Venuto meno da parte del governo non solo l'impegno a modernizzare questo Paese in senso liberale, cioè a ridurre il peso dello Stato, ma anche il "minimo sindacale" del non mettere le mani nelle tasche degli italiani, il tempo per fare qualcosa di buono, per tentare di non essere travolti nel 2013 dai propri elettori inferociti, o per salvare almeno la faccia, c'è eccome. Basta volerlo. Ieri, per esempio, il ministro Calderoli ha presentato una buona proposta di riforma costituzionale, molto simile a quella approvata dal centrodestra nel 2005, ma poi bocciata a furor di popolo nel referendum confermativo del 2006; e molto simile anche alla cosiddetta "Bozza Violante", approvata dalla Commissione Affari costituzionali della Camera nella precedente legislatura. Dimezzamento dei parlamentari (un taglio più netto, quasi del 50%); Senato federale, quindi superamento del bicameralismo perfetto; rafforzamento dei poteri del premier; sfiducia costruttiva e anti-ribaltoni. Riforme volte a rendere più snello ed efficiente il processo legislativo, più stabili i governi e le legislature, con un non trascurabile risparmio di denaro pubblico.
Riforme che sarebbero potute essere già in vigore se 5 anni fa non fossero state cancellate dagli italiani che si sono bevuti la propaganda del centrosinistra. Ve li ricordate, privi di qualsiasi senso del ridicolo, paventare i rischi "dittatura" e "secessione"? L'unica cosa che gl'importava era "no pasaran" le riforme del centrodestra, tanto che solo un anno più tardi la riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto con un Senato federale, persino un lieve rafforzamento dei poteri del premier, sarebbero stati recepiti nella "Bozza Violante" e oggi, almeno a parole, fanno parte di quel pacchetto di riforme cosiddette "condivise".
Per questo la proposta Calderoli rappresenta una sfida anche per le opposizioni. Queste riforme - se ciascuno mantiene la propria parola - si possono approvare davvero in un batter d'occhio, esattamente come la manovra finanziaria (ovviamente rispettando i diversi tempi prescritti dalla Costituzione). Certo, tutto è perfettibile e migliorabile, ma è qualcosa (nella giusta direzione) contro il nulla. Già sarebbe importante che non parta la solita giostra di costituzionalisti militanti arruolati per eccepire ed obiettare, con dotte disquisizioni giuridiche il cui unico vero scopo è quello di far naufragare per l'ennesima volta queste piccole riforme solo per il fatto di essere proposte da un governo di centrodestra. In questo Paese tutti invocano "riforme riforme!", ma poi appena si tocca qualcosa si scoprono tutti per lo status quo. Ok, spacchiamo pure in quattro il capello, però poi non ci lamentiamo se non cambia mai nulla.
Ma in questo scenario - con i mercati pronti a divorarci, l'antipolitica con i suoi buoni motivi per montare come uno tsunami, la magistratura che sente l'odore di un nuovo '92 e il Parlamento che comincia a farsi intimidire - la riforma costituzionale non può bastare. E' l'emergenza economica che va affrontata di petto, ma in questo caso i margini temporali sono ancor più ristretti. Abbiamo circa due-tre settimane per incardinare due-tre riforme economiche chiave, nella speranza di mettere al riparo il nostro futuro. Qualcosa di buono, almeno per salvare la faccia, questo governo può ancora farlo, se solo lo volesse per davvero. Il tempo scarseggia, ma c'è. E' una questione di volontà politica. L'unico che può battere un colpo è lui, Berlusconi, ma la domanda è: è ancora in grado di agire, di riprendere il controllo di un governo ad oggi, de facto, a guida Napolitano-Tremonti?
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Tuesday, July 19, 2011
Wednesday, May 11, 2011
Il solito schema
Come prevedibile il meccanismo si è innescato di nuovo. Si scandalizzano e tuonano ad ogni dichiarazione, anche la più banale, trita e ritrita di Berlusconi, e poi si lagnano che il premier invade le aperture dei tg e le prime pagine dei giornali, oscurando candidati e avversari a quattro giorni dal voto. Berlusconi che "politicizza" le amministrative per rafforzare il governo, riproponendo una sorta di referendum sulla sua leadership, e il Pd che accetta la sfida nell'illusione della "spallata". Ed ecco, dunque, che nelle ultime parole del premier sui poteri del Colle e quelli della presidenza del Consiglio si denuncia un attacco a Napolitano, alle istituzioni di garanzia di cui Berlusconi si vorrebbe disfare per instaurare una dittatura. Il che, però, non torna molto con un'altra lettura che va per la maggiore tra i nemici del Cavaliere: se fosse interessato alla presidenza della Repubblica, perché indebolirla?
