Anche su Notapolitica
La sorpresa è che "The Iron Lady" è un film molto più politico di quanto ci si potesse aspettare dalle anticipazioni. Certamente non è politico nel senso che approva o condanna un partito, una ricetta di politica economica o una storia politica. In questi termini il giudizio è sospeso, anzi non c'è nemmeno lo sforzo di fornire allo spettatore gli elementi fattuali minimi per potersi formare un'idea precisa. Non c'è un tentativo di ricostruzione storica o politica degli eventi, né di spiegare il contesto in cui furono prese le decisioni. Non ci si poteva aspettare questo dalla regista Phillida Loyd, sarebbe stato probabilmente un disastro. E' però fortemente politico perché è un film sulla leadership politica. Su una leadership fondata sui principi contrapposti alle convenienze come bussola dell'azione politica. E' un ritratto del thatcherismo – al di là delle singole policies, sulle quali si può dissentire – come modello di leadership, di cui il film ci presenta in modo obiettivo punti di forza e di debolezza, mescolando sapientemente lato pubblico e privato del leader.
Un modello di leadership i cui pilastri sono moralità, fiducia nell'individuo, e soprattutto fermezza sui principi. «We will stand on principle, or we will not stand at all» («Staremo in piedi sui principi, o non staremo in piedi affatto»), si sente ammonire dalla Thatcher il segretario di Stato Usa Alexander Haig, recatosi al numero 10 di Downing Street per cercare di ammorbidire la posizione della Lady di ferro nella crisi con l'Argentina «fascista» per le isole Falkland. Forse la frase più emblematica del film, un monito che risuona all'indirizzo anche di tutti i leader politici di oggi. Ed è proprio di leadership fondate sui principi ciò di cui forse oggi i cittadini avvertono più l'esigenza.
E' in frasi chiave come questa dunque, disseminate in tutto il film, anche nelle scene in cui Lady T appare vecchia e malata, che emerge con forza il carattere positivo della sua leadership. La scelta di fare un film sulla Thatcher ancora in vita, per di più in preda all'Alzheimer, è e resterà controversa, soprattutto, comprensibilmente, agli occhi della famiglia. Ma persino le scene che la ritraggono fragile e confusa non sono mai irrispettose, o volte a strappare qualche lacrima facile. Pur con qualche evidente forzatura per motivi narrativi, come nella scena iniziale quando esce a comprare il latte al negozietto all'angolo eludendo la sicurezza, sono sempre funzionali alla descrizione del suo carattere e ad evocare i ricordi.
Come in ogni storia di potere, ci sono anche il volto seducente dell'ambizione, le imperfezioni e l'egocentrismo del leader. All'epilogo di una vita vissuta con straordinaria intensità MT fa i conti con la propria coscienza, impersonata dal marito Dennis nelle sue frequenti allucinazioni. E si può toccare quasi con mano il dolore, il rimorso, per aver sottratto tempo e attenzioni agli affetti famigliari mentre era presa nella sfrenata corsa al "potere", a riempire la propria vita di un «significato» che andasse oltre ciò che la società prevedeva allora per una donna piccolo borghese: stirare e preparare il tè.
Non sembra mai la storia di una qualsiasi signora vecchia e ormai demente, ma di una leader politica che ha davvero cambiato il volto della storia. Di quella del suo partito, del suo Paese, e della politica occidentale. Se è vero che la vecchiaia e la malattia occupano molta parte del film, non mancano anche in queste scene momenti di lucidità in cui lo spirito di Lady T emerge al suo meglio. Per esempio, quando seduta sul lettino davanti al suo medico impartisce una lezione sullo stretto legame tra pensieri e azioni, e tra carattere e destino; o quando irritata, dopo ripetuti squilli, invita lo stesso medico a rispondere al telefono perché qualcuno potrebbe aver bisogno del suo aiuto. E mostra grande lucidità quando, nient'affatto irretita da una sua ammiratrice, emette una sentenza straordinariamente vivida sulla politica dei nostri giorni: «Una volta si trattava di tentare di fare qualcosa. Ora si tratta di diventare qualcuno».
Da ammiratori di Margaret Thatcher abbiamo visto il film – consapevoli dell'ideologia dominante a Hollywood e che nella pellicola si dava un gran peso all'Alzheimer – temendo che potesse dare l'idea che l'unico leader di destra buono è quello vecchio e malato. Non è così. Giustamente pretendiamo da Hollywood ritratti non intrisi di pregiudizio politico, ma a parte il fatto che di Hollywood c'è molto poco nella produzione (franco-britannica) e nel cast del film (solo Meryl Streep – davvero superba, da Oscar), bisognerebbe guardarlo a nostra volta senza pregiudizi.
Come ne esce, dunque, Maggie? Ne esce bene. Soprattutto considerando che la sua immagine è stata letteralmente fatta a pezzi e disumanizzata dalla propaganda politica di sinistra e dalla cultura statalista dominante, fino ad essere identificata con la cattiveria e la disumanità del potere. Ebbene, il film rende giustizia alla Thatcher: non la rende simpatica, ma senza sposare le sue idee la umanizza, restituendoci una leader sì inflessibile nel combattere gli "smidollati" che si ritrova intorno e i suoi nemici, ma anche il «primo premier anche madre», sgomenta e affranta per le vittime nella guerra delle Falkland. Ma il film va molto oltre l'umanizzazione di Lady T. Ne esce fuori un modello senz'altro positivo di leadership. Nessuno più di una donna che per emergere ha dovuto combattere il maschilismo dei partiti e della società britannica di allora sa cosa vuol dire lottare «ogni santo giorno della propria vita» e andare controcorrente, sfidare il conformismo, la banalità e la mediocrità imperanti in politica. Chi ne esce male nel film non è certo la Thatcher, piuttosto i colleghi di partito e di governo che pensano solo alla rielezione (ai quali MT risponde «la medicina è amara ma il paziente ne ha bisogno... ci odieranno oggi ma ci ringrazieranno per generazioni») e un'opposizione laburista pregiudiziale e incline al tanto peggio tanto meglio, guidata da un livido Michael Foot.
Non c'è nemmeno alcuna caricatura delle idee liberiste, che anzi vengono declinate non con arroganza accademica o dalle vette privilegiate dell'alta finanza, ma attraverso il buon senso del bottegaio. Il bilancio dello Stato come il bilancio di una famiglia: il risparmio, non la spesa, è la virtù. E il lavoro, non lo sciopero, è un valore, mentre l'assistenzialismo è immorale ed economicamente insostenibile. Il ritratto stesso della figlia di un droghiere di provincia che contro tutti i pregiudizi e gli stereotipi diventa primo ministro ne fa un'icona positiva del liberalismo e dell'individualismo.
Tuesday, January 31, 2012
Monday, January 30, 2012
Al Consiglio Ue con un messaggio pericoloso
Anche su Notapolitica
Inizia oggi l’ennesimo decisivo Consiglio europeo e il premier Mario Monti si presenta forte di una posizione condivisa da tutto l’arco costituzionale. Il messaggio lanciato all’Ue (a Berlino) e alla nostra opinione pubblica da qualche settimana, sempre con maggiore intensità, sia da Monti in persona, nelle sue interviste come nelle sue recenti audizioni al Senato e alla Camera, sia da tutti i partiti, anche quelli non di maggioranza, formalmente con le mozioni sulla politica europea, è stato univoco: l’Italia ha fatto i suoi “compiti a casa”, adesso tocca all’Unione europea (sottinteso: alla Germania) aiutarci a placare il dio spread.
Tutta la stampa nazionale ha sottolineato favorevolmente l’inedito passaggio parlamentare da clima di unità nazionale tra le forze politiche, almeno per quanto riguarda l’Europa. Litigano su tutto i nostri politici, ma quando si tratta di difendere la spesa pubblica ai livelli attuali, cioè il loro potere di intermediazione nell’economia, perché ciò significa sostenere oggi che l’Italia ha fatto i suoi “compiti”, sanno parlare con una voce sola. E’ senz’altro un segnale di grande compattezza, che rafforzerà il governo Monti nei decisivi negoziati che lo aspettano a Bruxelles su fiscal compact, quindi sulle modalità e i tempi del rientro dal debito, ed ESM, cioè il fondo salva-Stati. Una posizione, quella di cui si farà portavoce il nostro premier, che tra l’altro è sostenuta anche da Barack Obama, come evidenzia il Financial Times.
Quando Monti dice che l’Italia «non chiede denaro alla Germania o ad altri», ma che siano «riconosciuti i progressi nel risanamento», e quindi che la governance dell’Eurozona sappia assumere decisioni in grado di portare ad «una ragionevole diminuzione dei tassi di interesse» sui nostri titoli di Stato, allude a forme di tutela e/o di condivisione del debito, e di fatto sta proprio chiedendo soldi agli altri. Le misure in cui l’Italia spera per ottenere uno sconto sul debito, e che vengono citate esplicitamente anche nelle mozioni parlamentari della settimana scorsa, sono l’aumento di disponibilità del fondo salva-Stati (ESM) da 500 a 750 o 1.000 miliardi (la cui copertura sarebbe costituita essenzialmente da soldi tedeschi) e gli eurobond, cioè una forma di condivisione del debito di cui sarebbe la solidità tedesca, in pratica, ad essere garante. Può darsi che sia inevitabile, che sia l’unica soluzione alla crisi, o che sia giusto così, ma non è molto diverso dal chiedere soldi.
La Germania verserà più soldi nell’ESM solo se gli altri Paesi faranno i “compiti a casa” (e noi siamo appena all’inizio); l’America darà più soldi al Fmi solo se l’Europa farà la sua parte. Insomma, nel suo anno elettorale Obama non può permettersi una crisi dell’euro e punta su Monti per allargare i cordoni della borsa della Merkel, la quale a sua volta prossima alle elezioni deve far vedere ai tedeschi che non stanno pagando per i debiti altrui. Monti, che il problema elettorale non ce l’ha, ha due strade: o gattopardescamente cambiare tutto perché nulla cambi, sperando che sia il contesto esterno a cambiare in modo favorevole (soluzione del problema greco e do ut des con Berlino); oppure riformare sul serio il Paese, ma per fare ciò dovrebbe intervenire sugli stock di debito e di spesa pubblica senza temporeggiare.
E’ ovvio che il messaggio “abbiamo fatto i nostri compiti a casa” sembra più funzionale alla prima strategia. Non si può negare che possa servire a strappare condizioni non troppo punitive per il nostro Paese, ma sarebbe un successo dalle gambe troppo corte. Ed è un messaggio pericoloso e inquietante sul fronte interno. Pericoloso perché convincersi, da parte delle forze politiche, e convincere l’opinione pubblica, che i nostri “compiti” si siano esauriti con la manovra quasi tutta tasse di dicembre e le timide liberalizzazioni della settimana scorsa può indebolire in modo decisivo la determinazione della politica ad implementare le riforme strutturali necessarie ad avvicinare la nostra competitività a quella tedesca e la propensione dei cittadini ad accettarle. Ce lo ha ricordato senza sconti la cancelliera tedesca Angela Merkel nell’intervista concessa a sei quotidiani europei (tra cui La Stampa) venerdì scorso. Mentre da noi è appena iniziata, con il piede sbagliato, la trattativa tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro, Merkel avverte: la riforma s’ha da fare, se vogliamo in cambio che l’Ue ci aiuti a far calare il costo del nostro debito. E d’altra parte, ricorda con una punta di malizia, «altri Paesi, la Germania o l’Europa dell’Est, ad esempio, hanno già alle loro spalle difficili riforme del mercato del lavoro». Per promuovere la crescita, osserva inoltre Merkel nell’intervista, ci sono modi diversi dai costosi pacchetti di spesa, che «non costano praticamente denaro»: più flessibilità nella legislazione sul lavoro; eliminare le «barriere» nelle professioni e nei servizi; «più privatizzazioni». Ecco servito chi rimprovera a Berlino di pensare solo all’austerity.
La realtà è ben diversa: l’Italia s’è appena seduta al suo banco e ha appena aperto il quaderno. Il governo Monti ha fatto molto, molto più di quanto non siano riusciti a fare i governi di centrodestra e di centrosinistra. Ha reintrodotto la tassa sulla prima casa, abolito le pensioni d’anzianità, in questo accontentando i tedeschi che hanno sempre malvisto – con qualche ragione – i privilegi degli italiani in questi due ambiti, e infine assunto la decisione dello scorporo tra Snam rete gas ed Eni (le altre misure sono di contorno e alcune nemmeno possono essere definite liberalizzazioni). Tuttavia, nell’emergenza, appena insediato, ha preferito inseguire il pareggio di bilancio a suon di tasse anziché di tagli alla spesa e la strategia complessiva sembra quella di ridurre il debito molto gradualmente, attraverso avanzi primari – che senza crescita potrebbero essere mantenuti solo con nuove tasse sempre più recessive – piuttosto che aggredendone lo stock; dunque di farsi riconoscere gli sforzi compiuti per ammorbidire il rigore tedesco, agire sul contesto esterno, quello europeo, più che su quello interno. Ma senza un piano di abbattimento di spesa pubblica e pressione fiscale di 10 punti di Pil in dieci anni, come ha fatto la Germania, non se ne esce.
Berlino ribadisce che discuterà di eurobond «solo quando l’Europa avrà raggiunto un’integrazione molto più profonda, non però come strumento per superare la crisi», perché significherebbe promettere più soldi senza combatterne le vere cause. Ammesso che i tedeschi prima o poi cedano, e ammorbidiscano la loro linea, e i mercati approvino, il rischio è di ritrovarci nel medio-lungo periodo con un euro più simile alla lira che al marco.
Inizia oggi l’ennesimo decisivo Consiglio europeo e il premier Mario Monti si presenta forte di una posizione condivisa da tutto l’arco costituzionale. Il messaggio lanciato all’Ue (a Berlino) e alla nostra opinione pubblica da qualche settimana, sempre con maggiore intensità, sia da Monti in persona, nelle sue interviste come nelle sue recenti audizioni al Senato e alla Camera, sia da tutti i partiti, anche quelli non di maggioranza, formalmente con le mozioni sulla politica europea, è stato univoco: l’Italia ha fatto i suoi “compiti a casa”, adesso tocca all’Unione europea (sottinteso: alla Germania) aiutarci a placare il dio spread.
Tutta la stampa nazionale ha sottolineato favorevolmente l’inedito passaggio parlamentare da clima di unità nazionale tra le forze politiche, almeno per quanto riguarda l’Europa. Litigano su tutto i nostri politici, ma quando si tratta di difendere la spesa pubblica ai livelli attuali, cioè il loro potere di intermediazione nell’economia, perché ciò significa sostenere oggi che l’Italia ha fatto i suoi “compiti”, sanno parlare con una voce sola. E’ senz’altro un segnale di grande compattezza, che rafforzerà il governo Monti nei decisivi negoziati che lo aspettano a Bruxelles su fiscal compact, quindi sulle modalità e i tempi del rientro dal debito, ed ESM, cioè il fondo salva-Stati. Una posizione, quella di cui si farà portavoce il nostro premier, che tra l’altro è sostenuta anche da Barack Obama, come evidenzia il Financial Times.
Quando Monti dice che l’Italia «non chiede denaro alla Germania o ad altri», ma che siano «riconosciuti i progressi nel risanamento», e quindi che la governance dell’Eurozona sappia assumere decisioni in grado di portare ad «una ragionevole diminuzione dei tassi di interesse» sui nostri titoli di Stato, allude a forme di tutela e/o di condivisione del debito, e di fatto sta proprio chiedendo soldi agli altri. Le misure in cui l’Italia spera per ottenere uno sconto sul debito, e che vengono citate esplicitamente anche nelle mozioni parlamentari della settimana scorsa, sono l’aumento di disponibilità del fondo salva-Stati (ESM) da 500 a 750 o 1.000 miliardi (la cui copertura sarebbe costituita essenzialmente da soldi tedeschi) e gli eurobond, cioè una forma di condivisione del debito di cui sarebbe la solidità tedesca, in pratica, ad essere garante. Può darsi che sia inevitabile, che sia l’unica soluzione alla crisi, o che sia giusto così, ma non è molto diverso dal chiedere soldi.
La Germania verserà più soldi nell’ESM solo se gli altri Paesi faranno i “compiti a casa” (e noi siamo appena all’inizio); l’America darà più soldi al Fmi solo se l’Europa farà la sua parte. Insomma, nel suo anno elettorale Obama non può permettersi una crisi dell’euro e punta su Monti per allargare i cordoni della borsa della Merkel, la quale a sua volta prossima alle elezioni deve far vedere ai tedeschi che non stanno pagando per i debiti altrui. Monti, che il problema elettorale non ce l’ha, ha due strade: o gattopardescamente cambiare tutto perché nulla cambi, sperando che sia il contesto esterno a cambiare in modo favorevole (soluzione del problema greco e do ut des con Berlino); oppure riformare sul serio il Paese, ma per fare ciò dovrebbe intervenire sugli stock di debito e di spesa pubblica senza temporeggiare.
E’ ovvio che il messaggio “abbiamo fatto i nostri compiti a casa” sembra più funzionale alla prima strategia. Non si può negare che possa servire a strappare condizioni non troppo punitive per il nostro Paese, ma sarebbe un successo dalle gambe troppo corte. Ed è un messaggio pericoloso e inquietante sul fronte interno. Pericoloso perché convincersi, da parte delle forze politiche, e convincere l’opinione pubblica, che i nostri “compiti” si siano esauriti con la manovra quasi tutta tasse di dicembre e le timide liberalizzazioni della settimana scorsa può indebolire in modo decisivo la determinazione della politica ad implementare le riforme strutturali necessarie ad avvicinare la nostra competitività a quella tedesca e la propensione dei cittadini ad accettarle. Ce lo ha ricordato senza sconti la cancelliera tedesca Angela Merkel nell’intervista concessa a sei quotidiani europei (tra cui La Stampa) venerdì scorso. Mentre da noi è appena iniziata, con il piede sbagliato, la trattativa tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro, Merkel avverte: la riforma s’ha da fare, se vogliamo in cambio che l’Ue ci aiuti a far calare il costo del nostro debito. E d’altra parte, ricorda con una punta di malizia, «altri Paesi, la Germania o l’Europa dell’Est, ad esempio, hanno già alle loro spalle difficili riforme del mercato del lavoro». Per promuovere la crescita, osserva inoltre Merkel nell’intervista, ci sono modi diversi dai costosi pacchetti di spesa, che «non costano praticamente denaro»: più flessibilità nella legislazione sul lavoro; eliminare le «barriere» nelle professioni e nei servizi; «più privatizzazioni». Ecco servito chi rimprovera a Berlino di pensare solo all’austerity.
