azzeramento del deficit. Ma se entro il 2012 il governo non riuscirà ad attuare la legge delega, se cioè non si riuscirà ad incidere sugli sprechi e i privilegi che si annidano nell'assistenza (falsi invalidi eccetera), allora non solo non ci sarà alcuna riduzione delle tasse tramite la rimodulazione delle aliquote Irpef, ma i 17 miliardi che servono arriveranno in automatico dal taglio lineare, di circa il 15%, di tutte le detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali che oggi valgono circa 170 miliardi (le "tagliabili" però ne valgono circa 100).
Siccome la riforma fiscale a tre aliquote è a somma zero, dovrà cioè autofinanziarsi (ritoccando l'Iva e l'aliquota sulle rendite finanziarie - probabilmente - e, appunto, asciugando deduzioni e detrazioni), che non ci sarà una riduzione complessiva delle tasse è matematicamente certo, mentre c'è persino il rischio che la pressione fiscale aumenti ancora, per reperire le risorse - circa 17 miliardi - che sarebbero dovute arrivare dalla legge delega tramite tagli e razionalizzazioni dell'assistenza.
Per non parlare degli 8,8 miliardi già rapinati, a cominciare da ieri, dai depositi titoli. Una cosa è certa: come scrive Mario Sechi su Il Tempo, «caro presidente Berlusconi, non si può più dire "non abbiamo mai messo le mani nelle tasche degli italiani". Sta avvenendo. E i suoi elettori se ne sono accorti». La patrimoniale sui conti titoli è uno scandalo che grida vendetta. Pensavamo che solo la sinistra avesse la faccia tosta di chiamare «rendite» quelli che in realtà sono piccoli risparmi. Ci sbagliavamo. La mancata rivalutazione delle pensioni - non di quelle "ricche", ma di 1.500-2.000 euro - e l'aumento del bollo sui depositi titoli, sono «patrimoniali senza ma e senza se», sottolinea giustamente Claudio Borghi, oggi su il Giornale:
Il problema che hanno di fronte a sé Berlusconi e il Pdl è che ormai evitare di mettere le mani nelle tasche degli italiani, e magari ricavare i soldi per un vero taglio delle tasse, il tutto a saldi invariati per azzerare il deficit nel 2014, è un'impresa disperata: bisognerebbe rovesciare radicalmente la manovra, tagliare ancor più violentemente la spesa di amministrazioni centrali e locali, abolire le province e altri enti inutili, allungare da subito l'età pensionabile e fare tutte le riforme liberali che fino ad oggi non sono state fatte. Il tutto mentre Comuni e Regioni, quelli amministrati dal centrodestra in prima fila, ma anche i ministri, sono pronti a tutto pur di difendere il proprio portafogli.
No, purtroppo l'errore, a questo punto insanabile, è a monte. Anzi, a Tremonti: l'aver lasciato per troppi anni la politica economica totalmente nelle mani del ministro del Tesoro, senza porgli fin dal primo giorno della legislatura obiettivi concreti e verificabili di cui chiedergli conto; l'aver accettato supinamente la scellerata teoria Tremonti-Sacconi che durante la crisi non si dovesse toccare nulla, mentre era proprio quello il momento migliore per impostare riforme radicali.
E la colpa - badate bene - non è dell'accentramento nel Ministero del Tesoro di competenze che una volta spettavano ad altri ministeri. Quella continua ad essere una semplificazione irrinunciabile se si vogliono tenere davvero sotto controllo i conti pubblici. La colpa è principalmente di chi era stato indicato dagli elettori nel ruolo di premier, di capo del governo, e del suo partito. Era Berlusconi che avrebbe dovuto fin da subito accentrare su di sé ogni decisione fondamentale, tenere le redini della politica economica, seguire e controllare l'operato del suo ministro, indirizzarlo. Che poi abbia dalla sua qualche alibi, qualche attenuante e qualche giustificazione, questo è vero, ma è un altro discorso e ci porterebbe lontani. Adesso l'impressione è che sia troppo tardi: anche se ci fosse la volontà politica, c'è da dubitare che qualcuno sappia mettere le mani laddove per otto lunghi e critici anni solo Tremonti ha potuto mettere le sue.
Siccome la riforma fiscale a tre aliquote è a somma zero, dovrà cioè autofinanziarsi (ritoccando l'Iva e l'aliquota sulle rendite finanziarie - probabilmente - e, appunto, asciugando deduzioni e detrazioni), che non ci sarà una riduzione complessiva delle tasse è matematicamente certo, mentre c'è persino il rischio che la pressione fiscale aumenti ancora, per reperire le risorse - circa 17 miliardi - che sarebbero dovute arrivare dalla legge delega tramite tagli e razionalizzazioni dell'assistenza.
Per non parlare degli 8,8 miliardi già rapinati, a cominciare da ieri, dai depositi titoli. Una cosa è certa: come scrive Mario Sechi su Il Tempo, «caro presidente Berlusconi, non si può più dire "non abbiamo mai messo le mani nelle tasche degli italiani". Sta avvenendo. E i suoi elettori se ne sono accorti». La patrimoniale sui conti titoli è uno scandalo che grida vendetta. Pensavamo che solo la sinistra avesse la faccia tosta di chiamare «rendite» quelli che in realtà sono piccoli risparmi. Ci sbagliavamo. La mancata rivalutazione delle pensioni - non di quelle "ricche", ma di 1.500-2.000 euro - e l'aumento del bollo sui depositi titoli, sono «patrimoniali senza ma e senza se», sottolinea giustamente Claudio Borghi, oggi su il Giornale:
«I milioni di italiani che negli anni hanno aperto un conto titoli non percepiscono alcuna "rendita" ma tentano (di solito senza riuscirci) semplicemente di salvare il proprio capitale dall'inflazione, vera tassa occulta a favore degli Stati indebitati e in danno ai risparmiatori. In molti hanno votato Pdl in avversione alle idee della sinistra e confidando nel principio, sempre ribadito, della tutela del risparmio. Proprio da questo governo devono vedersi arrivare rincari sproporzionati sui depositi titoli e aumenti delle aliquote sulle cedole?... Colpevolizzare la ricchezza, bastonando la povera formica a tutto vantaggio delle solite cicale è una "tara" del comunismo: in bocca alla Camusso è normale, fatto da un governo di centrodestra è scandalo».E ovviamente le banche, che alzano timide il ditino, sanno bene che per loro il superbollo può rivelarsi persino un affare. Come riporta Il Foglio, infatti, «nel comitato esecutivo dell'Abi tenuto ieri c'era comunque la consapevolezza che l'incremento dell'imposta di bollo possa favorire altri strumenti finanziari come depositi vincolati, conti correnti, fondi comuni di investimento e operazioni in pronti contro termine».