A ben vedere, non si tratta che dei soliti ragionamenti, che il centrodestra ha già tentato di trasformare in riforma costituzionale nel 2005 (premierato forte, riduzione del numero dei parlamentari, Senato federale). Una riforma lasciata affondare nel referendum confermativo. E d'altronde, non va dimenticato che il rafforzamento dei poteri del premier e del governo, con il conseguente restringimento di quelli del presidente della Repubblica, era preso in considerazione anche nella Bozza di riforma Violante, la quale prevedeva che il presidente del Consiglio fosse investito direttamente dai risultati elettorali e non incaricato dal capo dello Stato, che potesse revocare e nominare ministri e sottosegretari senza passare per il Colle, e che il governo potesse usufruire di una corsia preferenziale in Parlamento per i disegni di legge di suo interesse.
Nessuno scandalo, dunque. Se non che nel reagire a queste prese di posizione la sinistra e la stampa mainstream calzano sempre i panni che fanno comodo al Cavaliere. Al di là del merito delle questioni e delle promesse effettivamente mantenute, infatti, ne escono rafforzati i tratti di decisionismo di Berlusconi e rimessa a lucido la sua immagine di riformatore, mentre i suoi avversari, rintanati sulla difensiva, appaiono come il ritratto stesso della conservazione. Un richiamo irresistibile per gli elettori del Pdl, anche se sfiduciati.
La teoria berlusconiana delle "mani legate" (da istituzioni antiquate e inefficienti e alleati infedeli) è molto spesso un alibi per giustificare le riforme non realizzate, ma che ci sia in Italia un problema di ingovernabilità (troppi galli a cantare e procedure parlamentari lente e farraginose) è innegabile. E c'è del vero anche nel fatto che quando Berlusconi si trova a Palazzo Chigi, chiunque si trovi al Quirinale - sia Scalfaro, Ciampi, o Napolitano - si sente in diritto di esercitare un ruolo di supplenza delle opposizioni, che oltre a sconfinare dalle prerogative costituzionali della presidenza della Repubblica danneggia in primis proprio le opposizioni, che vengono automaticamente bollate come deboli e incapaci finendo quasi per scomparire dal dibattito politico. Quando invece al governo c'è il centrosinistra, il Colle sembra uno studio notarile.
In questa legislatura il presidente della Repubblica e il presidente della Camera sono apparsi troppo spesso come gli unici, impropri argini, al governo Berlusconi. Soprattutto con Napolitano siamo ormai di fatto in un semipresidenzialismo dove il presidente però non viene eletto direttamente dai cittadini. Interviene su tutto, dalla politica estera alle spiagge in concessione, dando l'impressione di reclamare un ruolo di indirizzo politico che la Costituzione espressamente gli nega. Non c'è decreto ormai che non venga sottoposto ai suoi uffici prima di arrivare in Consiglio dei ministri, e spesso persino i testi di legge prima di uscire dalle commissioni parlamentari. Esternazioni una al dì, convocazioni di singoli ministri e capigruppo, lettere e spifferatine ai giornali. Di tutto di più, oscillando tra arbitro ineccepibile e giocatore molesto, tanto da far pensare che la sua età lo esponga a qualche condizionamento di troppo da parte dei suoi consiglieri, l'opaca "Presidenza della Repubblica".
Sacrosante in una democrazia liberale le istituzioni di controllo e di garanzia e il potere neutro del Quirinale, ma quando non sono più tali e invece di arbitrare giocano? Berlusconi vuole (dice di voler) cambiare una Costituzione che a suo avviso - e non ha tutti i torti - gli impedisce di governare in modo efficace. Napolitano (così come i suoi predecessori) le regole le ha già cambiate forzandole. Tra le due, meglio la via costituzionale del centrodestra, se mai deciderà di intraprenderla.
A ben vedere, non si tratta che dei soliti ragionamenti, che il centrodestra ha già tentato di trasformare in riforma costituzionale nel 2005 (premierato forte, riduzione del numero dei parlamentari, Senato federale). Una riforma lasciata affondare nel referendum confermativo. E d'altronde, non va dimenticato che il rafforzamento dei poteri del premier e del governo, con il conseguente restringimento di quelli del presidente della Repubblica, era preso in considerazione anche nella Bozza di riforma Violante, la quale prevedeva che il presidente del Consiglio fosse investito direttamente dai risultati elettorali e non incaricato dal capo dello Stato, che potesse revocare e nominare ministri e sottosegretari senza passare per il Colle, e che il governo potesse usufruire di una corsia preferenziale in Parlamento per i disegni di legge di suo interesse.