La realtà è ben diversa: l’Italia s’è appena seduta al suo banco e ha appena aperto il quaderno. Il governo Monti ha fatto molto, molto più di quanto non siano riusciti a fare i governi di centrodestra e di centrosinistra. Ha reintrodotto la tassa sulla prima casa, abolito le pensioni d’anzianità, in questo accontentando i tedeschi che hanno sempre malvisto – con qualche ragione – i privilegi degli italiani in questi due ambiti, e infine assunto la decisione dello scorporo tra Snam rete gas ed Eni (le altre misure sono di contorno e alcune nemmeno possono essere definite liberalizzazioni). Tuttavia, nell’emergenza, appena insediato, ha preferito inseguire il pareggio di bilancio a suon di tasse anziché di tagli alla spesa e la strategia complessiva sembra quella di ridurre il debito molto gradualmente, attraverso avanzi primari – che senza crescita potrebbero essere mantenuti solo con nuove tasse sempre più recessive – piuttosto che aggredendone lo stock; dunque di farsi riconoscere gli sforzi compiuti per ammorbidire il rigore tedesco, agire sul contesto esterno, quello europeo, più che su quello interno. Ma senza un piano di abbattimento di spesa pubblica e pressione fiscale di 10 punti di Pil in dieci anni, come ha fatto la Germania, non se ne esce.
Berlino ribadisce che discuterà di eurobond «solo quando l’Europa avrà raggiunto un’integrazione molto più profonda, non però come strumento per superare la crisi», perché significherebbe promettere più soldi senza combatterne le vere cause. Ammesso che i tedeschi prima o poi cedano, e ammorbidiscano la loro linea, e i mercati approvino, il rischio è di ritrovarci nel medio-lungo periodo con un euro più simile alla lira che al marco.
Friday, January 27, 2012
Monti ha due strade
La Germania verserà più soldi nell'ESM solo se gli altri Paesi faranno i "compiti a casa" (e noi siamo appena all'inizio); l'America darà più soldi al Fmi solo se l'Europa farà la sua parte. Insomma, nel suo anno elettorale Obama non può permettersi una crisi dell'euro e punta su Monti (come osserva oggi il Financial Times) per allargare i cordoni della borsa della Merkel, la quale a sua volta prossima alle elezioni deve far vedere ai tedeschi che non stanno pagando per i debiti altrui. Monti, che il problema elettorale non ce l'ha, ha due strade: o gattopardescamente cambiare tutto perché nulla cambi, sperando che sia il contesto esterno a cambiare in modo favorevole (soluzione del problema greco e do ut des con Berlino); oppure riformare sul serio il Paese, ma per fare ciò bisogna intervenire sugli stock di debito e di spesa pubblica senza temporeggiare.
Merkel non fa sconti, la riforma del lavoro s'ha da fare
Nell'intervista concessa a ben sei quotidiani europei (Le Monde, Suddeutsche Zeitung, El Paìs, The Guardian, Gazeta e l'italiano La Stampa) la cancelliera tedesca Angela Merkel non fa sconti, non solo sulle misure di austerity, per le quali il rigore tedesco è ormai noto, ma anche sulle riforme per la crescita e l'occupazione: «Altri Paesi, la Germania o l'Europa dell'Est, ad esempio, - fa notare sommessamente Merkel - hanno già alle loro spalle difficili riforme del mercato del lavoro». Un messaggio chiaro e sferzante agli altri Paesi, su tutti Spagna e Italia. Da noi è appena iniziata, con il piede sbagliato, la trattativa tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro. Una riforma che s'ha da fare, avverte la cancelliera tedesca, se vogliamo in cambio che la governance europea ci aiuti a far calare il costo del nostro debito.
Per promuovere la crescita ci sono modi diversi, spiega Merkel nell'intervista, che «non costano praticamente denaro», rispetto a costosi pacchetti di stimolo: «La legislazione sul lavoro deve diventare più flessibile soprattutto laddove vengono erette barriere troppo alte per i giovani. Non è accettabile che interi comparti professionali siano accessibili solo a un gruppo ristretto di persone. Il settore dei servizi può venire potenziato molto rapidamente. Abbiamo bisogno di più privatizzazione. Vi sono molte possibilità di allentare i freni alla crescita tramite riforme strutturali di questo genere». Avanti con liberalizzazioni e privatizzazioni, dunque.
La cancelliera tedesca ammette implicitamente che all'inizio la crisi è stata sottovalutata dalla leadership europea: si è pensato che «fossimo semplicemente solo le vittime dei cosiddetti speculatori». Poi «abbiamo scoperto le radici dei nostri problemi». «Nell'ultimo anno e mezzo, molti Paesi - riconosce - hanno compiuto sforzi incredibili e riforme dolorose, per le quali hanno tutta la mia stima. Penso che complessivamente abbiamo un buon equilibrio di solidarietà europea e responsabilità nazionale». Altro che speculatori, che nell'arco di minuti vendono e comprano, le preoccupazioni degli investitori sul futuro dell'Ue sono fondate: «E' evidente che i mercati testano la nostra volontà di coesione. Gli investitori di lungo periodo, che investono il denaro di tanta gente, vogliono sapere quale sarà la condizione dell'Europa fra venti anni. La Germania, con le sue trasformazioni demografiche, sarà ancora competitiva? Saremo aperti alle innovazioni?».
Angela Merkel ha parlato chiaramente anche sulla solidarietà tedesca che molti invocano: «Noi aiutiamo i nostri partner europei con l'aspettativa che loro stessi compiano tutti gli sforzi possibili per migliorare la loro situazione... questo è quanto facciamo con l'Esm». «Nessun Paese può farsi carico dei debiti dell'altro», ricorda citando i trattati europei. E poi «non ha senso - avverte - promettere sempre più soldi, senza combattere contro le cause della crisi». Anche perché «con tutti gli aiuti miliardari ed i meccanismi salva-Stati, noi in Germania dobbiamo fare attenzione che alla fine non vengano a mancare anche a noi le forze, perché neanche le nostre possibilità sono infinite, e questo non servirebbe a nessuno in Europa... sono gli altri Paesi - sottolinea infine la cancelliera tedesca - che devono aumentare di nuovo la loro competitività e non la Germania che deve diventare più debole».
Dunque, Merkel ribadisce che «gli eurobond non sono una soluzione», si potrà riflettere su una maggiore condivisione delle responsabilità «solo quando l'Europa avrà raggiunto un'integrazione molto più profonda, non però come strumento per superare la crisi». In questo senso la strada obbligata per la cancelliera è quella «dell'Unione politica»: «L'Europa è politica interna», conclude.
Per promuovere la crescita ci sono modi diversi, spiega Merkel nell'intervista, che «non costano praticamente denaro», rispetto a costosi pacchetti di stimolo: «La legislazione sul lavoro deve diventare più flessibile soprattutto laddove vengono erette barriere troppo alte per i giovani. Non è accettabile che interi comparti professionali siano accessibili solo a un gruppo ristretto di persone. Il settore dei servizi può venire potenziato molto rapidamente. Abbiamo bisogno di più privatizzazione. Vi sono molte possibilità di allentare i freni alla crescita tramite riforme strutturali di questo genere». Avanti con liberalizzazioni e privatizzazioni, dunque.
La cancelliera tedesca ammette implicitamente che all'inizio la crisi è stata sottovalutata dalla leadership europea: si è pensato che «fossimo semplicemente solo le vittime dei cosiddetti speculatori». Poi «abbiamo scoperto le radici dei nostri problemi». «Nell'ultimo anno e mezzo, molti Paesi - riconosce - hanno compiuto sforzi incredibili e riforme dolorose, per le quali hanno tutta la mia stima. Penso che complessivamente abbiamo un buon equilibrio di solidarietà europea e responsabilità nazionale». Altro che speculatori, che nell'arco di minuti vendono e comprano, le preoccupazioni degli investitori sul futuro dell'Ue sono fondate: «E' evidente che i mercati testano la nostra volontà di coesione. Gli investitori di lungo periodo, che investono il denaro di tanta gente, vogliono sapere quale sarà la condizione dell'Europa fra venti anni. La Germania, con le sue trasformazioni demografiche, sarà ancora competitiva? Saremo aperti alle innovazioni?».
Angela Merkel ha parlato chiaramente anche sulla solidarietà tedesca che molti invocano: «Noi aiutiamo i nostri partner europei con l'aspettativa che loro stessi compiano tutti gli sforzi possibili per migliorare la loro situazione... questo è quanto facciamo con l'Esm». «Nessun Paese può farsi carico dei debiti dell'altro», ricorda citando i trattati europei. E poi «non ha senso - avverte - promettere sempre più soldi, senza combattere contro le cause della crisi». Anche perché «con tutti gli aiuti miliardari ed i meccanismi salva-Stati, noi in Germania dobbiamo fare attenzione che alla fine non vengano a mancare anche a noi le forze, perché neanche le nostre possibilità sono infinite, e questo non servirebbe a nessuno in Europa... sono gli altri Paesi - sottolinea infine la cancelliera tedesca - che devono aumentare di nuovo la loro competitività e non la Germania che deve diventare più debole».
Dunque, Merkel ribadisce che «gli eurobond non sono una soluzione», si potrà riflettere su una maggiore condivisione delle responsabilità «solo quando l'Europa avrà raggiunto un'integrazione molto più profonda, non però come strumento per superare la crisi». In questo senso la strada obbligata per la cancelliera è quella «dell'Unione politica»: «L'Europa è politica interna», conclude.
Thursday, January 26, 2012
Meglio nessuna riforma che una cattiva riforma
Anche su Notapolitica
Tempo di primi bilanci. Il governo Monti ha fatto molto, molto più di quanto non siano riusciti a fare i governi di centrodestra e di centrosinistra: in soli due mesi ha praticamente abolito le pensioni d'anzianità, ha deciso lo scorporo tra Snam rete gas ed Eni (unica misura di peso del dl liberalizzazioni, per il resto deludente) e qualche sorpresa positiva potrebbe riservarla il dl semplificazione in esame oggi. Tuttavia, nell'emergenza, appena insediato, ha preferito inseguire il pareggio di bilancio a suon di tasse anziché di tagli alla spesa e la strategia complessiva sembra quella di ridurre il debito molto gradualmente, attraverso avanzi primari – che senza crescita potrebbero essere mantenuti solo con nuove e sempre più recessive tasse – piuttosto che aggredendone lo stock con un massiccio programma di dismissioni.
Un tema centrale per la crescita sarà in cima all'agenda del governo nelle prossime settimane: la riforma del mercato del lavoro, madre di tutte le liberalizzazioni. Nella lettera di intenti all'Ue il governo italiano si è impegnato ad attuare «entro maggio 2012 una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato», in ottemperenza a quanto chiesto dalla Bce nella lettera riservata di agosto: maggiore flessibilità in uscita a fronte di un sistema di assicurazione dalla disoccupazione diverso dalla cassa integrazione (che tra l'altro copre una minima parte dei lavoratori), che faciliti la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi.
La concertazione tra il ministro del lavoro Elsa Fornero e le parti sociali è partita col piede sbagliato e rischia di portarci nella direzione esattamente opposta – più rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica – ossia verso la Grecia. «L'unico risultato positivo dell'incontro – ha dichiarato il segretario Cisl Raffaele Bonanni – è stata la convergenza e le posizioni sostanzialmente comuni di tutti i sindacati e di tutte le associazioni datoriali. (...) Se tutte le parti sociali difendono l'attuale modello, che ha funzionato e funziona bene, non si capisce proprio perché bisognerebbe mettere tutto in discussione». Revisione dell'articolo18 e cancellazione della cassa integrazione straordinaria sono «temi fuori agenda», ha intimato Bersani. Le dichiarazioni degli industriali, in particolare della presidente Marcegaglia e di uno dei candidati alla successione, Giorgio Squinzi, sembrano dello stesso tenore. A chiedere la riforma, superando l'art. 18, addirittura «per decreto» è Maurizio Sacconi. Richiesta strumentale ad inguaiare il Pd e pulpito poco credibile, dal momento che da ministro del Welfare solo due anni fa, nel 2009, Sacconi teorizzava che «in tempo di crisi non possono essere all'ordine del giorno né riforme degli ammortizzatori sociali, né dell'articolo 18 né dellle pensioni». Insieme a Tremonti uno dei principali responsabili dell'immobilismo del precedente governo e della crisi d'identità del Pdl.
Sindacati e Confindustria mostrano quindi di volersi attestare su una linea di difesa dello status quo, confermandosi entrambi, al dunque, fattori di conservatorismo sociale ed economico. Nel presunto interesse dei loro iscritti, rischiano però di danneggiare l'intero Paese. Hanno il diritto di bloccare le riforme in un settore di cui si sentono attori esclusivi ma che di fatto ha un valore strategico per l'intera nazione? Oppure forse il governo ha il dovere di superare queste resistenze con le buone o con le cattive?
Se poi nemmeno il governo ha intenzione di toccare l'art. 18 e la cassa integrazione, allora sarebbe più onesto richiudere il capitolo e ammettere che non vogliamo ottemperare agli impegni assunti con l'Ue, che non vogliamo fare i cosiddetti "compiti a casa", che invece in tutte le occasioni il premier Monti e i suoi ministri, i partiti e i media spacciano per fatti.
Non c'è chiarezza su quale sia la base di partenza del governo e quale la sua linea del Piave. Qualsiasi concessione nel senso di maggiori rigidità rispetto al modello di flexsecurity proposto da Pietro Ichino (che supera sia l'art. 18 sia la cassa integrazione) sarebbe un fallimento, mentre il ddl Nerozzi, ispirato al progetto Boeri-Garibaldi, sarebbe il disastro: contratto unico con triennio d'inserimento, dopo di ché articolo 18 per tutti (anche sotto i 15 dipendenti). Sul fronte degli ammortizzatori sociali, la cassa integrazione andrebbe superata a favore di un sussidio di disoccupazione che tuteli il lavoratore, e non il posto di lavoro, favorendo quindi la sua riallocazione e una rapida ristrutturazione dell'azienda. E' il progetto Ichino a prevederlo, anche se forse troppo generosamente per entità dell'assegno e durata. Ben diverso sarebbe il reddito minimo garantito o di cittadinanza, che rischia di disincentivare l'occupazione, dando vita a forme di puro assistenzialismo e ad abusi di ogni tipo, e di dissestare le casse pubbliche.
Non esiste riforma del lavoro nella direzione auspicata dall'Ue e dalla Bce senza eliminare l'articolo 18 (nei licenzialmenti per motivi economici) e rivedere gli ammortizzatori sociali. Meglio nessuna riforma piuttosto che un annacquamento o, addirittura, una restaurazione di rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica, perché si chiuderebbe il capitolo per chissà quanti anni perdendo un'occasione forse irripetibile.
Tempo di primi bilanci. Il governo Monti ha fatto molto, molto più di quanto non siano riusciti a fare i governi di centrodestra e di centrosinistra: in soli due mesi ha praticamente abolito le pensioni d'anzianità, ha deciso lo scorporo tra Snam rete gas ed Eni (unica misura di peso del dl liberalizzazioni, per il resto deludente) e qualche sorpresa positiva potrebbe riservarla il dl semplificazione in esame oggi. Tuttavia, nell'emergenza, appena insediato, ha preferito inseguire il pareggio di bilancio a suon di tasse anziché di tagli alla spesa e la strategia complessiva sembra quella di ridurre il debito molto gradualmente, attraverso avanzi primari – che senza crescita potrebbero essere mantenuti solo con nuove e sempre più recessive tasse – piuttosto che aggredendone lo stock con un massiccio programma di dismissioni.
Un tema centrale per la crescita sarà in cima all'agenda del governo nelle prossime settimane: la riforma del mercato del lavoro, madre di tutte le liberalizzazioni. Nella lettera di intenti all'Ue il governo italiano si è impegnato ad attuare «entro maggio 2012 una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato», in ottemperenza a quanto chiesto dalla Bce nella lettera riservata di agosto: maggiore flessibilità in uscita a fronte di un sistema di assicurazione dalla disoccupazione diverso dalla cassa integrazione (che tra l'altro copre una minima parte dei lavoratori), che faciliti la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi.
La concertazione tra il ministro del lavoro Elsa Fornero e le parti sociali è partita col piede sbagliato e rischia di portarci nella direzione esattamente opposta – più rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica – ossia verso la Grecia. «L'unico risultato positivo dell'incontro – ha dichiarato il segretario Cisl Raffaele Bonanni – è stata la convergenza e le posizioni sostanzialmente comuni di tutti i sindacati e di tutte le associazioni datoriali. (...) Se tutte le parti sociali difendono l'attuale modello, che ha funzionato e funziona bene, non si capisce proprio perché bisognerebbe mettere tutto in discussione». Revisione dell'articolo18 e cancellazione della cassa integrazione straordinaria sono «temi fuori agenda», ha intimato Bersani. Le dichiarazioni degli industriali, in particolare della presidente Marcegaglia e di uno dei candidati alla successione, Giorgio Squinzi, sembrano dello stesso tenore. A chiedere la riforma, superando l'art. 18, addirittura «per decreto» è Maurizio Sacconi. Richiesta strumentale ad inguaiare il Pd e pulpito poco credibile, dal momento che da ministro del Welfare solo due anni fa, nel 2009, Sacconi teorizzava che «in tempo di crisi non possono essere all'ordine del giorno né riforme degli ammortizzatori sociali, né dell'articolo 18 né dellle pensioni». Insieme a Tremonti uno dei principali responsabili dell'immobilismo del precedente governo e della crisi d'identità del Pdl.