Il problema che hanno di fronte a sé Berlusconi e il Pdl è che ormai evitare di mettere le mani nelle tasche degli italiani, e magari ricavare i soldi per un vero taglio delle tasse, il tutto a saldi invariati per azzerare il deficit nel 2014, è un'impresa disperata: bisognerebbe rovesciare radicalmente la manovra, tagliare ancor più violentemente la spesa di amministrazioni centrali e locali, abolire le province e altri enti inutili, allungare da subito l'età pensionabile e fare tutte le riforme liberali che fino ad oggi non sono state fatte. Il tutto mentre Comuni e Regioni, quelli amministrati dal centrodestra in prima fila, ma anche i ministri, sono pronti a tutto pur di difendere il proprio portafogli.
No, purtroppo l'errore, a questo punto insanabile, è a monte. Anzi, a Tremonti: l'aver lasciato per troppi anni la politica economica totalmente nelle mani del ministro del Tesoro, senza porgli fin dal primo giorno della legislatura obiettivi concreti e verificabili di cui chiedergli conto; l'aver accettato supinamente la scellerata teoria Tremonti-Sacconi che durante la crisi non si dovesse toccare nulla, mentre era proprio quello il momento migliore per impostare riforme radicali.
E la colpa - badate bene - non è dell'accentramento nel Ministero del Tesoro di competenze che una volta spettavano ad altri ministeri. Quella continua ad essere una semplificazione irrinunciabile se si vogliono tenere davvero sotto controllo i conti pubblici. La colpa è principalmente di chi era stato indicato dagli elettori nel ruolo di premier, di capo del governo, e del suo partito. Era Berlusconi che avrebbe dovuto fin da subito accentrare su di sé ogni decisione fondamentale, tenere le redini della politica economica, seguire e controllare l'operato del suo ministro, indirizzarlo. Che poi abbia dalla sua qualche alibi, qualche attenuante e qualche giustificazione, questo è vero, ma è un altro discorso e ci porterebbe lontani. Adesso l'impressione è che sia troppo tardi: anche se ci fosse la volontà politica, c'è da dubitare che qualcuno sappia mettere le mani laddove per otto lunghi e critici anni solo Tremonti ha potuto mettere le sue.
Wednesday, July 06, 2011
Governo tassa e spendi
Incredibile ma vero. Alla fine della fiera, analizzata nei dettagli, anche quella del centrodestra è una manovra tassa-e-spendi, come le manovre di tutti i governi precedenti. Non si limita infatti a corposi e quanto mai opportuni tagli alla spesa pubblica (circa 20 miliardi tra ministeri ed enti locali; oltre 10 tra sanità, pensioni e pubblico impiego) con l'obiettivo di azzerare il deficit nel 2014. Anche se in misura minore rispetto alla stangata da 40 miliardi che ci hanno inflitto Prodi e Padoa-Schioppa nel 2006, pur potendo contare su un cospicuo "tesoretto", anche questa manovra prevede nuove entrate, nuove tasse, per finanziare non il rientro dal deficit, bensì ulteriori nuove spese. I miliardi della manovra che serviranno a questo nobile scopo sono infatti 43,4, ma altri 6,1 miliardi di tasse serviranno a coprire maggiori spese di analogo importo.
E un ruolo fondamentale per permettere allo Stato di spendere questa somma l'avrà la patrimoniale escogitata da Tremonti, che si calcola nel quadriennio porterà nelle casse dello Stato ben 8,8 miliardi (sempre che i risparmiatori nel frattempo non fuggano, chiudendo i loro depositi titoli), cui vanno sommati 1,8 miliardi di aumento dell'Irap su banche e assicurazioni, le quali ovviamente trasferiranno il nuovo aggravio sui loro clienti. Tradotto: circa un quarto della manovra è costituito da nuove tasse. E che tasse: una vera e propria patrimoniale sui risparmi del ceto medio.
Anche Francesco Forte, su il Giornale, paragona il superbollo sui depositi titoli alla rapina sui conti corrente effettuata da Amato nel '92. La scuola è inconfondibile, è quella socialista. Ma come dicevamo nei post dei giorni scorsi, l'operazione di Tremonti è più sottile: si spingono i risparmiatori ad allontanarsi dal mercato dei titoli, o se proprio vogliono investire, ad affidare la loro liquidità alle banche, le vere beneficiarie di questa manovra. E' evidente, infatti, che alla luce del nuovo salasso fiscale i cittadini opteranno per mettere i loro risparmi nei conti di deposito vincolato delle banche, o al più nei fondi comuni di investimento, gestiti sempre dalle banche (con rendimenti ridicoli). In questo modo Bot e Btp sono salvi, essendo questi fondi costituiti per lo più da titoli di Stato, e si fanno felici le banche che si ritrovano con un fiume di liquidità, dal momento che lo Stato spinge a calci in culo il gregge a portare i soldi da loro.