Nessuno scandalo, dunque. Se non che nel reagire a queste prese di posizione la sinistra e la stampa mainstream calzano sempre i panni che fanno comodo al Cavaliere. Al di là del merito delle questioni e delle promesse effettivamente mantenute, infatti, ne escono rafforzati i tratti di decisionismo di Berlusconi e rimessa a lucido la sua immagine di riformatore, mentre i suoi avversari, rintanati sulla difensiva, appaiono come il ritratto stesso della conservazione. Un richiamo irresistibile per gli elettori del Pdl, anche se sfiduciati.
La teoria berlusconiana delle "mani legate" (da istituzioni antiquate e inefficienti e alleati infedeli) è molto spesso un alibi per giustificare le riforme non realizzate, ma che ci sia in Italia un problema di ingovernabilità (troppi galli a cantare e procedure parlamentari lente e farraginose) è innegabile. E c'è del vero anche nel fatto che quando Berlusconi si trova a Palazzo Chigi, chiunque si trovi al Quirinale - sia Scalfaro, Ciampi, o Napolitano - si sente in diritto di esercitare un ruolo di supplenza delle opposizioni, che oltre a sconfinare dalle prerogative costituzionali della presidenza della Repubblica danneggia in primis proprio le opposizioni, che vengono automaticamente bollate come deboli e incapaci finendo quasi per scomparire dal dibattito politico. Quando invece al governo c'è il centrosinistra, il Colle sembra uno studio notarile.
In questa legislatura il presidente della Repubblica e il presidente della Camera sono apparsi troppo spesso come gli unici, impropri argini, al governo Berlusconi. Soprattutto con Napolitano siamo ormai di fatto in un semipresidenzialismo dove il presidente però non viene eletto direttamente dai cittadini. Interviene su tutto, dalla politica estera alle spiagge in concessione, dando l'impressione di reclamare un ruolo di indirizzo politico che la Costituzione espressamente gli nega. Non c'è decreto ormai che non venga sottoposto ai suoi uffici prima di arrivare in Consiglio dei ministri, e spesso persino i testi di legge prima di uscire dalle commissioni parlamentari. Esternazioni una al dì, convocazioni di singoli ministri e capigruppo, lettere e spifferatine ai giornali. Di tutto di più, oscillando tra arbitro ineccepibile e giocatore molesto, tanto da far pensare che la sua età lo esponga a qualche condizionamento di troppo da parte dei suoi consiglieri, l'opaca "Presidenza della Repubblica".
Sacrosante in una democrazia liberale le istituzioni di controllo e di garanzia e il potere neutro del Quirinale, ma quando non sono più tali e invece di arbitrare giocano? Berlusconi vuole (dice di voler) cambiare una Costituzione che a suo avviso - e non ha tutti i torti - gli impedisce di governare in modo efficace. Napolitano (così come i suoi predecessori) le regole le ha già cambiate forzandole. Tra le due, meglio la via costituzionale del centrodestra, se mai deciderà di intraprenderla.
Thursday, September 09, 2010
Fini liberale? Wishful thinking
Per chi sa guardare oltre i tatticismi, oltre le dissimulazioni, dal discorso di Fini a Mirabello avrà percepito non solo l'astio antiberlusconiano che ormai spinge il presidente della Camera, ma anche la vera natura di Fli dal punto di vista dei contenuti politici. Somiglia molto alla vecchia An per quanto riguarda le concezioni economiche (i riflessi, direi) e gli interessi cui intende rivolgersi, conserva lo stesso retropensiero anti-federalista, mentre riguardo la Costituzione e l'assetto istituzionale ha abbandonato l'approccio riformatore che ha sempre contraddistinto il centrodestra - e in particolare Fini (da sempre presidenzialista) - per assumere una posizione conservatrice molto simile a quella espressa da Violante nel Pd: prima parte della Carta «intangibile», mentre per il sistema di governo non si va più in là di un semplice rafforzamento contestuale (in concreto ancora da definire) sia dell'esecutivo che del Parlamento. Questo spostamento, secondo Panebianco, è «ciò che più ha accreditato Fini presso la sinistra e, più in generale, presso tutti coloro che nella Costituzione così come è vedono un argine contro il "cesarismo" in generale, e quello berlusconiano in particolare». Sull'immigrazione Fini ha sfumato molto, da quando accusava il governo di violare i diritti umani, mentre di bioetica non c'è più traccia nei suoi discorsi.