Sindacati e Confindustria mostrano quindi di volersi attestare su una linea di difesa dello status quo, confermandosi entrambi, al dunque, fattori di conservatorismo sociale ed economico. Nel presunto interesse dei loro iscritti, rischiano però di danneggiare l'intero Paese. Hanno il diritto di bloccare le riforme in un settore di cui si sentono attori esclusivi ma che di fatto ha un valore strategico per l'intera nazione? Oppure forse il governo ha il dovere di superare queste resistenze con le buone o con le cattive?
Se poi nemmeno il governo ha intenzione di toccare l'art. 18 e la cassa integrazione, allora sarebbe più onesto richiudere il capitolo e ammettere che non vogliamo ottemperare agli impegni assunti con l'Ue, che non vogliamo fare i cosiddetti "compiti a casa", che invece in tutte le occasioni il premier Monti e i suoi ministri, i partiti e i media spacciano per fatti.
Non c'è chiarezza su quale sia la base di partenza del governo e quale la sua linea del Piave. Qualsiasi concessione nel senso di maggiori rigidità rispetto al modello di flexsecurity proposto da Pietro Ichino (che supera sia l'art. 18 sia la cassa integrazione) sarebbe un fallimento, mentre il ddl Nerozzi, ispirato al progetto Boeri-Garibaldi, sarebbe il disastro: contratto unico con triennio d'inserimento, dopo di ché articolo 18 per tutti (anche sotto i 15 dipendenti). Sul fronte degli ammortizzatori sociali, la cassa integrazione andrebbe superata a favore di un sussidio di disoccupazione che tuteli il lavoratore, e non il posto di lavoro, favorendo quindi la sua riallocazione e una rapida ristrutturazione dell'azienda. E' il progetto Ichino a prevederlo, anche se forse troppo generosamente per entità dell'assegno e durata. Ben diverso sarebbe il reddito minimo garantito o di cittadinanza, che rischia di disincentivare l'occupazione, dando vita a forme di puro assistenzialismo e ad abusi di ogni tipo, e di dissestare le casse pubbliche.
Non esiste riforma del lavoro nella direzione auspicata dall'Ue e dalla Bce senza eliminare l'articolo 18 (nei licenzialmenti per motivi economici) e rivedere gli ammortizzatori sociali. Meglio nessuna riforma piuttosto che un annacquamento o, addirittura, una restaurazione di rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica, perché si chiuderebbe il capitolo per chissà quanti anni perdendo un'occasione forse irripetibile.
Tuesday, January 24, 2012
Sfigati e truffati
Anche su Notapolitica
Può essere stata una battuta infelice, ma non fingiamo di non capire cosa volesse dire il viceministro Michel Martone solo per amor di polemica o di battuta, non giochiamo a equivocare su temi così importanti. E facciamo attenzione a non cadere vittime della cattiva informazione di agenzie e siti internet che estrapolano singole frasi ad effetto guardandosi bene dal riportare i ragionamenti in cui sono inserite.
Il tema posto da Martone è quello dei tempi di laurea, dei troppi studenti indolenti "parcheggiati" negli atenei e della truffa dell'università per tutti. «Se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato. Bisogna dare messaggi chiari ai giovani». Ecco, forse il giovane professore – uno dei pochi figli di papà bene introdotti che è anche competente – ha sbagliato a non mandare un messaggio chiaro anche al mondo accademico e alla politica. L'età media dei laureati italiani è drammaticamente più alta rispetto a quella dei giovani europei e americani, un clamoroso svantaggio competitivo, e ciò deriva in parte dalla pigrizia di molti studenti, ma principalmente da un'idea totalmente sbagliata che abbiamo in Italia dell'istruzione universitaria.
Gli studenti che per un motivo o per l'altro finiscono per vivere l'università come un parcheggio sono molti, è innegabile, forse addirittura la maggioranza degli iscritti. C'è il figlio di papà che non ha alcuna fretta di laurearsi perché gode di un'ampia disponibilità economica e sa di poter contare su un futuro certo, o nel settore pubblico grazie alle conoscenze dei genitori, o seguendo la loro strada nell'impresa o nella professione di famiglia. Può dunque attardarsi e godersi la bella vita da universitario. Più preoccupante è il caso dei milioni di giovani che senza avere tali opportunità vengono letteralmente ingannati dall'ideologia dominante. Il mito dell'università per tutti, gratis o quasi, porta il figlio dell'operaio o dell'impiegato, e soprattutto la sua famiglia, a ritenere la laurea uno sbocco quasi obbligato, e il pezzo di carta, non importa se conseguito a 25 o 30 anni, ciò che serve per garantirsi uno status sociale più elevato di quello di partenza.
Così dovrebbe essere, in effetti, ma non è. Proprio per come è concepita e quindi organizzata l'università italiana, quel pezzo di carta vale quasi zero nel mercato del lavoro, quello aperto e competitivo dove si ritroverà chi non ha la strada spianata dalle conoscenze e/o imprese di famiglia. Il giovane o meno giovane laureato scopre che il suo primo impiego non corrisponde – né per reddito né per qualifica – al livello dell'istruzione ricevuta, o che presume di aver ricevuto, o addirittura fatica a trovarlo, mentre suoi coetanei non laureati, o laureati in altri Paesi, hanno nel frattempo accumulato esperienze e reddito. Ed ecco che comincia ad avvertire la sensazione di aver perso tempo e che cominciano a emergere i costi nascosti: a fronte di rette molto contenute (ma di costi enormi scaricati sulla fiscalità generale), un titolo di scarso valore e anni e anni di mancato reddito.
Laurearsi ha senso se ci si riesce in tempi relativamente brevi e se il titolo apre la strada ad un percorso lavorativo altamente qualificato e remunerato. Ma proprio perché ci si illude che l'università sia un diritto da garantire a tutti (in entrata), non è organizzata a tale scopo: né nella didattica, né nelle strutture, né dal punto di vista dello status giuridico e dei sistemi di finanziamento, che, anzi, generano inefficienze, sprechi e illusioni. E inseguendo questo mito abbiamo colpevolmente trascurato (anzitutto culturalmente) l'istruzione tecnica e professionale. Un sistema universitario onesto è quello che o ti fa laureare in tempi brevi, offrendo una preparazione di qualità e spendibile, o ti costringe a percorrere altre strade, che non sono affatto un disonore.
Può sembrare brutale, ma certo le rette di oggi non trasmettono il senso dell'urgenza agli studenti e alle loro famiglie e forniscono agli atenei un alibi implicito per la scarsa qualità dell'offerta formativa. Il modo di aiutare lo studente non abbiente e meritevole c'è, ma quello che ci siamo illusi di aver trovato in Italia è solo una truffa. E' un sistema che non può essere riformato, va smantellato.
Può essere stata una battuta infelice, ma non fingiamo di non capire cosa volesse dire il viceministro Michel Martone solo per amor di polemica o di battuta, non giochiamo a equivocare su temi così importanti. E facciamo attenzione a non cadere vittime della cattiva informazione di agenzie e siti internet che estrapolano singole frasi ad effetto guardandosi bene dal riportare i ragionamenti in cui sono inserite.
Il tema posto da Martone è quello dei tempi di laurea, dei troppi studenti indolenti "parcheggiati" negli atenei e della truffa dell'università per tutti. «Se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato. Bisogna dare messaggi chiari ai giovani». Ecco, forse il giovane professore – uno dei pochi figli di papà bene introdotti che è anche competente – ha sbagliato a non mandare un messaggio chiaro anche al mondo accademico e alla politica. L'età media dei laureati italiani è drammaticamente più alta rispetto a quella dei giovani europei e americani, un clamoroso svantaggio competitivo, e ciò deriva in parte dalla pigrizia di molti studenti, ma principalmente da un'idea totalmente sbagliata che abbiamo in Italia dell'istruzione universitaria.
Gli studenti che per un motivo o per l'altro finiscono per vivere l'università come un parcheggio sono molti, è innegabile, forse addirittura la maggioranza degli iscritti. C'è il figlio di papà che non ha alcuna fretta di laurearsi perché gode di un'ampia disponibilità economica e sa di poter contare su un futuro certo, o nel settore pubblico grazie alle conoscenze dei genitori, o seguendo la loro strada nell'impresa o nella professione di famiglia. Può dunque attardarsi e godersi la bella vita da universitario. Più preoccupante è il caso dei milioni di giovani che senza avere tali opportunità vengono letteralmente ingannati dall'ideologia dominante. Il mito dell'università per tutti, gratis o quasi, porta il figlio dell'operaio o dell'impiegato, e soprattutto la sua famiglia, a ritenere la laurea uno sbocco quasi obbligato, e il pezzo di carta, non importa se conseguito a 25 o 30 anni, ciò che serve per garantirsi uno status sociale più elevato di quello di partenza.
Così dovrebbe essere, in effetti, ma non è. Proprio per come è concepita e quindi organizzata l'università italiana, quel pezzo di carta vale quasi zero nel mercato del lavoro, quello aperto e competitivo dove si ritroverà chi non ha la strada spianata dalle conoscenze e/o imprese di famiglia. Il giovane o meno giovane laureato scopre che il suo primo impiego non corrisponde – né per reddito né per qualifica – al livello dell'istruzione ricevuta, o che presume di aver ricevuto, o addirittura fatica a trovarlo, mentre suoi coetanei non laureati, o laureati in altri Paesi, hanno nel frattempo accumulato esperienze e reddito. Ed ecco che comincia ad avvertire la sensazione di aver perso tempo e che cominciano a emergere i costi nascosti: a fronte di rette molto contenute (ma di costi enormi scaricati sulla fiscalità generale), un titolo di scarso valore e anni e anni di mancato reddito.
Laurearsi ha senso se ci si riesce in tempi relativamente brevi e se il titolo apre la strada ad un percorso lavorativo altamente qualificato e remunerato. Ma proprio perché ci si illude che l'università sia un diritto da garantire a tutti (in entrata), non è organizzata a tale scopo: né nella didattica, né nelle strutture, né dal punto di vista dello status giuridico e dei sistemi di finanziamento, che, anzi, generano inefficienze, sprechi e illusioni. E inseguendo questo mito abbiamo colpevolmente trascurato (anzitutto culturalmente) l'istruzione tecnica e professionale. Un sistema universitario onesto è quello che o ti fa laureare in tempi brevi, offrendo una preparazione di qualità e spendibile, o ti costringe a percorrere altre strade, che non sono affatto un disonore.
Può sembrare brutale, ma certo le rette di oggi non trasmettono il senso dell'urgenza agli studenti e alle loro famiglie e forniscono agli atenei un alibi implicito per la scarsa qualità dell'offerta formativa. Il modo di aiutare lo studente non abbiente e meritevole c'è, ma quello che ci siamo illusi di aver trovato in Italia è solo una truffa. E' un sistema che non può essere riformato, va smantellato.
Monday, January 23, 2012
Un 6- alle liberalizzazioni di Monti
Anche su Notapolitica
Ad una attenta lettura, al netto delle prime impressioni – influenzate positivamente dalla sua ampiezza e dal vantaggio comunicativo di cui ha goduto essendo licenziato nella serata di venerdì, per cui la copertura mediatica è stata fin da subito sapientemente orientata dalla conferenza stampa al termine del Cdm e dalle apparizioni di Monti in tv (8 e mezzo e In Mezz'ora) – il dl liberalizzazioni ottiene a stento la sufficienza (un 6-), cui arriva grazie allo scorporo della rete gas da Eni, mentre su tutto il resto è largamente insufficiente. Corposo sì, e un punto di merito è senz'altro l'essere stati capaci di toccare nello stesso provvedimento una pluralità di categorie, ma sulla sua reale incisività, e in molti settori persino sulla sua natura liberalizzatrice, permangono forti dubbi. Il voto complessivo però vira al negativo o al positivo in funzione dei parametri di giudizio cui ci si attiene. Due, in particolare, portano ad esiti antitetici ma egualmente fondati.
Si può fondatamente argomentare, come fanno Alesina e Giavazzi sul Corriere, che «il governo Monti ha fatto in due mesi ciò che i precedenti governi non avevano fatto dall'introduzione dell'euro». E dunque, se questo è il metro di giudizio, l'operato dei precedenti governi, il dl non può che essere promosso a pieni voti. Troppo facile, obietterebbe qualcuno, fare meglio dei precedessori, le cui performance sono state così gravemente insufficienti. Se invece i metri di giudizio sono la gravità della situazione, il grado di cambiamento, di shock sistemico, di cui l'Italia ha bisogno, e il contesto politico (un governo senza il problema dei consensi e di scadenze elettorali, con il sostegno "politico" del capo dello Stato e della grande stampa, e i partiti alle corde) allora viriamo nell'area dell'insufficienza.
Il difetto principale è nell'impostazione della maggior parte degli interventi. L'intenzione è di promuovere la concorrenza, e attraverso di essa migliorare i servizi abbassandone i costi e aprire ai giovani, ma l'obiettivo viene perseguito a colpi di dirigismo molto più che di vere liberalizzazioni. Di stampo dirigista, per esempio, l'ampliamento "ope legis" delle piante organiche di farmacie e notai, nella presunzione che il numero ottimale di operatori sul mercato per favorire la concorrenza possa essere pianificato dal regolatore. Anche nella moltiplicazione delle authority e nella costituenda Autorità delle Reti, che alle competenze sull'energia e il gas somma quelle su acqua e trasporti, si tocca con mano l'attitudine alla regolazione e alla pianificazione in ogni settore dei servizi. E' forte il rischio – soprattutto nell'accentramento di competenze così eterogenee – di una ulteriore burocratizzazione, di una sorta di ministero parallelo, o peggio ombra. Nelle intenzioni del governo l'obiettivo è chiaramente quello di spoliticizzare alcune questioni spinose demandandole alle authority, ma non è affatto automatico che non resteranno prigioniere di lobbies e partiti, semplicemente più lontano dai riflettori.
Se la concorrenza viene promossa – giustamente – a principio guida sia del dl che della comunicazione del premier, è invece assente una chiara scelta politica e culturale in favore della libertà e della deregulation. Sembra prevalere una logica di contrattazioni separate con i colossi pubblici e le singole lobbies, che porta a risultati difformi da settore a settore e ad uno sforzo piuttosto di ri-regulation (che speriamo non si traduca in over-regulation). Non si rinuncia, insomma, al principio che debba essere lo Stato a programmare l'offerta, anche se da parte di privati, di un certo bene o servizio; e a programmare anche il "quantum" di concorrenza in ciascun settore.
Ad una attenta lettura, al netto delle prime impressioni – influenzate positivamente dalla sua ampiezza e dal vantaggio comunicativo di cui ha goduto essendo licenziato nella serata di venerdì, per cui la copertura mediatica è stata fin da subito sapientemente orientata dalla conferenza stampa al termine del Cdm e dalle apparizioni di Monti in tv (8 e mezzo e In Mezz'ora) – il dl liberalizzazioni ottiene a stento la sufficienza (un 6-), cui arriva grazie allo scorporo della rete gas da Eni, mentre su tutto il resto è largamente insufficiente. Corposo sì, e un punto di merito è senz'altro l'essere stati capaci di toccare nello stesso provvedimento una pluralità di categorie, ma sulla sua reale incisività, e in molti settori persino sulla sua natura liberalizzatrice, permangono forti dubbi. Il voto complessivo però vira al negativo o al positivo in funzione dei parametri di giudizio cui ci si attiene. Due, in particolare, portano ad esiti antitetici ma egualmente fondati.
Si può fondatamente argomentare, come fanno Alesina e Giavazzi sul Corriere, che «il governo Monti ha fatto in due mesi ciò che i precedenti governi non avevano fatto dall'introduzione dell'euro». E dunque, se questo è il metro di giudizio, l'operato dei precedenti governi, il dl non può che essere promosso a pieni voti. Troppo facile, obietterebbe qualcuno, fare meglio dei precedessori, le cui performance sono state così gravemente insufficienti. Se invece i metri di giudizio sono la gravità della situazione, il grado di cambiamento, di shock sistemico, di cui l'Italia ha bisogno, e il contesto politico (un governo senza il problema dei consensi e di scadenze elettorali, con il sostegno "politico" del capo dello Stato e della grande stampa, e i partiti alle corde) allora viriamo nell'area dell'insufficienza.
Il difetto principale è nell'impostazione della maggior parte degli interventi. L'intenzione è di promuovere la concorrenza, e attraverso di essa migliorare i servizi abbassandone i costi e aprire ai giovani, ma l'obiettivo viene perseguito a colpi di dirigismo molto più che di vere liberalizzazioni. Di stampo dirigista, per esempio, l'ampliamento "ope legis" delle piante organiche di farmacie e notai, nella presunzione che il numero ottimale di operatori sul mercato per favorire la concorrenza possa essere pianificato dal regolatore. Anche nella moltiplicazione delle authority e nella costituenda Autorità delle Reti, che alle competenze sull'energia e il gas somma quelle su acqua e trasporti, si tocca con mano l'attitudine alla regolazione e alla pianificazione in ogni settore dei servizi. E' forte il rischio – soprattutto nell'accentramento di competenze così eterogenee – di una ulteriore burocratizzazione, di una sorta di ministero parallelo, o peggio ombra. Nelle intenzioni del governo l'obiettivo è chiaramente quello di spoliticizzare alcune questioni spinose demandandole alle authority, ma non è affatto automatico che non resteranno prigioniere di lobbies e partiti, semplicemente più lontano dai riflettori.
Se la concorrenza viene promossa – giustamente – a principio guida sia del dl che della comunicazione del premier, è invece assente una chiara scelta politica e culturale in favore della libertà e della deregulation. Sembra prevalere una logica di contrattazioni separate con i colossi pubblici e le singole lobbies, che porta a risultati difformi da settore a settore e ad uno sforzo piuttosto di ri-regulation (che speriamo non si traduca in over-regulation). Non si rinuncia, insomma, al principio che debba essere lo Stato a programmare l'offerta, anche se da parte di privati, di un certo bene o servizio; e a programmare anche il "quantum" di concorrenza in ciascun settore.
