Dieci, cento, mille
Luca Ricolfi ci vorrebbero. Il suo
articolo di oggi, su
La Stampa, è uno squarcio di libertà nel velo statalista che le burocrazie della riscossione, i grandi giornali e l'informazione televisiva e radiofonica hanno alzato sugli occhi degli italiani. Diventa sempre più evidente, infatti, che le veementi campagne anti-casta e anti-evasione fiscale sono l'oppio che i media mainstream stanno vendendo da alcuni anni al popolo italiano. Gli offrono i capri espiatori contro cui sfogare le proprie paure e frustrazioni, ma lo distraggono dal bersaglio grosso, dai veri costi della politica e dalle reali ragioni della crisi del nostro modello economico e sociale: il troppo Stato.
La premessa da cui parte Ricolfi è proprio la denuncia di un clima pesante, «una plumbea nuvola di cecità e di conformismo», per cui «ci sono cose che oggi non si possono dire». Ma lui le dice: abbiamo bisogno di «capri espiatori su cui scaricare ogni responsabilità per i tempi duri che viviamo». E in questo clima deresponsabilizzante sfugge nel dibattito pubblico il dato cruciale: il problema di competitività della nostra economia è quasi esclusivamente legato all'eccesso del peso statale.
«La pressione fiscale sull'economia regolare è la più alta del mondo sviluppato (intorno al 60%), e così il livello di tassazione sulle imprese, il cosiddetto Total Tax Rate (68.6%)... Questo livello abnorme di tassazione si accompagna da sempre a norme vessatorie nei confronti di qualsiasi violazione (anche solo formale, o di entità irrisoria) delle regole fiscali, per non parlare dei comportamenti arroganti, intimidatori, o semplicemente umilianti degli emissari del fisco, che ovviamente non sono la regola ma di cui esistono purtroppo innumerevoli testimonianze, talora drammatiche e commoventi».
Per cui, prosegue Ricolfi, «oggi in Italia un sentimento di paura verso l'amministrazione pubblica è ampiamente giustificato anche quando non si sia commesso alcun errore, reato o violazione. E tutto mi fa pensare che, affamato da decenni di spesa pubblica in deficit, lo Stato stia in questi anni accentuando il suo volto rapace e intimidatorio». Visto che non può più spendere in deficit, invece di tagliare la spesa si accanisce sui contribuenti.
Per non parlare della «strabica selettività della repressione dell'evasione». Il fatto è che «se volesse intervenire contro l'illegalità, lo Stato dovrebbe militarizzare circa un quarto del territorio nazionale, e distruggere un paio di milioni di posti di lavoro, che si reggono sui bassi salari». E qui veniamo alla
citazione di Milton Friedman sul mercato nero e l'evasione come resistenza naturale, dal basso, contro la voracità e l'inefficienza statale.
Il fatto è, conclude Ricolfi, che «lavorare e produrre in Italia sta diventando sempre più proibitivo sul piano dei costi di produzione»: salari e profitti sono troppo tassati; vincoli troppo rigidi; poca concorrenza. E allora o ci si difende come si può, anche travalicando i confini della legalità fiscale, o si chiude bottega (magari per riaprirla all'estero, chi può).
«Fatti 100 i costi unitari dei Paesi a noi più comparabili (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna), i costi dell'Italia sono circa 120 per la benzina, 170 per il gasolio, 250 per l'energia elettrica, 300 per i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, 400 per il rispetto dei contratti... Se poi a tutto questo aggiungiamo la tassazione più pesante del mondo sviluppato, la rigidità del nostro mercato del lavoro regolare, l'enorme prelievo sul reddito e sulla ricchezza operato con le ultime manovre, il quadro si capovolge: la domanda non è più perché l'Italia non cresce, ma perché i produttori non hanno ancora gettato la spugna».
Il problema della produttività e della competitività del sistema sta dunque essenzialmente nel peso dello Stato. Ben vengano le liberalizzazioni. Consapevoli però che non saranno certo gli orari di apertura dei negozi, i farmaci di fascia C o qualche centinaia di taxi in più il motore della ripresa. Ben più pesanti sarebbero le liberalizzazioni del mercato del lavoro, dei trasporti, dell'energia, dei servizi pubblici locali e dei servizi educativi, in cui si annidano i veri, sistemici costi della politica, e la cancellazione degli ordini professionali e di alcuni esami di Stato inutili. Ma il punto decisivo resta il troppo Stato, le troppe tasse che gravano sui ceti produttivi.
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