Il Foglio si accontenta di denunciare gli «effetti perversi» di aver annunciato aumenti futuri del bollo e si stupisce che il governo non parli delle piccole liberalizzazioni presenti nel decreto. Già, come mai non se ne parla? Che sia rimasto un minimo di senso del pudore? Antonio Martino, oggi su Il Tempo, centra il vero nodo:
E un ruolo fondamentale per permettere allo Stato di spendere questa somma l'avrà la patrimoniale escogitata da Tremonti, che si calcola nel quadriennio porterà nelle casse dello Stato ben 8,8 miliardi (sempre che i risparmiatori nel frattempo non fuggano, chiudendo i loro depositi titoli), cui vanno sommati 1,8 miliardi di aumento dell'Irap su banche e assicurazioni, le quali ovviamente trasferiranno il nuovo aggravio sui loro clienti. Tradotto: circa un quarto della manovra è costituito da nuove tasse. E che tasse: una vera e propria patrimoniale sui risparmi del ceto medio.
Anche Francesco Forte, su il Giornale, paragona il superbollo sui depositi titoli alla rapina sui conti corrente effettuata da Amato nel '92. La scuola è inconfondibile, è quella socialista. Ma come dicevamo nei post dei giorni scorsi, l'operazione di Tremonti è più sottile: si spingono i risparmiatori ad allontanarsi dal mercato dei titoli, o se proprio vogliono investire, ad affidare la loro liquidità alle banche, le vere beneficiarie di questa manovra. E' evidente, infatti, che alla luce del nuovo salasso fiscale i cittadini opteranno per mettere i loro risparmi nei conti di deposito vincolato delle banche, o al più nei fondi comuni di investimento, gestiti sempre dalle banche (con rendimenti ridicoli). In questo modo Bot e Btp sono salvi, essendo questi fondi costituiti per lo più da titoli di Stato, e si fanno felici le banche che si ritrovano con un fiume di liquidità, dal momento che lo Stato spinge a calci in culo il gregge a portare i soldi da loro.
Il Foglio si accontenta di denunciare gli «effetti perversi» di aver annunciato aumenti futuri del bollo e si stupisce che il governo non parli delle piccole liberalizzazioni presenti nel decreto. Già, come mai non se ne parla? Che sia rimasto un minimo di senso del pudore? Antonio Martino, oggi su Il Tempo, centra il vero nodo:
«Pensare che si possa crescere quando lo Stato e le altre amministrazioni pubbliche assorbono oltre il 51 per cento del reddito nazionale è semplicemente donchisciottesco e del tutto irrealistico. Mai nessun paese al mondo ha avuto uno sviluppo sostenuto quando la spesa pubblica supera il 40 per cento del reddito nazionale».
Tuesday, July 05, 2011
Patrimoniale, il colpo di grazia!
Diciamoci la verità: forse per la prima volta, almeno così platealmente, il governo Berlusconi è venuto meno alla promessa aurea fatta agli italiani, quella di non mettere le mani nelle loro tasche. Balzelli marginali erano stati introdotti anche negli anni di governo precedenti, ma mai una vera e propria tassa patrimoniale. E quella che sta decretando Tremonti con la sua manovra "comunista" - complici un Berlusconi ormai assopito e disinteressato e ministri attenti solo al loro orticello - è la morte politica e culturale del centrodestra per come, almeno a parole, lo abbiamo conosciuto. Non c'è alcun dubbio: il superbollo tremontiano sui depositi titoli equivale al prelievo notte tempo sui conti corrente effettuato da Amato nel '92. E' una patrimoniale a tutti gli effetti e una patrimoniale che colpisce soprattutto i piccoli risparmiatori, chi ha patrimoni modesti e fa scelte di investimento a basso rischio. Una rapina con ben due aggravanti: perché colpisce indistintamente sia chi dai propri titoli ci guadagna sia chi ci perde; e perché i conti corrente sono soldi messi sotto il materasso, mentre punire i possessori di titoli - di Stato e privati - significa scoraggiare l'investimento dei risparmi nel debito pubblico nazionale e nelle attività produttive collocate in Borsa.
Ma siccome Tremonti non fa cose a caso, vediamo chi in particolare viene scoraggiato. Da subito si passa a 120 euro l'anno rispetto ai 34,20 attuali per i depositi di titoli sopra ai mille euro. Ciò significa che 10 mila euro di Bot annuali sono appena sufficienti per coprire il nuovo bollo. Nel caso di 30 mila euro investiti in Bot, 120 euro rappresentano lo 0,4% del capitale e si mangiano un terzo abbondante dei 450 euro di interessi netti assicurati oggi. Dal 2013 un rincaro a 150 euro per chi possiede fino a 50 mila euro di titoli e fino a 380 euro per chi supera la soglia dei 50 mila significa che ai valori attuali il risparmiatore con 10 mila euro sul deposito titoli restituirebbe in bolli tutto il suo rendimento.
«Quel passaggio dagli attuali 34,20 euro ai 150 euro minimi a regime dal 2013 sono equivalenti - calcola Franco Bechis su Libero - per la stragrande maggioranza dei risparmiatori italiani a un aumento della tassazione sui Bot dall'attuale 12,5% al 35%». Con una decisiva differenza, però: un'aliquota del 35% si sarebbe abbattuta in egual misura su tutti gli investitori, grandi e piccoli, mentre con il superbollo Tremonti ha voluto colpire i piccoli e piccolissimi risparmiatori. Non fatevi ingannare dall'enormità della cifra (380 euro) richiesta a chi ha titoli per un valore superiore ai 50 mila euro, a fronte dei 150 richiesti ai possessori di portafogli di valore inferiore a quella soglia. L'impatto del bollo - essendo un importo fisso - decresce al crescere del capitale investito. Per chi supera appena la soglia dei 50 mila euro, infatti, il nuovo bollo significa un esborso pari allo 0,76% del capitale, ma con 300 mila euro il prelievo si riduce a poco più dello 0,1%. Dunque, nonostante i 380 euro sembrano concepiti apposta per far credere che gli investitori più ricchi vengono tassati di più, in realtà è proprio a chi possiede titoli per meno di 50 mila euro che conviene chiudere i conti. Bechis non usa mezzi termini: «La stangata di Tremonti su quel bollo è di fatto una vera e propria patrimoniale sulla ricchezza finanziaria delle famiglie come non aveva mai osato immaginarla nemmeno un Nichi Vendola».