La separazione di Snam rete gas
da Eni entro i prossimi sei mesi (anche se l'intero processo durerà
molto di più, quindi bisognerà vigilare sulla
irreversibilità della scelta) è la portata principale,
probabilmente quella che nella sua recente visita a Londra il premier
Monti ha anticipato agli operatori della più importante piazza
finanziaria europea. Intorno un pulviscolo di snack più o meno
appetitosi, alcuni indigesti. Altri due colossi pubblici, Ferrovie e
Poste, non vengono sfiorati. Positiva la stretta sugli affidamenti in
house dei servizi pubblici locali (possibili fino ad un valore
economico di 200 mila euro anziché di 900 mila), ma pur sempre
nel solco del decreto Ronchi. Viene infatti lasciata aperta per gli
enti locali la possibilità di derogare al regime di gare ad
evidenza pubblica, previo parere dell'Antitrust, obbligatorio ma non
vincolante. Il rischio è l'aumento del contenzioso e la
riapertura di guerre ideologiche sul concetto di bene e servizio
pubblico. Si promuove inoltre la fusione tra società,
garantendo per cinque anni l'affidamento diretto, nella speranza che
si producano economie di scala, anche qui con la presunzione che sia
il regolatore e non il mercato a conoscere quale sia la dimensione
aziendale ottimale.
Insufficienti le norme sulle
professioni. C'è l'abolizione dei tariffari, c'è
l'obbligo di preventivo, che dovrebbero favorire il passaggio dagli
onorari a tempo ad altri schemi remunerativi, ma manca un vero e
proprio abbattimento delle barriere legali e non che intralciano
l'ingresso di nuovi attori nel mercato. Non c'è una
liberalizzazione del regime ordinistico, con il passaggio ad un
sistema di libere associazioni (con riconoscimento pubblico ma che
non operino in monopolio). La durata massima del tirocinio per
l'accesso alle professioni viene ridotta a 18 mesi e i primi sei
potranno essere svolti all'interno delle università, ma solo a
seguito di apposite convenzioni con gli ordini professionali. Si
pianifica il numero di notai che dovrebbe garantire un
sufficiente grado di concorrenza, ma non si riducono i casi in cui
sono obbligatorie le loro prestazioni, né viene messa in
discussione la loro esclusiva in funzioni che potrebbero essere
svolte anche da avvocati e commercialisti. Anche delle farmacie
si pretende di conoscere il numero ottimale, continuando quindi a
negare il diritto al farmacista abilitato di avviare liberamente un
suo esercizio. Liberalizzati turni e orari, ma la remunerazione del
farmacista resta proporzionale al prezzo del farmaco, il che non
sembra un incentivo a praticare sconti.
Patetici i dietrofront su farmaci di
fascia C e liberalizzazione dei saldi, mentre si rinvia il nodo dei
taxi. Sul numero e il rilascio delle licenze in ciascuna città
decide l'Autorità delle Reti, sentiti Comuni e tassisti. Si
prevede una maggiore flessibilità delle tariffe, fermi
restando i limiti massimi, e l'extraterritorialità, sebbene
con il consenso dei sindaci interessati, ma viene escluso il cumulo
delle licenze con l'intento dichiarato di impedire attività di
impresa. Di natura dirigista anche gli interventi su banche
(conto corrente base e commissioni sui prelievi bancomat fissate per
legge) e assicurazioni (non abolito il rapporto di esclusiva
degli agenti, che però per la Rc auto hanno l'obbligo di
presentare le proposte di due concorrenti). Cancellata la
liberalizzazione delle attività di prospezione e ricerca di
idrocarburi, nel decreto c'è un discreto sforzo per rendere
più efficiente la distribuzione dei caburanti: rimossi
i vincoli al self service pre-pay anche durante gli orari di
apertura, ma solo per gli impianti al di fuori dei centri abitati;
liberalizzata la vendita di prodotti non oil; superamento dei vincoli
di esclusiva, solo per le pompe di proprietà del gestore.
Manca la madre di tutte le
liberalizzazioni, quella del mercato del lavoro. Qui la scelta
del governo è stata fin dall'inizio quella di stralciarla, per
poterla trattare separatamente con i sindacati e associarla ad una
riforma degli ammortizzatori sociali. Il rischio – avvalorato dalle
voci secondo cui il tema dell'art. 18 sarebbe ormai fuori agenda e lo
schema Boeri-Garibaldi, tradotto in proposta di legge da Paolo
Nerozzi, senatore Pd ex Cgil, quello destinato a prevalere – è
che l'esito della concertazione porti ad una restaurazione di
rigidità piuttosto che ad una maggiore flessibilità.
Dal punto di vista strettamente
politico, se il punto di partenza del pacchetto liberalizzazioni non
è particolarmente ambizioso, possiamo immaginarci cosa accadrà
nei due mesi che ancora ci separano dalla conversione in legge del
dl. Due mesi di negoziazioni selvagge in Parlamento con le varie
lobbies, con l'alto rischio di ulteriori compromessi al ribasso.
Inquieta anche una certa tendenza all'autocompiacimento e
all'esagerazione del governo dei tecnici, che credevamo peculiarità
di quelli politici. In particolare, che queste misure possano far
crescere il Pil dell'11% nell'arco dei prossimi anni è una
grossa sparata propagandistica che non sarebbe stata perdonata a un
governo politico, e il segnale che anche per i tecnici l'arte di
vendere supera la qualità del prodotto venduto. Quell'11% è
il risultato di studi autorevoli, che ipotizzavano però
riforme di tutt'altra portata. Come ha sottolineato Alberto Mingardi,
dell'Istituto Bruno Leoni, il principale pericolo adesso è che
il capitolo liberalizzazioni possa ritenersi chiuso, tornare nel
cassetto e restarci a lungo, mentre l'inefficacia delle misure prese
rispetto alle aspettative suscitate non farà altro che
alimentare la sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti del
mercato e della concorrenza.
Thursday, January 19, 2012
Lo scoglio Merkel sulla rotta di Monti
«Non chiediamo nulla alla Germania», ha chiarito il premier Mario Monti rispondendo ad una domanda durante la conferenza stampa congiunta con il primo ministro britannico David Cameron. «Ciò che un Paese come l'Italia non chiede a nessuno, ma si sforza di contribuire a identificare come soluzione e a mettere in opera con altri - e certamente il ruolo della Germania è di particolare preminenza - è di migliorare la governance Ue», dal punto di vista della disciplina fiscale, delle politiche per la crescita, ma anche dei cosiddetti «firewalls» per mettere i Paesi dell'Eurozona, soprattutto quelli alla periferia, al riparo dalle tensioni dei mercati.
Diplomaticamente si rivolge «alla leadership europea, e non alla cancelliera tedesca», ma è proprio nei termini di una richiesta di scambio rivolta a Berlino che Monti si era espresso in un'intervista, pubblicata integralmente ieri, al Financial Times: «Non dirò mai agli italiani che sto chiedendo loro enormi sacrifici perché la Germania, o la Bce, o l'Ue ce li chiedono. Sarebbe sleale, e sono convinto che è per il bene delle future generazioni di italiani. Ma dal momento che il Paese si avvicina ad un assetto che è quello che l'Europa vuole che ciascun Paese abbia, ci deve essere un visibile miglioramento da qualche altra parte. In un Paese come l'Italia oggi, "qualche altra parte" può significare solo i tassi di interesse» (sui titoli di Stato).
Insomma, l'Italia si impegna a fare i suoi "compiti a casa", ma in cambio chiede che la Germania la aiuti ad abbassare il costo del debito pubblico, ammorbidendo la sua linea rigorista, che prenderà forma nel cosiddetto fiscal compact, e che rischia di essere troppo recessiva, e mettendo la sua solidità di bilancio a garanzia dei debiti sovrani Ue, accrescendo il fondo salva-Stati europeo o magari impegnandosi sui cosiddetti "eurobonds". Altrimenti? Altrimenti, ha fatto capire Monti, ci sarebbe un violento contraccolpo nell'opinione pubblica che rischierebbe di interrompere il processo di riforme. Chiamatelo un sobrio avvertimento.
Nonostante il doppio declassamento, l'analisi di Standard & Poor's, puntando l'indice sull'inadeguatezza della governance europea e riconoscendo che «la gestione politica interna della crisi è notevolmente migliorata in Italia», ha offerto una sponda politica che Monti ha subito giocato nei confronti della Merkel, di fatto invitandola a non comportarsi con la "nave Europa" come il comandante Schettino con la Costa Concordia. Tuttavia, se molte critiche possono essere mosse a Merkozy per la gestione della crisi, non è certo Berlino che impedisce agli altri Stati di accompagnare il rigore con riforme strutturali pro-crescita, o di conseguire il pareggio di bilancio tagliando la spesa pubblica improduttiva invece che a suon di tasse, che hanno effetti ben più recessivi.
Un altro tassello che ci aiuta a comprendere la tattica di Monti. Probabilmente il professore contava che una manovra feroce, quasi tutta tasse, ma che elimina due dei privilegi italiani più odiosi agli occhi dei tedeschi (detassazione della casa e pensioni d'anzianità) e la sua autorevolezza personale, bastassero a ottenere uno sconto sul nostro debito pubblico. Come avevamo già osservato, se è un tentativo per farci rifiatare, per comprare il tempo necessario a realizzare le riforme di struttura, dello Stato e dell'economia italiana, allora si tratta di una tattica pericolosa ma che può tradursi in una strategia vincente nel medio periodo. Se invece è un modo per evitare di metter mano davvero al sistema-Italia, sperando che con il tempo la Merkel ceda e gli squilibri vengano assorbiti nel calderone europeo, allora stiamo irresponsabilmente scherzando con il fuoco e il rischio - ammesso e non concesso di convincere i tedeschi, ma soprattutto i mercati, e di evitare la fine della Grecia - è che fra un paio d'anni l'euro, se ci sarà ancora, somigli più alla lira che al marco.
E' quindi una manovra molto pericolosa quella che sta compiendo il comandante Monti. E non solo perché sulla sua rotta ha trovato lo scoglio Merkel, dalla quale continuano ad arrivare dei no. «Sono ancora alla ricerca di quello che precisamente noi dovremmo fare di più», ha commentato infastidita la cancelliera, smentendo tra l'altro che Monti abbia avanzato richieste, e dicendosi convinta che l'Italia con le sue riforme riuscirà a convincere i mercati. Ma anche perché, se è insidioso che i sacrifici degli italiani non vengano ricompensati da politiche europee che portino ad un alleggerimento della pressione sul nostro debito, è altrettanto insidioso che si convincano gli italiani che con l'ultima manovra abbiamo già fatto i nostri "compiti a casa". Eppure, è proprio questa la musica che i nostri mainstream media, guidati dal direttore d'orchestra Monti, stanno suonando sul piroscafo Italia: "Abbiamo fatto i nostri compiti a casa, adesso ci aiutino".
La realtà è ben diversa: ci siamo appena seduti alla scrivania e abbiamo aperto i quaderni. Persistono infatti i rischi per gli obiettivi di bilancio, dal momento che con i pesanti effetti recessivi di una manovra tutta tasse, e senza ancora riforme per la crescita, le quali comunque svilupperanno i loro effetti benefici solo nel medio termine, il calo del Pil quest'anno sarà molto peggiore di quello previsto (-2% e non -0,5), allontanando di nuovo l'azzeramento del deficit nel 2013; il governo non sembra avere alcuna intenzione di intaccare lo stock di debito attraverso le dismissioni, nemmeno di mattone statale; né al momento appaiono sgombrate le incertezze sull'attuazione di misure a favore della crescita, visto che siamo sotto schiaffo dei tassisti e i sindacati pare siano riusciti a far uscire l'art. 18 dall'agenda del governo. Insomma, c'è poco o nulla nell'attuale quadro politico italiano che renda ottimisti sulle riforme pro-crescita. Anzi, c'è il rischio concreto, con un'operazione di puro maquillage, misure per lo più cosmetiche, che l'ascia delle liberalizzazioni venga di nuovo sotterrata per anni.
Diplomaticamente si rivolge «alla leadership europea, e non alla cancelliera tedesca», ma è proprio nei termini di una richiesta di scambio rivolta a Berlino che Monti si era espresso in un'intervista, pubblicata integralmente ieri, al Financial Times: «Non dirò mai agli italiani che sto chiedendo loro enormi sacrifici perché la Germania, o la Bce, o l'Ue ce li chiedono. Sarebbe sleale, e sono convinto che è per il bene delle future generazioni di italiani. Ma dal momento che il Paese si avvicina ad un assetto che è quello che l'Europa vuole che ciascun Paese abbia, ci deve essere un visibile miglioramento da qualche altra parte. In un Paese come l'Italia oggi, "qualche altra parte" può significare solo i tassi di interesse» (sui titoli di Stato).
Insomma, l'Italia si impegna a fare i suoi "compiti a casa", ma in cambio chiede che la Germania la aiuti ad abbassare il costo del debito pubblico, ammorbidendo la sua linea rigorista, che prenderà forma nel cosiddetto fiscal compact, e che rischia di essere troppo recessiva, e mettendo la sua solidità di bilancio a garanzia dei debiti sovrani Ue, accrescendo il fondo salva-Stati europeo o magari impegnandosi sui cosiddetti "eurobonds". Altrimenti? Altrimenti, ha fatto capire Monti, ci sarebbe un violento contraccolpo nell'opinione pubblica che rischierebbe di interrompere il processo di riforme. Chiamatelo un sobrio avvertimento.
Nonostante il doppio declassamento, l'analisi di Standard & Poor's, puntando l'indice sull'inadeguatezza della governance europea e riconoscendo che «la gestione politica interna della crisi è notevolmente migliorata in Italia», ha offerto una sponda politica che Monti ha subito giocato nei confronti della Merkel, di fatto invitandola a non comportarsi con la "nave Europa" come il comandante Schettino con la Costa Concordia. Tuttavia, se molte critiche possono essere mosse a Merkozy per la gestione della crisi, non è certo Berlino che impedisce agli altri Stati di accompagnare il rigore con riforme strutturali pro-crescita, o di conseguire il pareggio di bilancio tagliando la spesa pubblica improduttiva invece che a suon di tasse, che hanno effetti ben più recessivi.
Un altro tassello che ci aiuta a comprendere la tattica di Monti. Probabilmente il professore contava che una manovra feroce, quasi tutta tasse, ma che elimina due dei privilegi italiani più odiosi agli occhi dei tedeschi (detassazione della casa e pensioni d'anzianità) e la sua autorevolezza personale, bastassero a ottenere uno sconto sul nostro debito pubblico. Come avevamo già osservato, se è un tentativo per farci rifiatare, per comprare il tempo necessario a realizzare le riforme di struttura, dello Stato e dell'economia italiana, allora si tratta di una tattica pericolosa ma che può tradursi in una strategia vincente nel medio periodo. Se invece è un modo per evitare di metter mano davvero al sistema-Italia, sperando che con il tempo la Merkel ceda e gli squilibri vengano assorbiti nel calderone europeo, allora stiamo irresponsabilmente scherzando con il fuoco e il rischio - ammesso e non concesso di convincere i tedeschi, ma soprattutto i mercati, e di evitare la fine della Grecia - è che fra un paio d'anni l'euro, se ci sarà ancora, somigli più alla lira che al marco.
E' quindi una manovra molto pericolosa quella che sta compiendo il comandante Monti. E non solo perché sulla sua rotta ha trovato lo scoglio Merkel, dalla quale continuano ad arrivare dei no. «Sono ancora alla ricerca di quello che precisamente noi dovremmo fare di più», ha commentato infastidita la cancelliera, smentendo tra l'altro che Monti abbia avanzato richieste, e dicendosi convinta che l'Italia con le sue riforme riuscirà a convincere i mercati. Ma anche perché, se è insidioso che i sacrifici degli italiani non vengano ricompensati da politiche europee che portino ad un alleggerimento della pressione sul nostro debito, è altrettanto insidioso che si convincano gli italiani che con l'ultima manovra abbiamo già fatto i nostri "compiti a casa". Eppure, è proprio questa la musica che i nostri mainstream media, guidati dal direttore d'orchestra Monti, stanno suonando sul piroscafo Italia: "Abbiamo fatto i nostri compiti a casa, adesso ci aiutino".
La realtà è ben diversa: ci siamo appena seduti alla scrivania e abbiamo aperto i quaderni. Persistono infatti i rischi per gli obiettivi di bilancio, dal momento che con i pesanti effetti recessivi di una manovra tutta tasse, e senza ancora riforme per la crescita, le quali comunque svilupperanno i loro effetti benefici solo nel medio termine, il calo del Pil quest'anno sarà molto peggiore di quello previsto (-2% e non -0,5), allontanando di nuovo l'azzeramento del deficit nel 2013; il governo non sembra avere alcuna intenzione di intaccare lo stock di debito attraverso le dismissioni, nemmeno di mattone statale; né al momento appaiono sgombrate le incertezze sull'attuazione di misure a favore della crescita, visto che siamo sotto schiaffo dei tassisti e i sindacati pare siano riusciti a far uscire l'art. 18 dall'agenda del governo. Insomma, c'è poco o nulla nell'attuale quadro politico italiano che renda ottimisti sulle riforme pro-crescita. Anzi, c'è il rischio concreto, con un'operazione di puro maquillage, misure per lo più cosmetiche, che l'ascia delle liberalizzazioni venga di nuovo sotterrata per anni.
Monday, January 16, 2012
L'Italia in serie B e la caccia ai fantasmi
Anche su Notapolitica
Un Paese, l'Italia, e un continente, l'Europa, in preda allo sconforto, allo psicodramma, che piuttosto che guardare in faccia alle proprie inadeguatezze gridano al complotto. Prima il governo Berlusconi, adesso anche a Bruxelles e nel governo Monti si fa strada la tentazione di parlare di un «attacco politico» alla Ue, all'euro, per mano dei perfidi anglo-americani naturalmente. Fosse mai che chi è al potere preferisce sempre letture autoassolutorie? Con l'euro noi italiani saremmo dovuti diventare sempre più "europei" e invece vediamo come sia l'Europa a imbarcare le cattive abitudini della politica nostrana. Il morbo italiano del cialtronismo economico e dell'indecisionismo politico si diffonde.