Il discorso a Mirabello, da molti definito un "manifesto", non ha convinto, alcuni osservatori. Tra questi, appunto Angelo Panebianco, che alcuni giorni fa sul Corriere della Sera, oltre ad appuntare «qualche tatticismo» e le «molte cose» apparse fra loro «piuttosto eterogenee», perché rivolte a spezzoni diversi di elettorato, in particolare segnalava l'ambiguità del presidente della Camera sulle riforme istituzionali e della giustizia e sul federalismo fiscale, chiedendo di chiarire se avesse abbandonato le storiche istanze riformatrici del centrodestra (presidenzialismo o premierato, e separazione delle carriere e del Csm) e osservando come nel suo discorso avesse «annacquato» il federalismo fiscale evocando un «federalismo solidale».
Oggi Fini risponde a Panebianco, il quale ringrazia, ma non si dice convinto: «I miei dubbi permangono». Dopo aver proclamato «l'intangibilità» dei principi sanciti nella prima parte della Costituzione, riguardo la necessaria riforma della seconda Fini osserva che «la salvaguardia della possibilità di scelta, da parte degli elettori, della coalizione di governo e la necessità di conferire maggiore incisività e stabilità all'esecutivo non devono necessariamente comportare il ridimensionamento o, peggio ancora, l'abbandono del modello di democrazia parlamentare»; e spiega, dunque, che occorre «aumentare contestualmente la capacità deliberativa e di controllo del Parlamento e quella decisionale del Governo e di farlo in un quadro di rispettiva ed armoniosa crescita dei ruoli, per garantire una più efficiente funzionalità del sistema che non può esaurirsi, come sempre più spesso si sostiene, nel momento elettorale». Da sempre personalmente a favore del presidenzialismo, Fini ora sembra optare per il parlamentarismo. Volendo restare in questo ambito, il politologo osserva che però «rafforzare contemporaneamente la capacità deliberativa del Parlamento e quella decisionale del governo è molto difficile nell'ambito delle democrazie parlamentari (il caso dei presidenzialismi è ovviamente diverso). Le democrazie parlamentari oscillano, in genere, fra sistemi con parlamenti forti (la 'centralità') e governi deboli e sistemi con governi forti e parlamenti deboli o subordinati. È difficile trovare una terza via».
Riguardo il secondo appunto, sul federalismo fiscale, Fini conferma il suo approccio di fondo di un «federalismo solidale», sottolineando la necessità di «meccanismi di perequazione, in grado, se gestiti a livello centrale e in modo imparziale, di ridurre il divario esistente, e non più tollerabile, tra le aree del Paese maggiormente sviluppate e quelle affette da ritardi storici». Chiarimento che non supera la diffidenza di Panebianco, che nella sua replica ribadisce: «Se si segue la strada degli interventi perequativi (per il Mezzogiorno), occorre anche indicare come impedire che tali interventi servano più a conservare gli antichi vizi che a stimolare le nuove virtù».
Anche a Il Foglio, giornale che in questi mesi non ha mostrato antipatia nei confronti di Fini e, anzi, si è fatto promotore di una linea della ricomposizione e della coesistenza, non è piaciuto il discorso pronunciato dal presidente della Camera a Mirabello, «troppo lungo, una lingua di legno ricca di frasi fatte». Certo, un discorso «tecnicamente a posto, politicamente anche abile, con il solito passaggio del cerino agli interlocutori», ma «poco per dare un senso e una visione». «Fini - si osserva in uno degli editoriali a pagina tre - era diventato interessante quando aveva reagito individualisticamente e con le idee all'isolamento politico... Un dissenso controllato, un'altra versione normalizzante della destra italiana: erano cose che valeva la pena di sperimentare nel dorato mondo del berlusconismo plebiscitario. Un discorso da leader di una piccola formazione che cerca spazio nella maggioranza o altrove segna un ritorno al passato».
Oltre a Panebianco e al Foglio, arriva un giudizio ancora più severo, quello del sociologo Luca Ricolfi, non certo tenero con il governo Berlusconi. Intervistato da il Giornale, sottolinea la natura illiberale e assistenzialista del movimento finiano. I «temi discriminanti» per un partito che si proclama liberale («quelli dell'economia, meno tasse e meno spesa pubblica improduttiva») non sono del tutto assenti, osserva riferendosi alle posizioni di Baldassarri, ma «hanno un peso minore, sono come sommersi dall'impostazione antifederalista». Fli, spiega Ricolfi, è forse più liberale del Pdl sul dissenso interno, i diritti civili e la concezione delle istituzioni e dello stato di diritto, ma «se si va alla sostanza, ossia alla politica economica, è il partito di Fini che soccombe nettamente, perché la visione di Berlusconi - per quanto lontana dal liberalismo - è comunque più liberale di quella di Fini». Dunque, Fli è «l'ennesimo partito della spesa pubblica» e «non potrebbe essere diversamente per un partito che prende i voti soprattutto dal Lazio in giù».