Alla luce anche dell'annunciata «armonizzazione» della tassazione sulle rendite finanziarie, in base alla quale l'aliquota sui conti corrente e i depositi bancari dovrebbe scendere dal 27 al 20%, è chiaro che Tremonti sta spingendo i piccoli e piccolissimi risparmiatori ad uscire dal mercato dei titoli e ad accontentarsi dei depositi vincolati: non vi avventurate nel diabolico e indecifrabile mercato, roba per oscure e ristrette élite. Un approccio paternalistico, forse per evitare che una prossima crisi faccia perdere alle famiglie i pochi risparmi investiti, impoverendole, ma che rivela una profonda sfiducia nel mercato. Già sono pochi coloro che investono i propri risparmi in titoli. Con misure del genere si allontanano ancor di più gli italiani dal mercato azionario e obbligazionario, vissuto con sempre maggiore diffidenza e pregiudizio negativo, ma è ancor più grave che così facendo si incoraggia un utilizzo del risparmio "conservativo" e improduttivo, a scapito della crescita economica già asfittica del nostro Paese.
Ci si dilunga in interessantissimi quanto sterili dibattiti su "rottamazioni" e primarie, sulla svolta di Alfano nuovo segretario del Pdl eccetera, perdendo di vista che nel 2013 gli italiani giudicheranno questa maggioranza sulla base di che cosa avrà fatto e non avrà fatto al governo del Paese, e non su come il Pdl sceglie i propri coordinatori regionali. Certo, le primarie per la selezione dei candidati e della classe dirigente sono ormai imprescindibili, ne sono straconvinto, ma non mi stancherò mai di ripeterlo: il centrodestra - e ovviamente il Pdl - muore o si rilancia a Palazzo Chigi e a Via XX Settembre. E alla luce delle ultime follie tremontiane sarà bene iniziare a scavare la fossa. Questa patrimoniale potrebbe essere il colpo di grazia.
C'è da riconoscere che non è tutta colpa di Tremonti. Ormai tutti ne conoscono le idee. Occorre prendere atto che, come temevo, le critiche e il pressing sul ministro del Tesoro da parte dei suoi colleghi non hanno prodotto alcun sussulto di riforme liberali, sia sulla spesa che sulle tasse. E' disgustoso, ma mentre Giulio inseriva la peggiore delle tasse patrimoniali, gli altri ministri erano troppo preoccupati a difendere i propri portafogli ministeriali. E Berlusconi sembra ormai essersi arreso. Le cronache lo descrivono addirittura assopito. Non solo non credo si ricandiderà nel 2013, ha perso interesse per l'attività di governo e ha mollato l'ultima presa su Tremonti in cambio di un simulacro di «collegialità».
Anche oggi i commentatori vicini al centrodestra, come Giuliano Ferrara, si perdono in chiacchiere sulle magnifiche doti terapeutiche delle «primarie libere e aperte», per riconnettere il Pdl al suo elettorato, ma nel frattempo Tremonti cambia gli ultimi connotati al centrodestra rimuovendo anche le ultime parvenze liberali: non solo di riduzione delle tasse non si parla più, gli eccessi di Equitalia sono ormai tristemente noti a milioni di italiani e ora questa folle patrimoniale. Alfano pensi pure alle primarie, e soprattutto a blindare il bipolarismo con una riforma elettorale maggioritaria, come gli ha suggerito ieri Panebianco sul Corriere, e come più modestamente ripeto da tempo su questo blog, ma è sulla politica economica che va rifondata l'identità del centrodestra e del Pdl in particolare.
Ma siccome Tremonti non fa cose a caso, vediamo chi in particolare viene scoraggiato. Da subito si passa a 120 euro l'anno rispetto ai 34,20 attuali per i depositi di titoli sopra ai mille euro. Ciò significa che 10 mila euro di Bot annuali sono appena sufficienti per coprire il nuovo bollo. Nel caso di 30 mila euro investiti in Bot, 120 euro rappresentano lo 0,4% del capitale e si mangiano un terzo abbondante dei 450 euro di interessi netti assicurati oggi. Dal 2013 un rincaro a 150 euro per chi possiede fino a 50 mila euro di titoli e fino a 380 euro per chi supera la soglia dei 50 mila significa che ai valori attuali il risparmiatore con 10 mila euro sul deposito titoli restituirebbe in bolli tutto il suo rendimento.
«Quel passaggio dagli attuali 34,20 euro ai 150 euro minimi a regime dal 2013 sono equivalenti - calcola Franco Bechis su Libero - per la stragrande maggioranza dei risparmiatori italiani a un aumento della tassazione sui Bot dall'attuale 12,5% al 35%». Con una decisiva differenza, però: un'aliquota del 35% si sarebbe abbattuta in egual misura su tutti gli investitori, grandi e piccoli, mentre con il superbollo Tremonti ha voluto colpire i piccoli e piccolissimi risparmiatori. Non fatevi ingannare dall'enormità della cifra (380 euro) richiesta a chi ha titoli per un valore superiore ai 50 mila euro, a fronte dei 150 richiesti ai possessori di portafogli di valore inferiore a quella soglia. L'impatto del bollo - essendo un importo fisso - decresce al crescere del capitale investito. Per chi supera appena la soglia dei 50 mila euro, infatti, il nuovo bollo significa un esborso pari allo 0,76% del capitale, ma con 300 mila euro il prelievo si riduce a poco più dello 0,1%. Dunque, nonostante i 380 euro sembrano concepiti apposta per far credere che gli investitori più ricchi vengono tassati di più, in realtà è proprio a chi possiede titoli per meno di 50 mila euro che conviene chiudere i conti. Bechis non usa mezzi termini: «La stangata di Tremonti su quel bollo è di fatto una vera e propria patrimoniale sulla ricchezza finanziaria delle famiglie come non aveva mai osato immaginarla nemmeno un Nichi Vendola».