AGENZIE DI RATING - E' che proprio quando ci sembrava di aver intrapreso la strada giusta, è arrivata la mazzata di Standard & Poor's, e in molti ci hanno visto un fumus persecutionis. C'è chi festeggia perché il supponente Sarkozy ha perso la sua tripla A, mentre noi scivoliamo meritatamente in serie B. Se non altro questo doppio downgrade dovrebbe far tornare il senno - ma non c'illudiamo affatto - a chi nell'azione delle agenzie di rating vede di volta in volta, a seconda delle proprie preferenze/appartenenze politiche, complotti o bocciature "politiche" in senso stretto. Quando al governo c'era Berlusconi, i suoi amici vi vedevano un complotto ai suoi danni e i suoi nemici una bocciatura personale, tanto che solo le sue dimissioni dovevano valere - stabilmente - chissà quanti punti di spread in meno; oggi i ruoli si sono invertiti e questo spiega perché i primi festeggiano, vedendo il governo Monti raggelato dal doppio declassamento, mentre i secondi si chiudono a riccio a difesa del professore e cominciano ad adombrare ipotesi di complotto, a delegittimare le agenzie di rating laddove prima le usavano come clave contro Berlusconi. Sul Corriere il solito Mucchetti, ma persino sul Sole24Ore fioccano le dietrologie («chi c'è dietro», le «nuove superpotenze», «qualcosa di marcio») e si invoca una riforma per «tagliare» il loro «strapotere». Ovviamente la credibilità di letture dettate dal pregiudizio politico è comunque inferiore a quella delle agenzie di rating. Il problema dell'Italia non era (almeno non principalmente) l'uomo Berlusconi, così come oggi sarebbe idiota sostenere che il grande bocciato sia Monti.
Se alle agenzie di rating si possono muovere delle critiche, queste riguardano le fughe di notizie a mercati aperti, lo stillicidio incontrollato di voci che durano a volte per settimane, e il tempismo delle loro decisioni, che quasi sempre ormai non anticipano le mutate condizioni di rischio, ma giungono quando sono state già scontate dai mercati, contribuendo solo ad aumentare nervosismo e pessimismo. Può darsi, insomma, che questi declassamenti giungano con un ritardo di due mesi, mentre non tengano in debito conto dei miglioramenti in prospettiva. Ma se si limitano a ratificare le sentenze già emesse dai mercati e sono sempre meno capaci di prevedere, di anticipare e quindi in parte influenzare le dinamiche, dov'è il complotto? Giusto quindi mettere in dubbio l'attendibilità delle agenzie di rating, criticare i loro giudizi, ma demonizzarle equivale in realtà a divinizzarle. E soprattutto, da parte dei politici suona come uno scaricabarile.
L'ANALISI DI S&P - Proprio perché in ritardo di un paio di mesi, nel merito l'analisi di S&P sull'Europa, e sull'Italia in particolare, è difficilmente contestabile. Potrebbe sembrare contraddittoria, laddove da un lato rimprovera le istituzioni Ue di riconoscere «soltanto parzialmente la vera causa della crisi, cioè la sregolatezza fiscale alla periferia dell'Eurozona», e dall'altro che la crisi è «altrettanto una conseguenza dei crescenti squilibri esterni e delle divergenze di competitività tra il cuore dell'unità monetaria e la cosiddetta periferia». In realtà è semplicemente il quadro di una realtà complessa, in cui «sregolatezza fiscale» e scarsa competitività sono due facce della stessa medaglia. Da ciò ne deriva che ridotte all'osso le conclusioni di S&P appaiono abbastanza banali: senza la crescita non c'è austerità fiscale che tenga, anzi può rivelarsi persino «controproducente», rendendo possibile l'ulteriore deterioramento delle finanze statali come conseguenza di un contesto macroeconomico maggiormente recessivo.
Alla governance dell'Ue, e alle classi politiche degli Stati membri, si rimprovera di non riconoscere fino in fondo questo rischio, quindi di agire con «un approccio a senso unico che enfatizza l'austerità fiscale senza un forte e consistente programma per aumentare il potenziale di crescita delle economie dell'Eurozona». Ecco perché non si ritiene che il cosiddetto fiscal compact possa bastare a far tornare la fiducia. Tra le riforme necessarie si citano le liberalizzazioni del mercato del lavoro e dei settori dei servizi, che però non sembrano coordinate a livello sovranazionale come dovrebbero. Mentre per alcuni Paesi l'alto debito pubblico è il fattore chiave della crisi, per l'Eurozona nel suo complesso è una crescente divergenza di competitività tra centro e periferia.
L'ITALIA - Purtroppo l'Italia soffre di entrambi i mali, dunque la sua terapia è più problematica. L'analisi di S&P viene accusata di «incoerenza», perché a settembre, viene ricordato dal Corriere della Sera, «gli analisti dell'agenzia motivarono una bocciatura in arrivo con "rischi per gli obiettivi di bilancio", con "incertezze sull'attuazione di misure a favore della crescita" e con il "blocco della situazione politica" che potrebbe "ritardare le risposte alle sfide"». Ma chiediamoci: è proprio vero, come scrive Fubini, che «da allora tutti questi elementi di vulnerabilità sono stati ridotti o eliminati dall'Italia»? No, è falso, persistono tutti. Persistono i "rischi per gli obiettivi di bilancio", dal momento che con i pesanti effetti recessivi di una manovra tutta tasse, e senza ancora riforme per la crescita, il calo del Pil quest'anno sarà molto peggiore di quello previsto (-2% e non -0,5), rendendo l'azzeramento del deficit nel 2013 una chimera. Né al momento appaiono sgombrate le "incertezze sull'attuazione di misure a favore della crescita", visto che siamo sotto schiaffo dei tassisti e i sindacati pare siano riusciti a far uscire l'art. 18 dall'agenda del governo. Insomma, c'è poco o nulla nell'attuale quadro politico italiano che renda ottimisti sulla realizzazione delle liberalizzazioni e di una riforma pro-crescita del mercato del lavoro.
Ciò non contraddice affatto l'apertura di credito che l'agenzia concede al governo Monti, elogiato anziché bocciato. E' indubbio che Monti venga visto come più autorevole e credibile di Berlusconi, e S&P lo riconosce esplicitamente, come mesi fa riconosceva le politiche nella giusta direzione del precedente governo. Riconosce a Monti (e Rajoy) di aver «avviato iniziative per modernizzare l'economia e assicurare la sostenibilità delle finanze pubblice nel lungo periodo»; riconosce che «la gestione politica interna della crisi è notevolmente migliorata in Italia»; e addiritttura che «l'indebolimento del quadro politico europeo viene in sufficiente misura compensato dalla più forte capacità dell'Italia di formulare e implementare politiche anticrisi». Ma era, ed è evidente che ciò non basta, perché come ripetiamo da settimane il problema italiano è un blocco sistemico, che va al di là dei singoli partiti e delle personalità politiche, e i mercati l'hanno ben presente. Avrebbero commesso un grave errore Monti, e con lui tutti i suoi sostenitori, politici e mediatici, se avessero creduto che potesse bastare l'autorevolezza della sua figura per ottenere uno sconto sui tassi d'interesse.
Ricapitolando: 1) S&P non dice che non ci voglia austerità fiscale, ma che "solo" quella sarebbe controproducente. E non è certo Berlino che impedisce agli altri Stati di accompagnare il rigore con riforme strutturali pro-crescita, o di conseguire il pareggio di bilancio tagliando la spesa pubblica improduttiva invece che a suon di tasse, che hanno effetti ben più recessivi; 2) S&P riconosce la diversità da Paese a Paese dei fattori chiave della crisi: ci sono Paesi il cui problema principale è il debito elevato, altri per cui è il gap di competitività. Si dà il caso che per l'Italia siano entrambi. Appare incomprensibile quindi come l'Italia possa sostenere di aver fatto i "compiti a casa" se: 2a) non ha toccato lo stock di debito e pare si rifiuti di farlo; 2b) invece di tagliare la spesa aumenta le tasse accrescendo l'impatto recessivo dell'austerità fiscale; 2c) sulla crescita siamo ancora ai tavoli e alle concertazioni, cioè alle chiacchiere, e non saranno certo i farmaci di fascia C venduti all'Ipercoop a rilanciare il nostro Pil, semmai liberalizzazioni radicali: lavoro, professioni, municipalizzate, reti.
Etichette:
agenzie di rating,
berlusconi,
corriere della sera,
debito pubblico,
deficit,
euro,
europa,
germania,
italia,
liberalizzazioni,
media,
mercato,
merkel,
monti,
sole24ore,
spesa pubblica,
tasse,
ue
Friday, January 13, 2012
Italia mostly unfree
Anche su Notapolitica
L'Italia continua a precipitare nell'Index of Economic Freedom, l'indice della libertà economica nel mondo, elaborato ogni anno da Heritage Foundation e Wall Street Journal. Un vero e proprio tracollo dal 42° posto nel 2006 al 92° di quest'anno su 179 Paesi esaminati (60° nel 2007, 64° nel 2008, 76° nel 2009, 74° nel 2010 e 87° nel 2011). Ma la notizia del 2012 è che per la prima volta il nostro Paese compare nella fascia dei Paesi definiti «mostly unfree» («essenzialmente non liberi»). Siamo scivolati, infatti, nel punteggio complessivo, al di sotto della soglia 60, al 58,8 (-1,5 rispetto al 60,3 dello scorso anno), mentre da anni, anche se con un punteggio non molto superiore, riuscivamo a restare almeno nella fascia dei Paesi «moderatamente liberi» (tra i 60 e i 69,9 punti). Ormai lontanissimi dal punteggio medio delle economie definite «libere» (84,7), siamo leggermente sotto la media mondiale, che è di 59,5, in compagnia di Gambia, Honduras e Azerbaijan, mentre persino Kirghizistan e Burkina Faso risultano avere economie più libere della nostra. Tra i 43 Paesi della regione europea, il cui punteggio medio è 66,1, ci piazziamo al 36° posto, davanti a Grecia, Serbia, Bosnia, Moldova, Russia, Ucraina e Bielorussia, mentre solo la Grecia fa peggio di noi tra i Paesi Ue. Il ranking peggiora a livelli impressionanti se osserviamo in particolare tre parametri. Per la pressione fiscale siamo al 169° posto su 179 Paesi e per la spesa pubblica al 168°, in questo caso in compagnia di molti Paesi europei. Molto male anche il grado di libertà del mercato del lavoro (153° posto).
Si dirà che si tratta di realtà non comparabili, ma non bisogna confondere questo indicatore con la ricchezza o l'industrializzazione dei Paesi. Il suo obiettivo è misurare il grado di libertà dei sistemi economici. Dunque – almeno per chi crede che più libera è un'economia maggiori sono le sue possibilità di crescere – misura semmai una tendenza alla prosperità. In questo senso va forse letto un altro dato che emerge dalla classifica di quest'anno: l'avanzata dei Paesi asiatici, africani e sudamericani, segno che sempre più Paesi in via di sviluppo individuano nelle politiche di maggiore libertà economica quelle più appropriate per favorire lo sviluppo, mentre tra i Paesi occidentali, anche a causa del ruolo dei governi nella crisi, è in corso il processo inverso e tutti arretrano nel ranking generale. Solo cinque Paesi si situano nella prima fascia, quella dei «liberi»: i primi due sono asiatici (Hong Kong e Singapore), al terzo e quarto posto troviamo i due Paesi più grandi dell'Oceania (Australia e Nuova Zelanda) e al quinto la Svizzera, prima tra gli europei. Per la prima volta in assoluto fa il suo ingresso nella top ten, piazzandosi all'ottavo posto, un Paese dell'Africa sub-sahariana: le Mauritius. Tra i primi dieci anche Canada (6°), Cile (7°), Irlanda (9°) e gli Stati Uniti (10°), che ci rientrano per un soffio, lo 0,1 che li separa dalla Danimarca (11°), molto citata da noi per il suo modello di flexsecurity. Dei 23 Paesi nella fascia degli «essenzialmente liberi» 13 sono europei (tra cui la sorpresa Islanda e 8 dell'area euro), 3 asiatici (Taiwan, Macau e Giappone), 2 nordamericani (Canada e Usa), 2 sudamericani (Cile e l'ormai nota Saint Lucia, che si piazza tra Giappone e Germania!), 2 arabi (Bahrein e Qatar) e uno africano.
Ma è tra i «moderatamente liberi» che si registra l'exploit degli Stati africani, asiatici e mediorientali: new entry Marocco, Ghana e Mongolia. Si confermano migliorando il loro punteggio Uganda, Madagascar, Ruanda, Kazakistan, Thailandia, Malesia, Panama, Costa Rica, Perù e Barbados. Mentre sono ormai vicini a superare la soglia dei 70 punti, quindi ad entrare tra i Paesi «essenzialmente liberi», Corea del Sud, Giordania (primo tra i Paesi arabi non ricchi di petrolio), Botswana ed Emirati Arabi Uniti.
Tornando al giudizio sul nostro Paese, l'ulteriore perdita di posizioni è in particolare dovuta al peggioramento nel controllo della spesa pubblica (-9,2), che ha raggiunto il 51,8% del Pil, nella libertà dalla corruzione (-4) e nella rigidità del mercato del lavoro (-1,4). Il debito continua ad essere troppo elevato così come la pressione fiscale, nel 2011 salita al 43,5% del Pil. Per quanto riguarda lo stato di diritto, diritti di proprietà e contratti sono tutelati, ma i procedimenti giudiziari restano estremamente lenti e l'ordinamento legale è vulnerabile a interferenze politiche. La complessità del quadro normativo e delle procedure amministrative aumenta i costi delle attività produttive, danneggiandone la competitività. La sorpresa è che nonostante il governo punti sulle liberalizzazioni come priorità per la crescita, i punteggi migliori l'Italia li ottiene proprio nel capitolo sull'apertura dei mercati. La libertà di commercio riceve un punteggio di 87,1, il più alto dei parametri considerati, e un buon 75 la libertà di investimento, frenata da una burocrazia complessa, dall'eccessiva arbitrarietà nell'applicazione delle normative e dalle interferenze politiche.
L'Italia continua a precipitare nell'Index of Economic Freedom, l'indice della libertà economica nel mondo, elaborato ogni anno da Heritage Foundation e Wall Street Journal. Un vero e proprio tracollo dal 42° posto nel 2006 al 92° di quest'anno su 179 Paesi esaminati (60° nel 2007, 64° nel 2008, 76° nel 2009, 74° nel 2010 e 87° nel 2011). Ma la notizia del 2012 è che per la prima volta il nostro Paese compare nella fascia dei Paesi definiti «mostly unfree» («essenzialmente non liberi»). Siamo scivolati, infatti, nel punteggio complessivo, al di sotto della soglia 60, al 58,8 (-1,5 rispetto al 60,3 dello scorso anno), mentre da anni, anche se con un punteggio non molto superiore, riuscivamo a restare almeno nella fascia dei Paesi «moderatamente liberi» (tra i 60 e i 69,9 punti). Ormai lontanissimi dal punteggio medio delle economie definite «libere» (84,7), siamo leggermente sotto la media mondiale, che è di 59,5, in compagnia di Gambia, Honduras e Azerbaijan, mentre persino Kirghizistan e Burkina Faso risultano avere economie più libere della nostra. Tra i 43 Paesi della regione europea, il cui punteggio medio è 66,1, ci piazziamo al 36° posto, davanti a Grecia, Serbia, Bosnia, Moldova, Russia, Ucraina e Bielorussia, mentre solo la Grecia fa peggio di noi tra i Paesi Ue. Il ranking peggiora a livelli impressionanti se osserviamo in particolare tre parametri. Per la pressione fiscale siamo al 169° posto su 179 Paesi e per la spesa pubblica al 168°, in questo caso in compagnia di molti Paesi europei. Molto male anche il grado di libertà del mercato del lavoro (153° posto).
Si dirà che si tratta di realtà non comparabili, ma non bisogna confondere questo indicatore con la ricchezza o l'industrializzazione dei Paesi. Il suo obiettivo è misurare il grado di libertà dei sistemi economici. Dunque – almeno per chi crede che più libera è un'economia maggiori sono le sue possibilità di crescere – misura semmai una tendenza alla prosperità. In questo senso va forse letto un altro dato che emerge dalla classifica di quest'anno: l'avanzata dei Paesi asiatici, africani e sudamericani, segno che sempre più Paesi in via di sviluppo individuano nelle politiche di maggiore libertà economica quelle più appropriate per favorire lo sviluppo, mentre tra i Paesi occidentali, anche a causa del ruolo dei governi nella crisi, è in corso il processo inverso e tutti arretrano nel ranking generale. Solo cinque Paesi si situano nella prima fascia, quella dei «liberi»: i primi due sono asiatici (Hong Kong e Singapore), al terzo e quarto posto troviamo i due Paesi più grandi dell'Oceania (Australia e Nuova Zelanda) e al quinto la Svizzera, prima tra gli europei. Per la prima volta in assoluto fa il suo ingresso nella top ten, piazzandosi all'ottavo posto, un Paese dell'Africa sub-sahariana: le Mauritius. Tra i primi dieci anche Canada (6°), Cile (7°), Irlanda (9°) e gli Stati Uniti (10°), che ci rientrano per un soffio, lo 0,1 che li separa dalla Danimarca (11°), molto citata da noi per il suo modello di flexsecurity. Dei 23 Paesi nella fascia degli «essenzialmente liberi» 13 sono europei (tra cui la sorpresa Islanda e 8 dell'area euro), 3 asiatici (Taiwan, Macau e Giappone), 2 nordamericani (Canada e Usa), 2 sudamericani (Cile e l'ormai nota Saint Lucia, che si piazza tra Giappone e Germania!), 2 arabi (Bahrein e Qatar) e uno africano.