In merito all'idea di Fini di un «federalismo solidale», Ricolfi sottolinea che «l'unica questione è di trovare il modo di far funzionare il federalismo, non certo di annacquarlo ulteriormente» e conclude che i leghisti che vedono nel movimento di Fini un partito «sudista-assistenzialista» «non hanno qualche ragione, hanno tutte le ragioni». Se intorno al presidente della Camera si stanno coagulando molte aspettative, è perché «molte persone di destra istruite sognano un partito conservatore classico, europeo, possibilmente liberale e di massa. E appena qualcuno glielo promette - osserva Ricolfi - ci credono con fanciullesca fiducia», ma si tratta di un «wishful thinking», sono «pie illusioni». Pesante il paragone usato per definire la natura delle mosse dell'ex leader di An: «Fini, come D'Alema, è un tattico, molto abile a gestire il breve periodo ma poco incline a pensare nel registro della lunga durata». Il sociologo stima un eventuale partito di Fini non oltre il 5 per cento e tra un futuro da nuovo leader del centrodestra italiano o da leader di «un partitino in una coalizione "marmellata" con Rutelli, Casini e gli altri», vede più probabile la seconda ipotesi.
Il discorso a Mirabello, da molti definito un "manifesto", non ha convinto, alcuni osservatori. Tra questi, appunto Angelo Panebianco, che alcuni giorni fa sul Corriere della Sera, oltre ad appuntare «qualche tatticismo» e le «molte cose» apparse fra loro «piuttosto eterogenee», perché rivolte a spezzoni diversi di elettorato, in particolare segnalava l'ambiguità del presidente della Camera sulle riforme istituzionali e della giustizia e sul federalismo fiscale, chiedendo di chiarire se avesse abbandonato le storiche istanze riformatrici del centrodestra (presidenzialismo o premierato, e separazione delle carriere e del Csm) e osservando come nel suo discorso avesse «annacquato» il federalismo fiscale evocando un «federalismo solidale».
Oggi Fini risponde a Panebianco, il quale ringrazia, ma non si dice convinto: «I miei dubbi permangono». Dopo aver proclamato «l'intangibilità» dei principi sanciti nella prima parte della Costituzione, riguardo la necessaria riforma della seconda Fini osserva che «la salvaguardia della possibilità di scelta, da parte degli elettori, della coalizione di governo e la necessità di conferire maggiore incisività e stabilità all'esecutivo non devono necessariamente comportare il ridimensionamento o, peggio ancora, l'abbandono del modello di democrazia parlamentare»; e spiega, dunque, che occorre «aumentare contestualmente la capacità deliberativa e di controllo del Parlamento e quella decisionale del Governo e di farlo in un quadro di rispettiva ed armoniosa crescita dei ruoli, per garantire una più efficiente funzionalità del sistema che non può esaurirsi, come sempre più spesso si sostiene, nel momento elettorale». Da sempre personalmente a favore del presidenzialismo, Fini ora sembra optare per il parlamentarismo. Volendo restare in questo ambito, il politologo osserva che però «rafforzare contemporaneamente la capacità deliberativa del Parlamento e quella decisionale del governo è molto difficile nell'ambito delle democrazie parlamentari (il caso dei presidenzialismi è ovviamente diverso). Le democrazie parlamentari oscillano, in genere, fra sistemi con parlamenti forti (la 'centralità') e governi deboli e sistemi con governi forti e parlamenti deboli o subordinati. È difficile trovare una terza via».
Riguardo il secondo appunto, sul federalismo fiscale, Fini conferma il suo approccio di fondo di un «federalismo solidale», sottolineando la necessità di «meccanismi di perequazione, in grado, se gestiti a livello centrale e in modo imparziale, di ridurre il divario esistente, e non più tollerabile, tra le aree del Paese maggiormente sviluppate e quelle affette da ritardi storici». Chiarimento che non supera la diffidenza di Panebianco, che nella sua replica ribadisce: «Se si segue la strada degli interventi perequativi (per il Mezzogiorno), occorre anche indicare come impedire che tali interventi servano più a conservare gli antichi vizi che a stimolare le nuove virtù».