Alla luce anche dell'annunciata «armonizzazione» della tassazione sulle rendite finanziarie, in base alla quale l'aliquota sui conti corrente e i depositi bancari dovrebbe scendere dal 27 al 20%, è chiaro che Tremonti sta spingendo i piccoli e piccolissimi risparmiatori ad uscire dal mercato dei titoli e ad accontentarsi dei depositi vincolati: non vi avventurate nel diabolico e indecifrabile mercato, roba per oscure e ristrette élite. Un approccio paternalistico, forse per evitare che una prossima crisi faccia perdere alle famiglie i pochi risparmi investiti, impoverendole, ma che rivela una profonda sfiducia nel mercato. Già sono pochi coloro che investono i propri risparmi in titoli. Con misure del genere si allontanano ancor di più gli italiani dal mercato azionario e obbligazionario, vissuto con sempre maggiore diffidenza e pregiudizio negativo, ma è ancor più grave che così facendo si incoraggia un utilizzo del risparmio "conservativo" e improduttivo, a scapito della crescita economica già asfittica del nostro Paese.
Ci si dilunga in interessantissimi quanto sterili dibattiti su "rottamazioni" e primarie, sulla svolta di Alfano nuovo segretario del Pdl eccetera, perdendo di vista che nel 2013 gli italiani giudicheranno questa maggioranza sulla base di che cosa avrà fatto e non avrà fatto al governo del Paese, e non su come il Pdl sceglie i propri coordinatori regionali. Certo, le primarie per la selezione dei candidati e della classe dirigente sono ormai imprescindibili, ne sono straconvinto, ma non mi stancherò mai di ripeterlo: il centrodestra - e ovviamente il Pdl - muore o si rilancia a Palazzo Chigi e a Via XX Settembre. E alla luce delle ultime follie tremontiane sarà bene iniziare a scavare la fossa. Questa patrimoniale potrebbe essere il colpo di grazia.
C'è da riconoscere che non è tutta colpa di Tremonti. Ormai tutti ne conoscono le idee. Occorre prendere atto che, come temevo, le critiche e il pressing sul ministro del Tesoro da parte dei suoi colleghi non hanno prodotto alcun sussulto di riforme liberali, sia sulla spesa che sulle tasse. E' disgustoso, ma mentre Giulio inseriva la peggiore delle tasse patrimoniali, gli altri ministri erano troppo preoccupati a difendere i propri portafogli ministeriali. E Berlusconi sembra ormai essersi arreso. Le cronache lo descrivono addirittura assopito. Non solo non credo si ricandiderà nel 2013, ha perso interesse per l'attività di governo e ha mollato l'ultima presa su Tremonti in cambio di un simulacro di «collegialità».
Anche oggi i commentatori vicini al centrodestra, come Giuliano Ferrara, si perdono in chiacchiere sulle magnifiche doti terapeutiche delle «primarie libere e aperte», per riconnettere il Pdl al suo elettorato, ma nel frattempo Tremonti cambia gli ultimi connotati al centrodestra rimuovendo anche le ultime parvenze liberali: non solo di riduzione delle tasse non si parla più, gli eccessi di Equitalia sono ormai tristemente noti a milioni di italiani e ora questa folle patrimoniale. Alfano pensi pure alle primarie, e soprattutto a blindare il bipolarismo con una riforma elettorale maggioritaria, come gli ha suggerito ieri Panebianco sul Corriere, e come più modestamente ripeto da tempo su questo blog, ma è sulla politica economica che va rifondata l'identità del centrodestra e del Pdl in particolare.
Monday, July 04, 2011
Quer pasticciaccio brutto de Rignano Flaminio
Tenetevi forte perché a proposito di "caste" questa è davvero incredibile, ma siamo così assuefatti alle follie burocratiche che rischia di passare inosservata. Il processo per i presunti abusi sessuali ai danni di alcuni bambini di una scuola materna di Rignano Flaminio - un caso che fece molto clamore e che sicuramente ricorderete - dovrà ripartire da zero. Motivo? Non ci crederete mai: uno dei giudici, Marzia Minutillo Turtur, è stato posto fuori ruolo dal Csm per consentirle di partecipare, come membro esaminatore, al concorso in magistratura. Il che rende necessario costituire un nuovo collegio giudicante, perché a quanto pare questo concorso impegnerà la giudice per due interi anni (!).
Ma non si può ripartire da dove ci si era fermati, perché le difese di due degli imputati si sono opposte - è nel loro diritto - alla richiesta di "salvare" e quindi di poter utilizzare gli atti processuali compiuti fino ad oggi. E' comprensibile: è una garanzia per gli imputati che il nuovo giudice assista di persona allo svolgimento dell'intero processo. E' il sistema che è marcio, che non funziona, perché in questo modo si mandano al macero anni e anni di processi e i relativi costi per sostenerli. E rifletteteci un attimo: è motivo di scandalo che il presidente del Consiglio sollevi il legittimo impedimento a comparire in udienza per i suoi impegni istituzionali, senza che decorrano i tempi di prescrizione, ma non che un processo possa essere azzerato perché uno dei giudici deve correre a fare l'esaminatore in un concorso. Quello sì che è un legittimo impedimento! Nel caso di Rignano siamo di fronte, nella migliore delle ipotesi, ad una follia burocratica che colpisce a caso, nell'indifferenza generale, e a danno dell'efficienza del sistema giustizia, oppure, a voler pensar male, ad un escamotage all'italiana molto mirato, per chiudere di fatto un processo scomodo.