Ma è tra i «moderatamente liberi» che si registra l'exploit degli Stati africani, asiatici e mediorientali: new entry Marocco, Ghana e Mongolia. Si confermano migliorando il loro punteggio Uganda, Madagascar, Ruanda, Kazakistan, Thailandia, Malesia, Panama, Costa Rica, Perù e Barbados. Mentre sono ormai vicini a superare la soglia dei 70 punti, quindi ad entrare tra i Paesi «essenzialmente liberi», Corea del Sud, Giordania (primo tra i Paesi arabi non ricchi di petrolio), Botswana ed Emirati Arabi Uniti.
Tornando al giudizio sul nostro Paese, l'ulteriore perdita di posizioni è in particolare dovuta al peggioramento nel controllo della spesa pubblica (-9,2), che ha raggiunto il 51,8% del Pil, nella libertà dalla corruzione (-4) e nella rigidità del mercato del lavoro (-1,4). Il debito continua ad essere troppo elevato così come la pressione fiscale, nel 2011 salita al 43,5% del Pil. Per quanto riguarda lo stato di diritto, diritti di proprietà e contratti sono tutelati, ma i procedimenti giudiziari restano estremamente lenti e l'ordinamento legale è vulnerabile a interferenze politiche. La complessità del quadro normativo e delle procedure amministrative aumenta i costi delle attività produttive, danneggiandone la competitività. La sorpresa è che nonostante il governo punti sulle liberalizzazioni come priorità per la crescita, i punteggi migliori l'Italia li ottiene proprio nel capitolo sull'apertura dei mercati. La libertà di commercio riceve un punteggio di 87,1, il più alto dei parametri considerati, e un buon 75 la libertà di investimento, frenata da una burocrazia complessa, dall'eccessiva arbitrarietà nell'applicazione delle normative e dalle interferenze politiche.
Etichette:
africa,
asia,
australia,
cile,
danimarca,
economia,
europa,
heritage,
italia,
liberalizzazioni,
libero mercato,
libertà,
mauritius,
mercato del lavoro,
nuova zelanda,
saint lucia,
spesa pubblica,
tasse,
ue,
wsj
Wednesday, January 11, 2012
Una tattica pericolosa
Anche su Notapolitica
Con il passare delle settimane, e alla luce dell'incontro di oggi con la cancelliera Merkel, si rafforza il sospetto che quella di Monti non sia (o per lo meno non lo sia ancora) una strategia, bensì una tattica. E che la sua tattica consista nel dare dei contentini ai tedeschi - eliminati due dei privilegi, i più odiosi ai loro occhi, di cui godevano gli italiani, ovvero le pensioni d'anzianità e la detassazione della prima casa - per poi presentarsi a Berlino e sperare che il compitino fatto e la sua autorevolezza personale lo aiutino a strappare alla Merkel un ammorbidimento della linea rigorista e un rafforzamento del fondo salva-Stati, e magari una qualche forma di condivisione del debito (come gli eurobond), il che dovrebbe tradursi in una riduzione dei tassi d'interesse sui nostri titoli di Stato.
Se è un modo per farci rifiatare, per comprare il tempo necessario a realizzare le riforme di struttura, dello Stato e dell'economia italiana, allora si tratta di una tattica pericolosa ma che può tradursi in una strategia vincente nel medio periodo. Se invece è un modo per evitare di metter mano davvero al sistema-Italia, sperando che con il tempo gli squilibri vengano assorbiti nel calderone europeo, allora stiamo irresponsabilmente scherzando con il fuoco e il rischio - ammesso e non concesso di convincere i tedeschi, ma soprattutto i mercati, e di evitare la fine della Grecia - è che fra un paio d'anni l'euro, se ci sarà ancora, somigli più alla lira che al marco.
Da una parte Monti mostra di condividere l'approccio tedesco, quando afferma che «non c'è nessuna crisi dell'euro» e che «in molti Stati dell'Eurozona c'è una crisi finanziaria legata al loro indebitamento»; dall'altra, sembra svicolare quando si raccomanda alla Merkel (l'Italia è appena all'inizio del suo cammino di riforma ma già pretende che tocchi agli «altri») e ai mercati, ai quali chiede di riconoscere gli sforzi italiani e quindi di concedere una riduzione dei tassi, oggi a livelli che a suo avviso «non sono più giustificati», come rivendicherebbe chiunque nella sua posizione.
Insomma, non vorremmo che in Monti e nel suo governo prevalesse l'idea impudente che una spremuta di tasse e qualche riforma pro-mercato, più cosmetica che sostanziale, possano bastare per ottenere in cambio tassi inferiori sul debito. E ci auguriamo che quando osserva che il tema della crescita «sale, come è giusto che salga, nell'agenda europea», non abbia in mente un'Europa dispensatrice di stimoli fiscali al posto degli Stati membri, dal momento che questi sono ormai impossibilitati a tentare singolarmente la via della crescita attraverso la spesa.
Dopo una manovra quasi interamente di tasse, il decreto sulle liberalizzazioni, che Monti annuncia «molto ampio», sarà la cartina di tornasole della volontà e del coraggio riformatore del governo dei tecnici. Ci dirà se quella italiana è l'ennesima tattica spregiudicata o se dietro c'è una vera strategia di cambiamento. Come sottolinea Antonio Polito nel suo editoriale di oggi, sul Corriere della Sera, «prima di cercare la pagliuzza nell'occhio dei "piccoli" e dei "privati", bisogna rimuovere la trave in quello dei "grandi" e dei "pubblici". Sono infatti i mercati in cui il soggetto dominante è pubblico quelli dove c'è più grasso da raschiare». Non è un problema di simpatia. Tutt'altro. Esercizi commerciali, farmacie, edicole, benzinai, tassisti: sono tutte categorie che bisogna - per equità ed efficienza - aprire al mercato, senza perdere ulteriore tempo. Ma onestamente quanta spinta alla crescita possiamo aspettarci dai farmaci di fascia C in vendita nei supermercati Coop e dai giornali alle pompe di benzina? Briciole.
Diciamo che valgono come antipasto, ma per soddisfare la fame di crescita del nostro Paese ci vuole l'arrosto. E l'arrosto si cucina liberalizzando il mercato del lavoro, le professioni, i servizi pubblici locali e le reti. Energia, trasporti, banche, assicurazioni, poste sono i settori dalla cui apertura al mercato si può sperare un contributo significativo alla crescita. E se si vuole rilanciare la crescita senza toccare la leva fiscale, affidandosi unicamente alle liberalizzazioni, bisogna che almeno siano di grande impatto, non un'operazione di mera cosmesi. Ascoltare dal sottosegretario Catricalà che la separazione proprietaria tra Eni e Snam rete gas «non è una priorità», vedere il progetto Nerozzi farsi strada a scapito di quello Ichino e assistere al mutismo del governo in tema di privatizzazioni e municipalizzate non lascia ben sperare.
Con il passare delle settimane, e alla luce dell'incontro di oggi con la cancelliera Merkel, si rafforza il sospetto che quella di Monti non sia (o per lo meno non lo sia ancora) una strategia, bensì una tattica. E che la sua tattica consista nel dare dei contentini ai tedeschi - eliminati due dei privilegi, i più odiosi ai loro occhi, di cui godevano gli italiani, ovvero le pensioni d'anzianità e la detassazione della prima casa - per poi presentarsi a Berlino e sperare che il compitino fatto e la sua autorevolezza personale lo aiutino a strappare alla Merkel un ammorbidimento della linea rigorista e un rafforzamento del fondo salva-Stati, e magari una qualche forma di condivisione del debito (come gli eurobond), il che dovrebbe tradursi in una riduzione dei tassi d'interesse sui nostri titoli di Stato.
Se è un modo per farci rifiatare, per comprare il tempo necessario a realizzare le riforme di struttura, dello Stato e dell'economia italiana, allora si tratta di una tattica pericolosa ma che può tradursi in una strategia vincente nel medio periodo. Se invece è un modo per evitare di metter mano davvero al sistema-Italia, sperando che con il tempo gli squilibri vengano assorbiti nel calderone europeo, allora stiamo irresponsabilmente scherzando con il fuoco e il rischio - ammesso e non concesso di convincere i tedeschi, ma soprattutto i mercati, e di evitare la fine della Grecia - è che fra un paio d'anni l'euro, se ci sarà ancora, somigli più alla lira che al marco.
Da una parte Monti mostra di condividere l'approccio tedesco, quando afferma che «non c'è nessuna crisi dell'euro» e che «in molti Stati dell'Eurozona c'è una crisi finanziaria legata al loro indebitamento»; dall'altra, sembra svicolare quando si raccomanda alla Merkel (l'Italia è appena all'inizio del suo cammino di riforma ma già pretende che tocchi agli «altri») e ai mercati, ai quali chiede di riconoscere gli sforzi italiani e quindi di concedere una riduzione dei tassi, oggi a livelli che a suo avviso «non sono più giustificati», come rivendicherebbe chiunque nella sua posizione.
Insomma, non vorremmo che in Monti e nel suo governo prevalesse l'idea impudente che una spremuta di tasse e qualche riforma pro-mercato, più cosmetica che sostanziale, possano bastare per ottenere in cambio tassi inferiori sul debito. E ci auguriamo che quando osserva che il tema della crescita «sale, come è giusto che salga, nell'agenda europea», non abbia in mente un'Europa dispensatrice di stimoli fiscali al posto degli Stati membri, dal momento che questi sono ormai impossibilitati a tentare singolarmente la via della crescita attraverso la spesa.
Dopo una manovra quasi interamente di tasse, il decreto sulle liberalizzazioni, che Monti annuncia «molto ampio», sarà la cartina di tornasole della volontà e del coraggio riformatore del governo dei tecnici. Ci dirà se quella italiana è l'ennesima tattica spregiudicata o se dietro c'è una vera strategia di cambiamento. Come sottolinea Antonio Polito nel suo editoriale di oggi, sul Corriere della Sera, «prima di cercare la pagliuzza nell'occhio dei "piccoli" e dei "privati", bisogna rimuovere la trave in quello dei "grandi" e dei "pubblici". Sono infatti i mercati in cui il soggetto dominante è pubblico quelli dove c'è più grasso da raschiare». Non è un problema di simpatia. Tutt'altro. Esercizi commerciali, farmacie, edicole, benzinai, tassisti: sono tutte categorie che bisogna - per equità ed efficienza - aprire al mercato, senza perdere ulteriore tempo. Ma onestamente quanta spinta alla crescita possiamo aspettarci dai farmaci di fascia C in vendita nei supermercati Coop e dai giornali alle pompe di benzina? Briciole.
Diciamo che valgono come antipasto, ma per soddisfare la fame di crescita del nostro Paese ci vuole l'arrosto. E l'arrosto si cucina liberalizzando il mercato del lavoro, le professioni, i servizi pubblici locali e le reti. Energia, trasporti, banche, assicurazioni, poste sono i settori dalla cui apertura al mercato si può sperare un contributo significativo alla crescita. E se si vuole rilanciare la crescita senza toccare la leva fiscale, affidandosi unicamente alle liberalizzazioni, bisogna che almeno siano di grande impatto, non un'operazione di mera cosmesi. Ascoltare dal sottosegretario Catricalà che la separazione proprietaria tra Eni e Snam rete gas «non è una priorità», vedere il progetto Nerozzi farsi strada a scapito di quello Ichino e assistere al mutismo del governo in tema di privatizzazioni e municipalizzate non lascia ben sperare.
Tuesday, January 10, 2012
J. Edgar, una metafora della burocrazia
Da grande estimatore quale sono di Clint Eastwood non posso dire che J. Edgar sia un film riuscito. Troppe le sbavature e le forzature, persino le caricature direi. Non è certamente un film politico, né storico, su questo ma anche sul resto si può concordare con la puntuale e competente recensione di Pietro Salvatori. Tuttavia, una chiave di lettura "politica" in senso lato l'ho intravista, o forse voluta intravedere con le mie lenti ideologiche, e ve la sottopongo. Il personaggio di Hoover come una grande metafora delle burocrazie statali, sempre in lotta per giustificare, e accrescere, i loro poteri. Hoover s'identifica così visceralmente con la sua creatura, l'FBI, che durante tutto il film balza agli occhi, almeno ai miei, come le sue ossessioni, così esasperate, siano in fondo le stesse di qualsiasi burocrazia.
La tendenza ad autocelebrare i propri successi, a ingigantire i propri meriti ricorrendo persino alla menzogna e alla propaganda, allo stesso tempo esagerando l'entità delle sfide che si hanno di fronte, in questo caso le minacce alla sicurezza dei cittadini; e poi l'ossessione per il controllo, che sfiora il grottesco, il mito della propria infallibilità, la presunzione di agire per il bene della nazione e quindi di poter chiudere un occhio o anche entrambi sui mezzi di cui ci si avvale, spesso oltre i confini della legalità. Sono tutti tratti che non troviamo solo negli uomini, che così mascherano le proprie debolezze e inadeguatezze, ma sono comuni alle grandi burocrazie statali e al loro istinto di sopravvivenza. Le più spudorate esagerazioni con le quali Hoover cerca di glorificare se stesso e in questo modo rafforzare l'FBI sono le stesse con le quali le burocrazie statali, di tutti i tempi, cercano di giustificare di fronte all'opinione pubblica e alle autorità politiche la loro esistenza, anzi il loro essere indispensabili, insostituibili, e quindi di convincerle ad attribuire loro poteri sempre maggiori ed estesi. In una rincorsa alla perfezione, ad un massimo di efficienza ed efficacia dell'organizzazione, che sembra avere l'andamento di una curva. Raggiunto un punto fino al quale alla crescita di risorse, dimensioni e potere corrisponde anche un aumento di efficienza, quest'ultima comincia a declinare proprio a causa principalmente dell'eccessiva espansione e cominciano a manifestarsi effetti distorsivi, derive anche pericolose rispetto agli scopi originari dell'organizzazione.
E' questa la dinamica che per tutta la durata del film accomuna J. Edgar e la sua FBI. Le buone intenzioni, il patriottismo, la forza di carattere, il senso del dovere, tutte le intuizioni geniali non bastano a risparmiare a Hoover e all'FBI una eterogenesi dei fini. E persino nel tributo a Hoover per le incontestabili innovazioni nella lotta al crimine - la centralità delle impronte digitali, dell'analisi scientifica dei luoghi e dei reperti - s'insinua costantemente il dubbio sulla pretesa onnipotenza e perfezione del "sistema". La macchina statale imperfetta, fallibile, ossessionata, bugiarda, e autoindulgente come i suoi artefici. Anche in questa chiave "politica", come in tutti i film di Eastwood il fattore umano, i singoli individui, indagati senza pregiudizi nei punti di forza e soprattutto nei loro limiti e debolezze, si rivelano decisivi in qualunque avventura collettiva, che sia la guerra nel Pacifico o la storia dell'FBI, dunque attraverso di essa dell'intero '900 americano.
Come per i protagonisti di Million Dollar Baby e Gran Torino la forza d'animo, l'essere dei "duri", che Clint ha impersonato nella sua carriera di attore e continua a impersonare nell'immaginario collettivo, anche in J. Edgar non bastano ad avere ragione della durezza della vita. Peccato che questo film non riesca a coinvolgere lo spettatore come gli altri due. Se quella di Leonardo Di Caprio è un'interpretazione maiuscola, senz'altro da Oscar, in alcuni passaggi alla Marlon Brando, alcune pecche minano la riuscita del film. La narrazione è dall'inizio e per la prima metà del film troppo faticosa, in un certo senso "letteraria". Gli invecchiamenti sono tutt'altro che convincenti, addirittura ridicoli quelli di Armie Hammer e Naomi Watts (ad interpretare i loro personaggi invecchiati potevano essere chiamati attori semplicemente più anziani). Sfiora a tratti la caricatura la resa di fondamentali temi narrativi, come i rapporti di Hoover con la madre e con Clyde Tolson, così come il tema dell'omosessualità repressa, affrontato in modo troppo convenzionale, ma qui forse c'è da chiamare in causa lo sceneggiatore, Dustin Lance Back, lo stesso di Milk. E' se non altro apprezzabile che sul finale il film non scada nel sentimentalismo.
La tendenza ad autocelebrare i propri successi, a ingigantire i propri meriti ricorrendo persino alla menzogna e alla propaganda, allo stesso tempo esagerando l'entità delle sfide che si hanno di fronte, in questo caso le minacce alla sicurezza dei cittadini; e poi l'ossessione per il controllo, che sfiora il grottesco, il mito della propria infallibilità, la presunzione di agire per il bene della nazione e quindi di poter chiudere un occhio o anche entrambi sui mezzi di cui ci si avvale, spesso oltre i confini della legalità. Sono tutti tratti che non troviamo solo negli uomini, che così mascherano le proprie debolezze e inadeguatezze, ma sono comuni alle grandi burocrazie statali e al loro istinto di sopravvivenza. Le più spudorate esagerazioni con le quali Hoover cerca di glorificare se stesso e in questo modo rafforzare l'FBI sono le stesse con le quali le burocrazie statali, di tutti i tempi, cercano di giustificare di fronte all'opinione pubblica e alle autorità politiche la loro esistenza, anzi il loro essere indispensabili, insostituibili, e quindi di convincerle ad attribuire loro poteri sempre maggiori ed estesi. In una rincorsa alla perfezione, ad un massimo di efficienza ed efficacia dell'organizzazione, che sembra avere l'andamento di una curva. Raggiunto un punto fino al quale alla crescita di risorse, dimensioni e potere corrisponde anche un aumento di efficienza, quest'ultima comincia a declinare proprio a causa principalmente dell'eccessiva espansione e cominciano a manifestarsi effetti distorsivi, derive anche pericolose rispetto agli scopi originari dell'organizzazione.