Anche a Il Foglio, giornale che in questi mesi non ha mostrato antipatia nei confronti di Fini e, anzi, si è fatto promotore di una linea della ricomposizione e della coesistenza, non è piaciuto il discorso pronunciato dal presidente della Camera a Mirabello, «troppo lungo, una lingua di legno ricca di frasi fatte». Certo, un discorso «tecnicamente a posto, politicamente anche abile, con il solito passaggio del cerino agli interlocutori», ma «poco per dare un senso e una visione». «Fini - si osserva in uno degli editoriali a pagina tre - era diventato interessante quando aveva reagito individualisticamente e con le idee all'isolamento politico... Un dissenso controllato, un'altra versione normalizzante della destra italiana: erano cose che valeva la pena di sperimentare nel dorato mondo del berlusconismo plebiscitario. Un discorso da leader di una piccola formazione che cerca spazio nella maggioranza o altrove segna un ritorno al passato».
Oltre a Panebianco e al Foglio, arriva un giudizio ancora più severo, quello del sociologo Luca Ricolfi, non certo tenero con il governo Berlusconi. Intervistato da il Giornale, sottolinea la natura illiberale e assistenzialista del movimento finiano. I «temi discriminanti» per un partito che si proclama liberale («quelli dell'economia, meno tasse e meno spesa pubblica improduttiva») non sono del tutto assenti, osserva riferendosi alle posizioni di Baldassarri, ma «hanno un peso minore, sono come sommersi dall'impostazione antifederalista». Fli, spiega Ricolfi, è forse più liberale del Pdl sul dissenso interno, i diritti civili e la concezione delle istituzioni e dello stato di diritto, ma «se si va alla sostanza, ossia alla politica economica, è il partito di Fini che soccombe nettamente, perché la visione di Berlusconi - per quanto lontana dal liberalismo - è comunque più liberale di quella di Fini». Dunque, Fli è «l'ennesimo partito della spesa pubblica» e «non potrebbe essere diversamente per un partito che prende i voti soprattutto dal Lazio in giù».
In merito all'idea di Fini di un «federalismo solidale», Ricolfi sottolinea che «l'unica questione è di trovare il modo di far funzionare il federalismo, non certo di annacquarlo ulteriormente» e conclude che i leghisti che vedono nel movimento di Fini un partito «sudista-assistenzialista» «non hanno qualche ragione, hanno tutte le ragioni». Se intorno al presidente della Camera si stanno coagulando molte aspettative, è perché «molte persone di destra istruite sognano un partito conservatore classico, europeo, possibilmente liberale e di massa. E appena qualcuno glielo promette - osserva Ricolfi - ci credono con fanciullesca fiducia», ma si tratta di un «wishful thinking», sono «pie illusioni». Pesante il paragone usato per definire la natura delle mosse dell'ex leader di An: «Fini, come D'Alema, è un tattico, molto abile a gestire il breve periodo ma poco incline a pensare nel registro della lunga durata». Il sociologo stima un eventuale partito di Fini non oltre il 5 per cento e tra un futuro da nuovo leader del centrodestra italiano o da leader di «un partitino in una coalizione "marmellata" con Rutelli, Casini e gli altri», vede più probabile la seconda ipotesi.
Friday, January 11, 2008
News affette da allarmismo e politica da emergenzialismo
Immaginate cosa sarebbe accaduto se durante un governo Berlusconi il presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera avesse convocato per un'audizione i direttori di tutti i tg nazionali (Tg5, Tg2, Tg3, Rainews 24, SkyTg 24, Tg1, Tg La7 e Studio Aperto) motivando la convocazione con un presunto scollamento tra «i dati statistici sull'andamento della criminalità» e la «percezione di insicurezza nei cittadini», dovuta anche al «sistema dell'informazione e della comunicazione, con particolare riguardo al modo in cui esso sceglie e presenta le notizie, nel formarsi e nel diffondersi di un'opinione condivisa sul grado di sicurezza di una comunità».
Certo, che quel modo di scegliere e presentare le notizie influenza il formarsi di percezioni e opinioni. Guai se così non fosse. Non è compito della politica, però, esercitare pressioni sui direttori delle testate imputandogli la responsabilità di diffondere percezioni sbagliate e, soprattutto, scomode per chi è al potere. Semmai, la politica è inadempiente nel garantire un mercato e un sistema readiotelevisivo con una pluralità di soggetti autonomi. Assetto ben lontano dall'attuale duopolio, che addirittura qualcuno vorrebbe veder ritrasformato in monopolio della Tv di Stato.