Scegliete voi, ma a questo punto, alcune domande dovrebbero essere oggetto di un'interrogazione parlamentare o di un'inchiesta giornalistica. Quanti processi ogni anno subiscono la stessa sorte? Che costo ha per l'amministrazione della giustizia far ripartire da zero questi processi? Quanti giudici ogni anno vengono posti fuori ruolo per fare gli esaminatori ai concorsi? Come si svolge la settimana lavorativa di un giudice esaminatore e come viene retribuito? La mole di lavoro è tale da non consentirgli di svolgere le sue funzioni addirittura per due interi anni? Il sospetto, purtroppo, considerando i numeri dei concorsi in magistratura, è che i processi costretti a ripartire da zero siano centinaia e che per gli esaminatori si tratti più o meno di una aspettativa di due anni molto ben retribuita.
Ma non si può ripartire da dove ci si era fermati, perché le difese di due degli imputati si sono opposte - è nel loro diritto - alla richiesta di "salvare" e quindi di poter utilizzare gli atti processuali compiuti fino ad oggi. E' comprensibile: è una garanzia per gli imputati che il nuovo giudice assista di persona allo svolgimento dell'intero processo. E' il sistema che è marcio, che non funziona, perché in questo modo si mandano al macero anni e anni di processi e i relativi costi per sostenerli. E rifletteteci un attimo: è motivo di scandalo che il presidente del Consiglio sollevi il legittimo impedimento a comparire in udienza per i suoi impegni istituzionali, senza che decorrano i tempi di prescrizione, ma non che un processo possa essere azzerato perché uno dei giudici deve correre a fare l'esaminatore in un concorso. Quello sì che è un legittimo impedimento! Nel caso di Rignano siamo di fronte, nella migliore delle ipotesi, ad una follia burocratica che colpisce a caso, nell'indifferenza generale, e a danno dell'efficienza del sistema giustizia, oppure, a voler pensar male, ad un escamotage all'italiana molto mirato, per chiudere di fatto un processo scomodo.
Scegliete voi, ma a questo punto, alcune domande dovrebbero essere oggetto di un'interrogazione parlamentare o di un'inchiesta giornalistica. Quanti processi ogni anno subiscono la stessa sorte? Che costo ha per l'amministrazione della giustizia far ripartire da zero questi processi? Quanti giudici ogni anno vengono posti fuori ruolo per fare gli esaminatori ai concorsi? Come si svolge la settimana lavorativa di un giudice esaminatore e come viene retribuito? La mole di lavoro è tale da non consentirgli di svolgere le sue funzioni addirittura per due interi anni? Il sospetto, purtroppo, considerando i numeri dei concorsi in magistratura, è che i processi costretti a ripartire da zero siano centinaia e che per gli esaminatori si tratti più o meno di una aspettativa di due anni molto ben retribuita.
Una manovra comunista
E' davvero incomprensibile e autolesionistico "tagliare" le pensioni invece che allungare fin da subito l'età di pensionamento, e magari colpire i politici e i boiardi di Stato che di pensioni ne cumulano due o tre. A parità di impopolarità tra le due misure, la prima è iniqua e predatoria, e tampona solo provvisoriamente l'emorragia della spesa; la seconda è equa e liberale, e strutturale per i conti pubblici. La prima dev'essere fatta ingoiare come una medicina amara, e come tale verrà ricordata; la seconda può essere fatta digerire all'opinione pubblica come un nuovo patto inter-generazionale, dove i padri e le madri si impegnano a lavorare qualche anno in più per non lasciare sulle spalle dei propri figli i debiti derivanti dai loro trent'anni di inattività.
Ma più si entra nei dettagli di questa manovra, più affiorano misure che definire "comuniste" non è un'esagerazione, per il pesante pregiudizio anti mercato e anti ricchezza che tradiscono. Non solo torna alla mente il motto rifondarolo "far piangere i ricchi", ma come sempre capita in questi casi si scopre che a piangere non sono affatto i "ricchi", ma il ceto medio produttivo. La minore rivalutazione delle pensioni è una di queste misure, visto che il governo sembra considerare "ricco" già chi percepisce un assegno tra i 1.428 e i 2.380 euro. E' la stessa mentalità che portava il Pd a proporre un «contributo di solidarietà» una tantum ai "ricchi" che dichiarano al fisco 100 mila euro.
Anche se il risparmio annuo per le casse dello Stato è considerevole (2,2 miliardi di euro per il 2012 e altrettanti nel 2013), la mancata o parziale rivalutazione delle pensioni, come risulta dai conti dell'Inps, vale circa 8 euro all'anno per una pensione di 1.500 euro mensili lordi e 3,8 al mese per una di 2.000 euro. Ma a prescindere dal loro impatto sui singoli, che sembra piuttosto modesto, misure come il superbollo sulle auto potenti (che praticamente colpisce solo chi possiede un jet) o, appunto, l'intervento sulle pensioni, funzionano come un "manifesto" politico, cioè chiariscono agli occhi degli elettori la vera natura e identità politico-culturale di chi li governa. E se l'immagine che ne risulta non è poi così diversa da quella dei governi Prodi-Visco, non dovrà sorprendere se gli elettori che nel 2008 hanno votato per il centrodestra alle prossime occasioni se ne resteranno a casa.
Davvero scandaloso, poi, non solo perché si configura come un vero e proprio esproprio, ma per la sua logica anti economica - un autentico disincentivo ad investire il risparmio nelle attività produttive, e persino nei titoli di Stato - è l'aumento del bollo sui "depositi titoli": da 34,20 a 120 euro, quasi il 400%! Che non colpisce i grandi investitori con capitali di milioni di euro, ma i depositi sopra i mille euro, cioè tutti, anche quelli dei nonni che investono i loro umili risparmi per lasciare una paghetta ai nipotini.