E' questa la dinamica che per tutta la durata del film accomuna J. Edgar e la sua FBI. Le buone intenzioni, il patriottismo, la forza di carattere, il senso del dovere, tutte le intuizioni geniali non bastano a risparmiare a Hoover e all'FBI una eterogenesi dei fini. E persino nel tributo a Hoover per le incontestabili innovazioni nella lotta al crimine - la centralità delle impronte digitali, dell'analisi scientifica dei luoghi e dei reperti - s'insinua costantemente il dubbio sulla pretesa onnipotenza e perfezione del "sistema". La macchina statale imperfetta, fallibile, ossessionata, bugiarda, e autoindulgente come i suoi artefici. Anche in questa chiave "politica", come in tutti i film di Eastwood il fattore umano, i singoli individui, indagati senza pregiudizi nei punti di forza e soprattutto nei loro limiti e debolezze, si rivelano decisivi in qualunque avventura collettiva, che sia la guerra nel Pacifico o la storia dell'FBI, dunque attraverso di essa dell'intero '900 americano.
Come per i protagonisti di Million Dollar Baby e Gran Torino la forza d'animo, l'essere dei "duri", che Clint ha impersonato nella sua carriera di attore e continua a impersonare nell'immaginario collettivo, anche in J. Edgar non bastano ad avere ragione della durezza della vita. Peccato che questo film non riesca a coinvolgere lo spettatore come gli altri due. Se quella di Leonardo Di Caprio è un'interpretazione maiuscola, senz'altro da Oscar, in alcuni passaggi alla Marlon Brando, alcune pecche minano la riuscita del film. La narrazione è dall'inizio e per la prima metà del film troppo faticosa, in un certo senso "letteraria". Gli invecchiamenti sono tutt'altro che convincenti, addirittura ridicoli quelli di Armie Hammer e Naomi Watts (ad interpretare i loro personaggi invecchiati potevano essere chiamati attori semplicemente più anziani). Sfiora a tratti la caricatura la resa di fondamentali temi narrativi, come i rapporti di Hoover con la madre e con Clyde Tolson, così come il tema dell'omosessualità repressa, affrontato in modo troppo convenzionale, ma qui forse c'è da chiamare in causa lo sceneggiatore, Dustin Lance Back, lo stesso di Milk. E' se non altro apprezzabile che sul finale il film non scada nel sentimentalismo.
Monday, January 09, 2012
Se l'importante è avere un capro espiatorio
Anche su Notapolitica
Ieri sera Fazio ha apparecchiato a Monti una straordinaria occasione comunicativa per rimediare alla disastrosa e stucchevole conferenza stampa di fine anno e il premier non se l'è lasciata sfuggire, raccogliendo appieno i frutti del bombardamento mediatico anti-evasione fiscale in corso da settimane, ma che ha avuto il suo climax con l'operazione Cortina dell'Agenzia delle Entrate. Chi si ribella a questo clima da caccia alle streghe, come Ricolfi e Ostellino sulla stampa e Giannino a Radio24, viene vissuto dalle stesse testate in cui opera al massimo come un arguto provocatore.
Riuscendo acrobaticamente a far risalire le origini della crisi alle politiche thatcheriane e reaganiane, che avrebbero preparato culturalmente e politicamente il terreno per le eccessive deregolazioni della finanza anglosassone negli anni '90 (quindi, semmai, sotto Clinton e Blair), ecco che Monti, imbeccato da Fazio, lancia un paio di accuse in cui tutti possono trovare sollievo: la crisi è colpa degli speculatori, quindi sì alla Tobin Tax, e «l'alto debito è colpa anche dell'evasione fiscale». Un'affermazione che in nessun modo sta in piedi dal punto di vista economico. Così come è infelicissima la battuta sulle «mani nelle tasche» degli italiani che non le metterebbero i governi, ma gli evasori. Ma l'importante è offrire un capro espiatorio, quindi tutti felici e contenti. E allora ecco che a milioni di telespettatori viene fatto capire che la soluzione al problema è come Germania, Francia e Italia possono collaborare per costringere la Svizzera - sì, avete capito bene, la Svizzera - a scardinare il suo sistema bancario. Auguri.
Chi non vive in Italia - e forse non ha l'esatta percezione del vero e proprio bombardamento mediatico quotidiano (radio, tv, giornali) - può anche ignorarlo e trincerarsi dietro una lettura legalitaria e accademica del problema, ma che i governi - tecnici o politici - sfruttino il tema dell'evasione fiscale per difendere gli attuali livelli di spesa pubblica e di tassazione, ossia di intermediazione dello Stato nell'economia, è di un'evidenza ormai clamorosa, persino imbarazzante, e l'apparizione di Monti ieri sera a Chetempochefa ne è l'ennesima prova. Non si può non vedere come viene strumentalizzata politicamente l'evasione fiscale dall'oppressore fiscale. E ciò costituisce, o dovrebbe costituire, un preoccupante problema politico per chiunque sia persuaso che siano proprio gli eccessivi livelli di spesa e di tassazione fra le principali cause della crisi italiana.
E' noto che se tutti pagassero le tasse la pressione fiscale raggiungerebbe il 60% del Pil. Senza che ciò giustifichi alcun comportamento illegale, come si fa a criticare gli italiani se, collettivamente, trattengono per sé una parte delle tasse loro richieste dallo Stato, che altrimenti ammonterebbero al 60% del loro reddito, ma ne versano comunque la ragguardevole cifra del 45%? Se per assurdo da domani tutti pagassero tutto il dovuto, la nostra economia reale oltre a quella legale collasserebbe. Una lotta all'evasione fiscale che non si accontenti di una caccia alle streghe moralista per dare sfogo alle frustrazioni e all'invidia sociale dell'opinione pubblica, ma che sia sistemica, volta cioè a debellare davvero il fenomeno, si fa abbassando il carico fiscale. Viceversa nessuno, neanche tra gli economisti più illustri, può negare che avrebbe costi enormi sul sistema produttivo del Paese.
D'altra parte, la corrispondenza - così puntuale che difficilmente può ritenersi casuale - tra l'inarrestabile ascesa della pressione fiscale e l'aumento esponenziale dell'evasione avvalora la tesi di quanti sostengono che il livello elevato della prima è la causa diretta dell'entità della seconda. In trent'anni l'evasione si è quintuplicata, passando dai 54 miliardi di euro stimati nel 1981, circa il 7-8% del Pil, ad una cifra nel 2008 - stimata ovviamente - fra i 255 e i 275 miliardi di euro. Ma dalle serie storiche sul conto economico dello Stato disponibili sul sito dell'Istat emerge che nello stesso periodo, sempre in termini assoluti, la pressione fiscale si è addirittura decuplicata, è aumentata cioè di ben 10 volte. E' passata infatti dai 63,787 miliardi di euro del 1980 ai 656,861 miliardi certificati nel 2009. In termini percentuali rispetto al Pil è passata dal 31,36% del 1980 al 43,2% del 2009 (fino al 45% previsto nel 2012-2013). Dunque, c'è almeno un motivo di consolazione: gli italiani diventano più evasori ad un ritmo comunque inferiore a quello con cui cresce la voracità dello Stato.
E come l'aumento della pressione fiscale non ha contribuito né a rendere migliori i servizi pubblici, né alla riduzione del debito, che al contrario è cresciuto di pari passo, non si vede perché dovrebbe contribuirvi il prosciugamento dell'evasione fiscale.
Ieri sera Fazio ha apparecchiato a Monti una straordinaria occasione comunicativa per rimediare alla disastrosa e stucchevole conferenza stampa di fine anno e il premier non se l'è lasciata sfuggire, raccogliendo appieno i frutti del bombardamento mediatico anti-evasione fiscale in corso da settimane, ma che ha avuto il suo climax con l'operazione Cortina dell'Agenzia delle Entrate. Chi si ribella a questo clima da caccia alle streghe, come Ricolfi e Ostellino sulla stampa e Giannino a Radio24, viene vissuto dalle stesse testate in cui opera al massimo come un arguto provocatore.
Riuscendo acrobaticamente a far risalire le origini della crisi alle politiche thatcheriane e reaganiane, che avrebbero preparato culturalmente e politicamente il terreno per le eccessive deregolazioni della finanza anglosassone negli anni '90 (quindi, semmai, sotto Clinton e Blair), ecco che Monti, imbeccato da Fazio, lancia un paio di accuse in cui tutti possono trovare sollievo: la crisi è colpa degli speculatori, quindi sì alla Tobin Tax, e «l'alto debito è colpa anche dell'evasione fiscale». Un'affermazione che in nessun modo sta in piedi dal punto di vista economico. Così come è infelicissima la battuta sulle «mani nelle tasche» degli italiani che non le metterebbero i governi, ma gli evasori. Ma l'importante è offrire un capro espiatorio, quindi tutti felici e contenti. E allora ecco che a milioni di telespettatori viene fatto capire che la soluzione al problema è come Germania, Francia e Italia possono collaborare per costringere la Svizzera - sì, avete capito bene, la Svizzera - a scardinare il suo sistema bancario. Auguri.
Chi non vive in Italia - e forse non ha l'esatta percezione del vero e proprio bombardamento mediatico quotidiano (radio, tv, giornali) - può anche ignorarlo e trincerarsi dietro una lettura legalitaria e accademica del problema, ma che i governi - tecnici o politici - sfruttino il tema dell'evasione fiscale per difendere gli attuali livelli di spesa pubblica e di tassazione, ossia di intermediazione dello Stato nell'economia, è di un'evidenza ormai clamorosa, persino imbarazzante, e l'apparizione di Monti ieri sera a Chetempochefa ne è l'ennesima prova. Non si può non vedere come viene strumentalizzata politicamente l'evasione fiscale dall'oppressore fiscale. E ciò costituisce, o dovrebbe costituire, un preoccupante problema politico per chiunque sia persuaso che siano proprio gli eccessivi livelli di spesa e di tassazione fra le principali cause della crisi italiana.
E' noto che se tutti pagassero le tasse la pressione fiscale raggiungerebbe il 60% del Pil. Senza che ciò giustifichi alcun comportamento illegale, come si fa a criticare gli italiani se, collettivamente, trattengono per sé una parte delle tasse loro richieste dallo Stato, che altrimenti ammonterebbero al 60% del loro reddito, ma ne versano comunque la ragguardevole cifra del 45%? Se per assurdo da domani tutti pagassero tutto il dovuto, la nostra economia reale oltre a quella legale collasserebbe. Una lotta all'evasione fiscale che non si accontenti di una caccia alle streghe moralista per dare sfogo alle frustrazioni e all'invidia sociale dell'opinione pubblica, ma che sia sistemica, volta cioè a debellare davvero il fenomeno, si fa abbassando il carico fiscale. Viceversa nessuno, neanche tra gli economisti più illustri, può negare che avrebbe costi enormi sul sistema produttivo del Paese.
D'altra parte, la corrispondenza - così puntuale che difficilmente può ritenersi casuale - tra l'inarrestabile ascesa della pressione fiscale e l'aumento esponenziale dell'evasione avvalora la tesi di quanti sostengono che il livello elevato della prima è la causa diretta dell'entità della seconda. In trent'anni l'evasione si è quintuplicata, passando dai 54 miliardi di euro stimati nel 1981, circa il 7-8% del Pil, ad una cifra nel 2008 - stimata ovviamente - fra i 255 e i 275 miliardi di euro. Ma dalle serie storiche sul conto economico dello Stato disponibili sul sito dell'Istat emerge che nello stesso periodo, sempre in termini assoluti, la pressione fiscale si è addirittura decuplicata, è aumentata cioè di ben 10 volte. E' passata infatti dai 63,787 miliardi di euro del 1980 ai 656,861 miliardi certificati nel 2009. In termini percentuali rispetto al Pil è passata dal 31,36% del 1980 al 43,2% del 2009 (fino al 45% previsto nel 2012-2013). Dunque, c'è almeno un motivo di consolazione: gli italiani diventano più evasori ad un ritmo comunque inferiore a quello con cui cresce la voracità dello Stato.
E come l'aumento della pressione fiscale non ha contribuito né a rendere migliori i servizi pubblici, né alla riduzione del debito, che al contrario è cresciuto di pari passo, non si vede perché dovrebbe contribuirvi il prosciugamento dell'evasione fiscale.
Thursday, January 05, 2012
Qualche domanda scomoda sull'operazione Cortina (fumogena)
Dopo Luca Ricolfi di stamattina - che si ribella al clima di caccia alle streghe che occulta il vero problema, il troppo Stato - arriva, dal suo blog, lo sfogo condivisibile di Oscar Giannino. L'operazione Cortina dell'Agenzia delle Entrate è stata un successo. Di sicuro mediatico, con meno certezza si può affermare però che lo sia stata anche nella lotta all'evasione fiscale.
Il comunicato ufficiale sui cosiddetti "risultati" dell'operazione infatti è furbetto e molto poco trasparente. E' certamente di grande impatto sapere che in presenza degli ispettori gli introiti degli esercizi commerciali raddoppiano o triplicano. Ma posto che non si può assicurare la presenza di un ispettore in ogni esercizio commerciale per 365 giorni l'anno, di per sé quei dati non provano nulla, non sono "risultati", semmai una utile base di informazioni da cui l'Agenzia delle Entrate può far partire la sua azione di contrasto. Vengono invece omessi (perché?) i veri risultati: quanti verbali per violazioni riscontrate sono stati redatti? Quanti accertamenti avviati? E ci diranno, tra qualche mese, con quali esiti? Tra l'altro, l'incrocio tra i bolidi e i redditi dichiarati dai rispettivi possessori si sarebbe potuto fare restando tranquillamente seduti nel proprio ufficio, facendo risparmiare i costi di trasferta all'amministrazione pubblica. E detto tra parentesi, un Suv medio, per esempio il Rav della Toyota, è perfettamente compatibile con un reddito di 30 mila euro se in famiglia ci sono due entrate, e non si può comunque escludere che si possa accumulare onestamente abbastanza capitale per poterselo permettere anche con quel reddito.
Più che un'operazione Cortina, dunque, quella dell'Agenzia delle Entrate appare un'operazione cortina fumogena, che si inserisce bene sia nella strategia delle burocrazie della riscossione di procedere a colpi di sicuro effetto mediatico contro ricchi e vip dello sport, dello spettacolo e della moda - vicende che spesso lontano dai riflettori si concludono con patteggiamenti patetici (per lo Stato) - sia nelle campagne di stampa volte a gettare fumo negli occhi dell'opinione pubblica, cui si offrono «capri espiatori su cui scaricare ogni responsabilità per i tempi duri che viviamo» mentre il vero colpevole - lo Stato - si allontana indisturbato con il malloppo.
Il problema, parlo almeno per me, non è difendere i grandi evasori, evidentemente delinquenti che vanno puniti severamente, ma è comprendere e correggere strutturalmente il fenomeno. Ciò che rende l'evasione fiscale in Italia enorme non sono i grandi evasori, ma l'evasione e il nero diffusi, di massa, alimentati sia da una pressione fiscale che pone le attività economiche fuori mercato, sia dall'estrema complessità del sistema, che rende quasi impossibile essere perfettamente in regola. Molto laicamente occorre riconoscere che se non si prosciuga questo tipo di evasione, lo Stato non avrà né la forza né la volontà di perseguire i veri grandi evasori e debellare sostanzialmente il fenomeno. Infatti, è enormemente più vessatorio con i piccoli, che oppongono minore resistenza e hanno meno mezzi per difendersi. Il danno comunicativo di queste operazioni è che offrono sì uno sfogo all'opinione pubblica, ma non favoriscono la consapevolezza che il problema principale del nostro Paese è la bassa produttività cui ci condanna il troppo Stato.
Il comunicato ufficiale sui cosiddetti "risultati" dell'operazione infatti è furbetto e molto poco trasparente. E' certamente di grande impatto sapere che in presenza degli ispettori gli introiti degli esercizi commerciali raddoppiano o triplicano. Ma posto che non si può assicurare la presenza di un ispettore in ogni esercizio commerciale per 365 giorni l'anno, di per sé quei dati non provano nulla, non sono "risultati", semmai una utile base di informazioni da cui l'Agenzia delle Entrate può far partire la sua azione di contrasto. Vengono invece omessi (perché?) i veri risultati: quanti verbali per violazioni riscontrate sono stati redatti? Quanti accertamenti avviati? E ci diranno, tra qualche mese, con quali esiti? Tra l'altro, l'incrocio tra i bolidi e i redditi dichiarati dai rispettivi possessori si sarebbe potuto fare restando tranquillamente seduti nel proprio ufficio, facendo risparmiare i costi di trasferta all'amministrazione pubblica. E detto tra parentesi, un Suv medio, per esempio il Rav della Toyota, è perfettamente compatibile con un reddito di 30 mila euro se in famiglia ci sono due entrate, e non si può comunque escludere che si possa accumulare onestamente abbastanza capitale per poterselo permettere anche con quel reddito.
Più che un'operazione Cortina, dunque, quella dell'Agenzia delle Entrate appare un'operazione cortina fumogena, che si inserisce bene sia nella strategia delle burocrazie della riscossione di procedere a colpi di sicuro effetto mediatico contro ricchi e vip dello sport, dello spettacolo e della moda - vicende che spesso lontano dai riflettori si concludono con patteggiamenti patetici (per lo Stato) - sia nelle campagne di stampa volte a gettare fumo negli occhi dell'opinione pubblica, cui si offrono «capri espiatori su cui scaricare ogni responsabilità per i tempi duri che viviamo» mentre il vero colpevole - lo Stato - si allontana indisturbato con il malloppo.
Il problema, parlo almeno per me, non è difendere i grandi evasori, evidentemente delinquenti che vanno puniti severamente, ma è comprendere e correggere strutturalmente il fenomeno. Ciò che rende l'evasione fiscale in Italia enorme non sono i grandi evasori, ma l'evasione e il nero diffusi, di massa, alimentati sia da una pressione fiscale che pone le attività economiche fuori mercato, sia dall'estrema complessità del sistema, che rende quasi impossibile essere perfettamente in regola. Molto laicamente occorre riconoscere che se non si prosciuga questo tipo di evasione, lo Stato non avrà né la forza né la volontà di perseguire i veri grandi evasori e debellare sostanzialmente il fenomeno. Infatti, è enormemente più vessatorio con i piccoli, che oppongono minore resistenza e hanno meno mezzi per difendersi. Il danno comunicativo di queste operazioni è che offrono sì uno sfogo all'opinione pubblica, ma non favoriscono la consapevolezza che il problema principale del nostro Paese è la bassa produttività cui ci condanna il troppo Stato.