Immaginate cosa sarebbe successo, se un'iniziativa del genere l'avesse presa un presidente di Commissione messo lì da Berlusconi. Bisogna comunque ammettere che il mondo della stampa è civilmente insorto. Il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Lazio, Bruno Tucci, ma anche i direttori di tg vicini al centrosinistra come Antonio Di Bella e Corradino Mineo. Tanto che Violante è in qualche modo dovuto correre ai ripari: «Se non vi avessimo ascoltati, avremmo concluso che l'informazione è uno dei fattori che generano insicurezza: ora stiamo capendo che non è così».
Le commissioni parlamentari sono già sommerse di inutili scartoffie di audizioni di ogni tipo, a cui raramente segue qualche iniziativa degna di nota. Ormai in questo paese se non sei stato "audito" almeno una volta da qualche commissione sei uno sfigato.
Detto questo, sarebbe di un qualche interesse discutere in altre sedi di come a caccia di audience gli operatori televisivi siano indotti a spettacolarizzare i fatti di cronaca, spesso cadendo nel macabro e nel cattivo gusto, tra biciclette e plastici di villette. Per non dire dei tanti allarmismi di cui (dalla meteorologia al traffico, dagli incidenti del sabato sera alle epidemie e alla droga) tutti siamo ogni sera testimoni. Non manca mai, nei tg e nei titoli dei giornali, una notizia che diventi un allarme nazionale da codice rosso. Tutto per catturare un po' della preziosa attenzione dello spettatore/lettore distratto.
Tendenze che non ci devono scandalizzare moralisticamente, ma di cui occorre essere consapevoli. Proprio il ceto politico dimostra di non esserne consapevole, abituato in Italia come in nessun'altra parte del mondo occidentale a prendere cattive decisioni dettate dall'emergenzialismo. Spesso iniziative lasciate a metà, poi dimenticate per anni, fino alla successiva emergenza.
Certo, che quel modo di scegliere e presentare le notizie influenza il formarsi di percezioni e opinioni. Guai se così non fosse. Non è compito della politica, però, esercitare pressioni sui direttori delle testate imputandogli la responsabilità di diffondere percezioni sbagliate e, soprattutto, scomode per chi è al potere. Semmai, la politica è inadempiente nel garantire un mercato e un sistema readiotelevisivo con una pluralità di soggetti autonomi. Assetto ben lontano dall'attuale duopolio, che addirittura qualcuno vorrebbe veder ritrasformato in monopolio della Tv di Stato.
Immaginate cosa sarebbe successo, se un'iniziativa del genere l'avesse presa un presidente di Commissione messo lì da Berlusconi. Bisogna comunque ammettere che il mondo della stampa è civilmente insorto. Il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Lazio, Bruno Tucci, ma anche i direttori di tg vicini al centrosinistra come Antonio Di Bella e Corradino Mineo. Tanto che Violante è in qualche modo dovuto correre ai ripari: «Se non vi avessimo ascoltati, avremmo concluso che l'informazione è uno dei fattori che generano insicurezza: ora stiamo capendo che non è così».
Le commissioni parlamentari sono già sommerse di inutili scartoffie di audizioni di ogni tipo, a cui raramente segue qualche iniziativa degna di nota. Ormai in questo paese se non sei stato "audito" almeno una volta da qualche commissione sei uno sfigato.
Detto questo, sarebbe di un qualche interesse discutere in altre sedi di come a caccia di audience gli operatori televisivi siano indotti a spettacolarizzare i fatti di cronaca, spesso cadendo nel macabro e nel cattivo gusto, tra biciclette e plastici di villette. Per non dire dei tanti allarmismi di cui (dalla meteorologia al traffico, dagli incidenti del sabato sera alle epidemie e alla droga) tutti siamo ogni sera testimoni. Non manca mai, nei tg e nei titoli dei giornali, una notizia che diventi un allarme nazionale da codice rosso. Tutto per catturare un po' della preziosa attenzione dello spettatore/lettore distratto.
Tendenze che non ci devono scandalizzare moralisticamente, ma di cui occorre essere consapevoli. Proprio il ceto politico dimostra di non esserne consapevole, abituato in Italia come in nessun'altra parte del mondo occidentale a prendere cattive decisioni dettate dall'emergenzialismo. Spesso iniziative lasciate a metà, poi dimenticate per anni, fino alla successiva emergenza.
Thursday, June 07, 2007
Si tengano la poltrona, ma la faccia l'hanno persa
E' andata a finire nell'unico modo in cui poteva andare a finire. Nessuna sorpresa, ieri, al Senato. Venga messo a verbale che la mozione approvata - l'unica - dalla maggioranza, non contiene alcun apprezzamento alla Guardia di Finanza, ma solo all'operato del Governo, e la si finisca lì.