Luigi Zingales ha stimato, sul Sole24Ore, che «tra imposta di bollo ed imposta sostitutiva, un risparmiatore con 10.000 euro in titoli che abbiano un rendimento medio nominale del 3% paga 180 euro all'anno di imposte, pari al 60% del proprio reddito nominale e al 180% del proprio rendimento reale (assumendo un tasso di inflazione pari al 2%)...». Un esproprio non solo «contro la logica economica, ma anche contro quella costituzionale che auspica la tutela del risparmio e la progressività delle imposte». Secondo una stima riportata oggi sul Corriere della Sera, prendendo un investitore medio (con un deposito titoli di 22.500 euro) si tratterebbe dello 0,5% in meno del totale del portafoglio. Al lordo di altre eventuali voci come le commissioni bancarie, per un portafoglio composto quasi essenzialmente dai nuovi Btp si tratterebbe di un rendimento annuo inferiore all'inflazione. E «secondo alcune stime, in base ai rendimenti attuali, per coprire l'onere del nuovo bollo sarebbero necessari i proventi di oltre 7.500 euro di Buoni ordinari del Tesoro annuali».
Oltre al vero e proprio esproprio, dunque, è evidente l'anti-economicità della misura: si punisce, infatti, chi investe i propri risparmi nel debito pubblico nazionale e, soprattutto, nel finanziamento delle attività produttive quotate in Borsa. Demenziale, ben sapendo della cronica difficoltà delle nostre imprese nell'accesso al credito e nell'attrarre investimenti. In poche parole, si scoraggiano gli italiani ad investire sulla crescita economica del loro Paese.
Attenzione, quindi, perché così Alfano o non Alfano, primarie o non primarie, il centrodestra è finito, il Pdl caput. Se fra Berlusconi e Prodi gli italiani non percepiscono differenze apprezzabili, e se fra Tremonti e Visco l'unica differenza è che il primo riesce laddove il secondo ha fallito, cioè nel vampirizzare i portafogli dei cittadini, allora non solo diventa difficile per il centrodestra rivincere le elezioni, ma il rischio oltre a quello di un tracollo elettorale, è un disfacimento culturale. E mentre i nuovi vertici del Pdl si preoccupano di come ripescare l'Udc, un popolo intero sta per rimanere privo di una rappresentanza politica.
Ma più si entra nei dettagli di questa manovra, più affiorano misure che definire "comuniste" non è un'esagerazione, per il pesante pregiudizio anti mercato e anti ricchezza che tradiscono. Non solo torna alla mente il motto rifondarolo "far piangere i ricchi", ma come sempre capita in questi casi si scopre che a piangere non sono affatto i "ricchi", ma il ceto medio produttivo. La minore rivalutazione delle pensioni è una di queste misure, visto che il governo sembra considerare "ricco" già chi percepisce un assegno tra i 1.428 e i 2.380 euro. E' la stessa mentalità che portava il Pd a proporre un «contributo di solidarietà» una tantum ai "ricchi" che dichiarano al fisco 100 mila euro.
Anche se il risparmio annuo per le casse dello Stato è considerevole (2,2 miliardi di euro per il 2012 e altrettanti nel 2013), la mancata o parziale rivalutazione delle pensioni, come risulta dai conti dell'Inps, vale circa 8 euro all'anno per una pensione di 1.500 euro mensili lordi e 3,8 al mese per una di 2.000 euro. Ma a prescindere dal loro impatto sui singoli, che sembra piuttosto modesto, misure come il superbollo sulle auto potenti (che praticamente colpisce solo chi possiede un jet) o, appunto, l'intervento sulle pensioni, funzionano come un "manifesto" politico, cioè chiariscono agli occhi degli elettori la vera natura e identità politico-culturale di chi li governa. E se l'immagine che ne risulta non è poi così diversa da quella dei governi Prodi-Visco, non dovrà sorprendere se gli elettori che nel 2008 hanno votato per il centrodestra alle prossime occasioni se ne resteranno a casa.
Davvero scandaloso, poi, non solo perché si configura come un vero e proprio esproprio, ma per la sua logica anti economica - un autentico disincentivo ad investire il risparmio nelle attività produttive, e persino nei titoli di Stato - è l'aumento del bollo sui "depositi titoli": da 34,20 a 120 euro, quasi il 400%! Che non colpisce i grandi investitori con capitali di milioni di euro, ma i depositi sopra i mille euro, cioè tutti, anche quelli dei nonni che investono i loro umili risparmi per lasciare una paghetta ai nipotini.
Luigi Zingales ha stimato, sul Sole24Ore, che «tra imposta di bollo ed imposta sostitutiva, un risparmiatore con 10.000 euro in titoli che abbiano un rendimento medio nominale del 3% paga 180 euro all'anno di imposte, pari al 60% del proprio reddito nominale e al 180% del proprio rendimento reale (assumendo un tasso di inflazione pari al 2%)...». Un esproprio non solo «contro la logica economica, ma anche contro quella costituzionale che auspica la tutela del risparmio e la progressività delle imposte». Secondo una stima riportata oggi sul Corriere della Sera, prendendo un investitore medio (con un deposito titoli di 22.500 euro) si tratterebbe dello 0,5% in meno del totale del portafoglio. Al lordo di altre eventuali voci come le commissioni bancarie, per un portafoglio composto quasi essenzialmente dai nuovi Btp si tratterebbe di un rendimento annuo inferiore all'inflazione. E «secondo alcune stime, in base ai rendimenti attuali, per coprire l'onere del nuovo bollo sarebbero necessari i proventi di oltre 7.500 euro di Buoni ordinari del Tesoro annuali».
Oltre al vero e proprio esproprio, dunque, è evidente l'anti-economicità della misura: si punisce, infatti, chi investe i propri risparmi nel debito pubblico nazionale e, soprattutto, nel finanziamento delle attività produttive quotate in Borsa. Demenziale, ben sapendo della cronica difficoltà delle nostre imprese nell'accesso al credito e nell'attrarre investimenti. In poche parole, si scoraggiano gli italiani ad investire sulla crescita economica del loro Paese.