Parassita o patriota?
Anche su Notapolitica
Dai controversi spot dell'Agenzia delle
Entrate alle martellanti campagne dei media mainstream – tra cui
purtroppo giornali e radio di Confindustria – contro l'evasione
fiscale si tende a dare troppo per scontato un assunto: che le tasse
sottratte al Fisco siano sic et simpliciter risorse sottratte
al Paese. Le interviste al direttore Attilio Befera sono un
condensato delle tipiche illusioni di onnipotenza statalista, dalle
quali deriva un sistema che prima stabilisce regole criminogene, cioè
che costringono tutti o quasi a ricorrere, o a inciampare, in piccole
grandi illegalità, e che poi pretende di perseguirle tutte.
Nell'articolo di Gramellini di ieri, su La Stampa, si
riconosce che gli italiani istintivamente avvertono lo Stato per
quello che è: un «vampiro arrogante» e una
burocrazia incapace di trasformare le tasse in servizi efficienti.
Nel manuale di educazione civica di Gramellini però, che per
fortuna gli italiani tengono impolverato sullo scaffale più
alto, c'è l'errore, anzi l'inganno concettuale che è
all'origine di tutti i mali nel difficile rapporto fra i cittadini e
lo Stato: «I cittadini sono lo Stato».
Si insinua continuamente – fin
dall'infanzia attraverso l'educazione scolastica e in età
adulta nel dibattito pubblico – questa equivalenza tra il Fisco,
cioè lo Stato, e il cosiddetto “Paese”, anzi addirittura
«i cittadini» secondo la versione Gramellini. Quando l'ho
letto mi è venuta in mente la copertina del Leviatano
di Hobbes, dove lo Stato è raffigurato come un gigante il cui
corpo è costituito da tanti piccoli omuncoli, i cittadini
appunto. Emblematico che le loro fattezze si perdano completamente
nella visione d'insieme dello Stato. Espressioni come “togliendo al
Fisco si toglie al Paese”, “i cittadini sono lo Stato”, “lo
Stato siamo noi”, ci portano dritti allo Stato etico nel senso
hegeliano del termine. Laddove lo Stato non è cosa buona e
giusta perché pensa al bene comune dei suoi cittadini, ma è
buono semplicemente perché è, è razionale perché
reale. Anzi, è il razionale nella sua forma assoluta. Insomma,
siamo all'anticamera del totalitarismo.
In una visione liberale c'è
differenza tra lo Stato, inteso come la pluralità delle
pubbliche amministrazioni, e il “Paese”. Lo Stato non siamo
“noi”. Lo Stato è un gruppo identificabile di persone, più
o meno rispettabili, chiamate – in democrazia legittimamente – ad
amministrare la cosa pubblica. Un gruppo di persone che può e
deve essere messo sul banco degli imputati dal momento in cui si
mangia la metà e oltre della ricchezza del Paese, non rispetta
il contratto con i cittadini e strangola le attività
economiche. Vedendo le cose da questa prospettiva, le tasse sono
ricchezza sottratta al Paese più di quanto lo sia l'evasione.
Un pensiero che deriva da importanti teorie politiche ed economiche e
condiviso da illustri studiosi.
In un'intervista al Corriere della
Sera nel 1994 il Nobel per l'economia Milton Friedman spiegava
come l'Italia avesse “retto” fino ad allora grazie alla ricchezza
sottratta alla voracità e all'inefficienza dello Stato:
«Guardi che l'Italia è molto più libera di quel che voi credete, grazie al mercato nero e all'evasione fiscale. Il mercato nero e l'evasione fiscale hanno salvato il vostro Paese, sottraendo ingenti capitali al controllo delle burocrazie statali. E per questo io ho più fiducia nell'Italia di quel che si possa avere dalle statistiche, che sono pessimiste. Il vostro mercato nero è un modello di efficienza. Il governo un modello di inefficienza. In certe situazioni un evasore è un patriota».
Mettiamoci d'accordo, dunque. La
situazione italiana è tale per cui un evasore oggi è
più un parassita o più un patriota? Nonostante l'enorme
ricchezza sottratta al Paese lo Stato offre servizi insoddisfacenti,
anzi spesso dannosi, e rischia di trascinarci nella sua bancarotta.
Questo dovrebbe essere il tema dibattuto fino alla noia in queste
settimane. Purtroppo invece le martellanti campagne anti-casta e
anti-evasione dei principali quotidiani italiani stanno funzionando
come armi di distrazione di massa. Ci accapigliamo su chi deve pagare
più tasse, su quali nuovi balzelli inventarci, l'opinione
pubblica sfoga la propria frustrazione e le proprie paure nella
caccia all'evasore (guarda caso sempre il vicino di casa), perdendo
di vista il vero problema, che è lo Stato. I suicidi degli
imprenditori sono una tragedia umana ma anche una denuncia politica
non violenta, eppure vengono commentati come se fossero dei fatti di
cronaca. In Italia di tasse e di fisco – non di crisi economica –
si muore.
Cielo plumbeo su di noi
Dieci, cento, mille Luca Ricolfi ci vorrebbero. Il suo articolo di oggi, su La Stampa, è uno squarcio di libertà nel velo statalista che le burocrazie della riscossione, i grandi giornali e l'informazione televisiva e radiofonica hanno alzato sugli occhi degli italiani. Diventa sempre più evidente, infatti, che le veementi campagne anti-casta e anti-evasione fiscale sono l'oppio che i media mainstream stanno vendendo da alcuni anni al popolo italiano. Gli offrono i capri espiatori contro cui sfogare le proprie paure e frustrazioni, ma lo distraggono dal bersaglio grosso, dai veri costi della politica e dalle reali ragioni della crisi del nostro modello economico e sociale: il troppo Stato.
La premessa da cui parte Ricolfi è proprio la denuncia di un clima pesante, «una plumbea nuvola di cecità e di conformismo», per cui «ci sono cose che oggi non si possono dire». Ma lui le dice: abbiamo bisogno di «capri espiatori su cui scaricare ogni responsabilità per i tempi duri che viviamo». E in questo clima deresponsabilizzante sfugge nel dibattito pubblico il dato cruciale: il problema di competitività della nostra economia è quasi esclusivamente legato all'eccesso del peso statale.
«La pressione fiscale sull'economia regolare è la più alta del mondo sviluppato (intorno al 60%), e così il livello di tassazione sulle imprese, il cosiddetto Total Tax Rate (68.6%)... Questo livello abnorme di tassazione si accompagna da sempre a norme vessatorie nei confronti di qualsiasi violazione (anche solo formale, o di entità irrisoria) delle regole fiscali, per non parlare dei comportamenti arroganti, intimidatori, o semplicemente umilianti degli emissari del fisco, che ovviamente non sono la regola ma di cui esistono purtroppo innumerevoli testimonianze, talora drammatiche e commoventi».Per cui, prosegue Ricolfi, «oggi in Italia un sentimento di paura verso l'amministrazione pubblica è ampiamente giustificato anche quando non si sia commesso alcun errore, reato o violazione. E tutto mi fa pensare che, affamato da decenni di spesa pubblica in deficit, lo Stato stia in questi anni accentuando il suo volto rapace e intimidatorio». Visto che non può più spendere in deficit, invece di tagliare la spesa si accanisce sui contribuenti. Per non parlare della «strabica selettività della repressione dell'evasione». Il fatto è che «se volesse intervenire contro l'illegalità, lo Stato dovrebbe militarizzare circa un quarto del territorio nazionale, e distruggere un paio di milioni di posti di lavoro, che si reggono sui bassi salari». E qui veniamo alla citazione di Milton Friedman sul mercato nero e l'evasione come resistenza naturale, dal basso, contro la voracità e l'inefficienza statale. Il fatto è, conclude Ricolfi, che «lavorare e produrre in Italia sta diventando sempre più proibitivo sul piano dei costi di produzione»: salari e profitti sono troppo tassati; vincoli troppo rigidi; poca concorrenza. E allora o ci si difende come si può, anche travalicando i confini della legalità fiscale, o si chiude bottega (magari per riaprirla all'estero, chi può).
«Fatti 100 i costi unitari dei Paesi a noi più comparabili (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna), i costi dell'Italia sono circa 120 per la benzina, 170 per il gasolio, 250 per l'energia elettrica, 300 per i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, 400 per il rispetto dei contratti... Se poi a tutto questo aggiungiamo la tassazione più pesante del mondo sviluppato, la rigidità del nostro mercato del lavoro regolare, l'enorme prelievo sul reddito e sulla ricchezza operato con le ultime manovre, il quadro si capovolge: la domanda non è più perché l'Italia non cresce, ma perché i produttori non hanno ancora gettato la spugna».Il problema della produttività e della competitività del sistema sta dunque essenzialmente nel peso dello Stato. Ben vengano le liberalizzazioni. Consapevoli però che non saranno certo gli orari di apertura dei negozi, i farmaci di fascia C o qualche centinaia di taxi in più il motore della ripresa. Ben più pesanti sarebbero le liberalizzazioni del mercato del lavoro, dei trasporti, dell'energia, dei servizi pubblici locali e dei servizi educativi, in cui si annidano i veri, sistemici costi della politica, e la cancellazione degli ordini professionali e di alcuni esami di Stato inutili. Ma il punto decisivo resta il troppo Stato, le troppe tasse che gravano sui ceti produttivi.
Tuesday, January 03, 2012
Tirannia fiscale
Stamattina, quando ho letto sul Corriere della Sera il titolo dell'articolo di Dario Di Vico, ho davvero pensato/sperato che avesse usato un'espressione così forte («una vera campagna terroristica») per denunciare i livelli di pressione fiscale cui siamo arrivati e le armi di cui si è dotato il Fisco, che somiglia sempre più ad uno sceriffo di Nottingham e che fa più morti (per ora) degli anarchici. Invece no, si riferiva agli attentati contro Equitalia. Ho postato ugualmente la mia riflessione su Twitter (@jimmomo) e ne è nato un breve scambio di battute con Di Vico, che mi invitava a distinguere tra le bande armate e le policy sbagliate e a rileggere il suo fondo sul suicidio dell'imprenditore Schiavon.
Quando si tratta di buste esplosive o proiettili, la matrice anarchica, quindi eversiva, è indubbia. Non mi sorprenderei se invece dietro i diffusi atti, più simili al vandalismo, contro le sedi di Equitalia non vi fossero «bande armate», bensì gesti isolati dettati dall'esasperazione individuale. Ovviamente non sto giustificando alcun atto di violenza e intimidazione contro Equitalia. Tra l'altro, i mezzi sono patetici, perché oggi la tecnologia consente attacchi molto più efficaci, per bloccarne l'operatività, e "non violenti", senza nuocere all'incolumità di alcuno.
Semplicemente mi aspetterei dalla stampa articoli e denunce contro la tirannia fiscale in Italia, che sta strangolando l'economia ma anche distruggendo vite in carne e ossa. E che Equitalia non sia una società privata, ma statale, come si preoccupa di precisare oggi Di Vico, è un'aggravante certamente per gli attentatori, ma anche rispetto a certi suoi comportamenti persecutori. Un esempio illuminante della «campagna terroristica» del Fisco contro i cittadini è quanto avvenuto a Cortina fra il 30 e il 31 dicembre, quando 80 ispettori hanno rastrellato indiscriminatamente negozi e alberghi.
Un'azione più che altro dimostrativa, ma proprio per questo ancor più inquietante, perché rivela la natura ideologica ormai assunta dalla lotta all'evasione fiscale. Ieri, su Il Messaggero, usciva questa intervista ad Attilio Befera, direttore dell'Agenzia delle Entrate, il tipico delirio d'onnipotenza statalista, con tutti i presupposti dello Stato totalitario.
Dietro tutto questo si nasconde un inganno, e cioè che le tasse sottratte al Fisco siano sic et simpliciter risorse sottratte al Paese. Il che insinua un'equivalenza concettualmente sbagliata, inesistente, tra il Fisco, cioè lo Stato, e il cosiddetto "Paese", la comunità di uomini e donne che vivono sul territorio italiano. Le tasse sono ricchezza sottratta al Paese più di quanto lo sia l'evasione. C'è differenza tra lo Stato, inteso come la pluralità delle pubbliche amministrazioni, e il "Paese". Lo Stato non siamo "noi". Lo Stato è un gruppo identificabile di persone, più o meno rispettabili, chiamate - in democrazia legittimamente - ad amministrare la cosa pubblica. Un gruppo di persone che può e deve essere messo sul banco degli imputati dal momento in cui si mangia la metà e oltre della ricchezza del Paese, non rispetta il contratto con i cittadini e strangola le attività economiche.
Nonostante l'enorme ricchezza sottratta al Paese lo Stato offre servizi insoddisfacenti, anzi spesso dannosi, e rischia di trascinarci nella sua bancarotta. Questo dovrebbe essere il tema dibattuto fino alla noia in queste settimane. Purtroppo invece le martellanti campagne anti-casta e anti-evasione dei principali quotidiani italiani - anche di quelli della "borghesia" e del mondo produttivo - stanno funzionando come armi di distrazione di massa, come gazzette di Nottingham. Se nel primo articolo del 2012 Alesina e Giavazzi devono ripartire dall'abc - spiegando agli italiani che «demonizzare» la ricchezza è «pericoloso» - e se da almeno dieci anni scrivono le stesse cose e avanzano le stesse proposte, non è certo colpa loro. E' il segno dell'arretratezza italiana e del persistente analfabetismo economico degli italiani. Che vengono indotti ad accapigliarsi su chi deve pagare più tasse e su quali nuove tasse inventarci, a sfogarsi nella caccia all'evasore (guarda caso sempre il vicino di casa), e ad allontanarsi, invece, dal vero problema, che è lo Stato. I suicidi degli imprenditori sono una tragedia umana ma anche una denuncia politica non violenta, eppure vengono commentati come se fossero dei fatti di cronaca. In Italia di tasse e di fisco - non di crisi economica - si muore.
Quando si tratta di buste esplosive o proiettili, la matrice anarchica, quindi eversiva, è indubbia. Non mi sorprenderei se invece dietro i diffusi atti, più simili al vandalismo, contro le sedi di Equitalia non vi fossero «bande armate», bensì gesti isolati dettati dall'esasperazione individuale. Ovviamente non sto giustificando alcun atto di violenza e intimidazione contro Equitalia. Tra l'altro, i mezzi sono patetici, perché oggi la tecnologia consente attacchi molto più efficaci, per bloccarne l'operatività, e "non violenti", senza nuocere all'incolumità di alcuno.
Semplicemente mi aspetterei dalla stampa articoli e denunce contro la tirannia fiscale in Italia, che sta strangolando l'economia ma anche distruggendo vite in carne e ossa. E che Equitalia non sia una società privata, ma statale, come si preoccupa di precisare oggi Di Vico, è un'aggravante certamente per gli attentatori, ma anche rispetto a certi suoi comportamenti persecutori. Un esempio illuminante della «campagna terroristica» del Fisco contro i cittadini è quanto avvenuto a Cortina fra il 30 e il 31 dicembre, quando 80 ispettori hanno rastrellato indiscriminatamente negozi e alberghi.
Un'azione più che altro dimostrativa, ma proprio per questo ancor più inquietante, perché rivela la natura ideologica ormai assunta dalla lotta all'evasione fiscale. Ieri, su Il Messaggero, usciva questa intervista ad Attilio Befera, direttore dell'Agenzia delle Entrate, il tipico delirio d'onnipotenza statalista, con tutti i presupposti dello Stato totalitario.
Dietro tutto questo si nasconde un inganno, e cioè che le tasse sottratte al Fisco siano sic et simpliciter risorse sottratte al Paese. Il che insinua un'equivalenza concettualmente sbagliata, inesistente, tra il Fisco, cioè lo Stato, e il cosiddetto "Paese", la comunità di uomini e donne che vivono sul territorio italiano. Le tasse sono ricchezza sottratta al Paese più di quanto lo sia l'evasione. C'è differenza tra lo Stato, inteso come la pluralità delle pubbliche amministrazioni, e il "Paese". Lo Stato non siamo "noi". Lo Stato è un gruppo identificabile di persone, più o meno rispettabili, chiamate - in democrazia legittimamente - ad amministrare la cosa pubblica. Un gruppo di persone che può e deve essere messo sul banco degli imputati dal momento in cui si mangia la metà e oltre della ricchezza del Paese, non rispetta il contratto con i cittadini e strangola le attività economiche.
Nonostante l'enorme ricchezza sottratta al Paese lo Stato offre servizi insoddisfacenti, anzi spesso dannosi, e rischia di trascinarci nella sua bancarotta. Questo dovrebbe essere il tema dibattuto fino alla noia in queste settimane. Purtroppo invece le martellanti campagne anti-casta e anti-evasione dei principali quotidiani italiani - anche di quelli della "borghesia" e del mondo produttivo - stanno funzionando come armi di distrazione di massa, come gazzette di Nottingham. Se nel primo articolo del 2012 Alesina e Giavazzi devono ripartire dall'abc - spiegando agli italiani che «demonizzare» la ricchezza è «pericoloso» - e se da almeno dieci anni scrivono le stesse cose e avanzano le stesse proposte, non è certo colpa loro. E' il segno dell'arretratezza italiana e del persistente analfabetismo economico degli italiani. Che vengono indotti ad accapigliarsi su chi deve pagare più tasse e su quali nuove tasse inventarci, a sfogarsi nella caccia all'evasore (guarda caso sempre il vicino di casa), e ad allontanarsi, invece, dal vero problema, che è lo Stato. I suicidi degli imprenditori sono una tragedia umana ma anche una denuncia politica non violenta, eppure vengono commentati come se fossero dei fatti di cronaca. In Italia di tasse e di fisco - non di crisi economica - si muore.
Subscribe to:
Posts (Atom)