Una piccola, patetica sorpresa, la scelta del ministro Padoa-Schioppa di andare all'attacco, perdendo così l'ultimo angolo di faccia che gli era rimasto, dopo che al Generale Speciale, per telefono (parole non smentite), aveva molto all'italiana assicurato: «... noi in cambio avremo un occhio di riguardo, le troveremo una buona sistemazione». La sistemazione era alla Corte dei Conti (poi rifiutata da Speciale), il supremo organo di controllo degli atti amministrativi.
Decisamente, qualcosa non torna. Per smontare il suo lungo e retorico, quanto inutile, discorso, e lasciare in mutande il ministro, basta chiedersi come abbia potuto egli stesso proporre il Generale Speciale per quell'alto incarico alla Corte dei Conti, mentre di lui pensava tutto il male possibile. Ieri sera, in aula al Senato, lo ha accusato di una gestione «opaca» e «personalistica» della Guardia di Finanza, piena di favoritismi compiuti usando in modo disinvolto trasferimenti, premi, ed encomi, «venute meno le regole etiche e deontologiche»; e di «mancanza di lealtà» nei riguardi dell'autorità politica, per l'«assenza di una comunicazione serena, di trasparenza, di prudenza e di riservatezza».
Se il comportamento di Speciale fosse stato davvero degno di tali gravi accuse, non sarebbe stato difficile per il Governo sostituirlo esibendo ottime motivazioni, ben prima che scoppiasse sui giornali il caso con Visco, né raccogliere le prove sufficienti a deferirlo agli organi di giustizia civile e militare, anziché proporgli una promozione alla Corte dei Conti.
Sotto il peso di questa semplicissima contraddizione crolla tutta la requisitoria del ministro, insieme a ogni residua briciola di credibilità.
Non sfugga che Padoa-Schioppa ha anche garantito «la legittimità sostanziale e formale» dell'atto del governo. Ci auguriamo per lui che si sia accertato dell'intenzione della Corte dei Conti di ricevere il provvedimento, qualunque esso sia (perché ancora non ci è dato sapere cosa precisamente disponga), conferendo con l'onorevole Luciano Violante, che nel pomeriggio, alla Camera, incontrava per l'appunto i magistrati della Corte, per raccomandarsi, supponiamo, e trovare un appiglio giuridico.
Una piccola, patetica sorpresa, la scelta del ministro Padoa-Schioppa di andare all'attacco, perdendo così l'ultimo angolo di faccia che gli era rimasto, dopo che al Generale Speciale, per telefono (parole non smentite), aveva molto all'italiana assicurato: «... noi in cambio avremo un occhio di riguardo, le troveremo una buona sistemazione». La sistemazione era alla Corte dei Conti (poi rifiutata da Speciale), il supremo organo di controllo degli atti amministrativi.
Decisamente, qualcosa non torna. Per smontare il suo lungo e retorico, quanto inutile, discorso, e lasciare in mutande il ministro, basta chiedersi come abbia potuto egli stesso proporre il Generale Speciale per quell'alto incarico alla Corte dei Conti, mentre di lui pensava tutto il male possibile. Ieri sera, in aula al Senato, lo ha accusato di una gestione «opaca» e «personalistica» della Guardia di Finanza, piena di favoritismi compiuti usando in modo disinvolto trasferimenti, premi, ed encomi, «venute meno le regole etiche e deontologiche»; e di «mancanza di lealtà» nei riguardi dell'autorità politica, per l'«assenza di una comunicazione serena, di trasparenza, di prudenza e di riservatezza».
Se il comportamento di Speciale fosse stato davvero degno di tali gravi accuse, non sarebbe stato difficile per il Governo sostituirlo esibendo ottime motivazioni, ben prima che scoppiasse sui giornali il caso con Visco, né raccogliere le prove sufficienti a deferirlo agli organi di giustizia civile e militare, anziché proporgli una promozione alla Corte dei Conti.
Sotto il peso di questa semplicissima contraddizione crolla tutta la requisitoria del ministro, insieme a ogni residua briciola di credibilità.
Non sfugga che Padoa-Schioppa ha anche garantito «la legittimità sostanziale e formale» dell'atto del governo. Ci auguriamo per lui che si sia accertato dell'intenzione della Corte dei Conti di ricevere il provvedimento, qualunque esso sia (perché ancora non ci è dato sapere cosa precisamente disponga), conferendo con l'onorevole Luciano Violante, che nel pomeriggio, alla Camera, incontrava per l'appunto i magistrati della Corte, per raccomandarsi, supponiamo, e trovare un appiglio giuridico.
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