Attenzione, quindi, perché così Alfano o non Alfano, primarie o non primarie, il centrodestra è finito, il Pdl caput. Se fra Berlusconi e Prodi gli italiani non percepiscono differenze apprezzabili, e se fra Tremonti e Visco l'unica differenza è che il primo riesce laddove il secondo ha fallito, cioè nel vampirizzare i portafogli dei cittadini, allora non solo diventa difficile per il centrodestra rivincere le elezioni, ma il rischio oltre a quello di un tracollo elettorale, è un disfacimento culturale. E mentre i nuovi vertici del Pdl si preoccupano di come ripescare l'Udc, un popolo intero sta per rimanere privo di una rappresentanza politica.
Friday, July 01, 2011
Il caso Strauss-Kahn, una lezione per tutti
Il caso Strauss-Kahn ci ricorda che il garantismo è un imperativo ovunque e per chiunque, a cominciare dagli operatori dei media. Adesso, certo, metteranno sotto accusa il sistema giudiziario americano. Sicuramente, se dovessero cadere del tutto le accuse nei suoi confronti, l'errore sarebbe clamoroso. DSK avrebbe subito una tremenda ingiustizia, oltre a un danno incalcolabile alla sua carriera, tanto da legittimare il sospetto di un complotto ai suoi danni.
Ma attenzione prima di puntare l'indice contro il sistema giudiziario Usa, la cui credibilità ha indotto molti ad un giudizio affrettato. Soprattutto noi, in Italia, per lo spettacolo cui si assiste nei nostri tribunali e ciò che si legge sui giornali, dovremmo avere il pudore di non dare lezioni. E non parlo dei processi al premier, del moralismo e il colpevolismo che si respira, basti ricordare il vero e proprio scandalo del processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito a Perugia, smontato pezzo per pezzo proprio in questi giorni perché i due reperti decisivi - presunta arma del delitto e reggiseno della vittima - risultano contaminati.
Prima di tutto, nel caso DSK, sono stati gli stessi investigatori ad aver sottoposto ad una scrupolosa verifica le dichiarazioni della sua accusatrice. Secondo, la prima testa è già saltata: Lisa Friel, infatti, da 10 anni a capo dell'unità per i crimini sessuali della procura distrettuale di Manhattan, ha presentato le prorie dimissioni. Inoltre, almeno DSK non dovrà attendere né 5 né 15 anni perché sia scagionato dalle accuse, come invece capita in Italia; non dovrà sopportare nemmeno un processo, se le accuse verranno ritenute, come sembra, «non sostenibili».
E badate bene, ha un significato profondo anche che si parli non di infondatezza delle accuse, ma di «non sostenibilità». Ciò significa che nel sistema giudiziario Usa, prima di mettere sotto processo qualcuno, i procuratori si preoccupano non solo di essere convinti almeno loro della sua colpevolezza, ma anche della sostenibilità delle prove di fronte ad una giuria. Mentre in Italia siamo capaci di mettere sotto processo il presidente del Consiglio persino in assenza di una presunta vittima che lo accusi, oltreoceano è ipotizzabile che la pubblica accusa decida di non procedere nei confronti di qualcuno, anche se considerato colpevole, se le prove sono ritenute troppo deboli. Perché lì, negli States, il denaro dei contribuenti conta e le carriere si giocano - com'è giusto che sia - sui processi che si vincono o si perdono. E i procuratori ci pensano due volte prima di imbarcarsi in un'impresa che potrebbe distruggergli la carriera.
Ma attenzione prima di puntare l'indice contro il sistema giudiziario Usa, la cui credibilità ha indotto molti ad un giudizio affrettato. Soprattutto noi, in Italia, per lo spettacolo cui si assiste nei nostri tribunali e ciò che si legge sui giornali, dovremmo avere il pudore di non dare lezioni. E non parlo dei processi al premier, del moralismo e il colpevolismo che si respira, basti ricordare il vero e proprio scandalo del processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito a Perugia, smontato pezzo per pezzo proprio in questi giorni perché i due reperti decisivi - presunta arma del delitto e reggiseno della vittima - risultano contaminati.
Prima di tutto, nel caso DSK, sono stati gli stessi investigatori ad aver sottoposto ad una scrupolosa verifica le dichiarazioni della sua accusatrice. Secondo, la prima testa è già saltata: Lisa Friel, infatti, da 10 anni a capo dell'unità per i crimini sessuali della procura distrettuale di Manhattan, ha presentato le prorie dimissioni. Inoltre, almeno DSK non dovrà attendere né 5 né 15 anni perché sia scagionato dalle accuse, come invece capita in Italia; non dovrà sopportare nemmeno un processo, se le accuse verranno ritenute, come sembra, «non sostenibili».
E badate bene, ha un significato profondo anche che si parli non di infondatezza delle accuse, ma di «non sostenibilità». Ciò significa che nel sistema giudiziario Usa, prima di mettere sotto processo qualcuno, i procuratori si preoccupano non solo di essere convinti almeno loro della sua colpevolezza, ma anche della sostenibilità delle prove di fronte ad una giuria. Mentre in Italia siamo capaci di mettere sotto processo il presidente del Consiglio persino in assenza di una presunta vittima che lo accusi, oltreoceano è ipotizzabile che la pubblica accusa decida di non procedere nei confronti di qualcuno, anche se considerato colpevole, se le prove sono ritenute troppo deboli. Perché lì, negli States, il denaro dei contribuenti conta e le carriere si giocano - com'è giusto che sia - sui processi che si vincono o si perdono. E i procuratori ci pensano due volte prima di imbarcarsi in un'impresa che potrebbe distruggergli la carriera.
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