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Tempo di primi bilanci. Il governo Monti ha fatto molto, molto più di quanto non siano riusciti a fare i governi di centrodestra e di centrosinistra: in soli due mesi ha praticamente abolito le pensioni d'anzianità, ha deciso lo scorporo tra Snam rete gas ed Eni (unica misura di peso del dl liberalizzazioni, per il resto deludente) e qualche sorpresa positiva potrebbe riservarla il dl semplificazione in esame oggi. Tuttavia, nell'emergenza, appena insediato, ha preferito inseguire il pareggio di bilancio a suon di tasse anziché di tagli alla spesa e la strategia complessiva sembra quella di ridurre il debito molto gradualmente, attraverso avanzi primari – che senza crescita potrebbero essere mantenuti solo con nuove e sempre più recessive tasse – piuttosto che aggredendone lo stock con un massiccio programma di dismissioni.
Un tema centrale per la crescita sarà in cima all'agenda del governo nelle prossime settimane: la riforma del mercato del lavoro, madre di tutte le liberalizzazioni. Nella lettera di intenti all'Ue il governo italiano si è impegnato ad attuare «entro maggio 2012 una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato», in ottemperenza a quanto chiesto dalla Bce nella lettera riservata di agosto: maggiore flessibilità in uscita a fronte di un sistema di assicurazione dalla disoccupazione diverso dalla cassa integrazione (che tra l'altro copre una minima parte dei lavoratori), che faciliti la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi.
La concertazione tra il ministro del lavoro Elsa Fornero e le parti sociali è partita col piede sbagliato e rischia di portarci nella direzione esattamente opposta – più rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica – ossia verso la Grecia. «L'unico risultato positivo dell'incontro – ha dichiarato il segretario Cisl Raffaele Bonanni – è stata la convergenza e le posizioni sostanzialmente comuni di tutti i sindacati e di tutte le associazioni datoriali. (...) Se tutte le parti sociali difendono l'attuale modello, che ha funzionato e funziona bene, non si capisce proprio perché bisognerebbe mettere tutto in discussione». Revisione dell'articolo18 e cancellazione della cassa integrazione straordinaria sono «temi fuori agenda», ha intimato Bersani. Le dichiarazioni degli industriali, in particolare della presidente Marcegaglia e di uno dei candidati alla successione, Giorgio Squinzi, sembrano dello stesso tenore. A chiedere la riforma, superando l'art. 18, addirittura «per decreto» è Maurizio Sacconi. Richiesta strumentale ad inguaiare il Pd e pulpito poco credibile, dal momento che da ministro del Welfare solo due anni fa, nel 2009, Sacconi teorizzava che «in tempo di crisi non possono essere all'ordine del giorno né riforme degli ammortizzatori sociali, né dell'articolo 18 né dellle pensioni». Insieme a Tremonti uno dei principali responsabili dell'immobilismo del precedente governo e della crisi d'identità del Pdl.
Sindacati e Confindustria mostrano quindi di volersi attestare su una linea di difesa dello status quo, confermandosi entrambi, al dunque, fattori di conservatorismo sociale ed economico. Nel presunto interesse dei loro iscritti, rischiano però di danneggiare l'intero Paese. Hanno il diritto di bloccare le riforme in un settore di cui si sentono attori esclusivi ma che di fatto ha un valore strategico per l'intera nazione? Oppure forse il governo ha il dovere di superare queste resistenze con le buone o con le cattive?
Se poi nemmeno il governo ha intenzione di toccare l'art. 18 e la cassa integrazione, allora sarebbe più onesto richiudere il capitolo e ammettere che non vogliamo ottemperare agli impegni assunti con l'Ue, che non vogliamo fare i cosiddetti "compiti a casa", che invece in tutte le occasioni il premier Monti e i suoi ministri, i partiti e i media spacciano per fatti.
Non c'è chiarezza su quale sia la base di partenza del governo e quale la sua linea del Piave. Qualsiasi concessione nel senso di maggiori rigidità rispetto al modello di flexsecurity proposto da Pietro Ichino (che supera sia l'art. 18 sia la cassa integrazione) sarebbe un fallimento, mentre il ddl Nerozzi, ispirato al progetto Boeri-Garibaldi, sarebbe il disastro: contratto unico con triennio d'inserimento, dopo di ché articolo 18 per tutti (anche sotto i 15 dipendenti). Sul fronte degli ammortizzatori sociali, la cassa integrazione andrebbe superata a favore di un sussidio di disoccupazione che tuteli il lavoratore, e non il posto di lavoro, favorendo quindi la sua riallocazione e una rapida ristrutturazione dell'azienda. E' il progetto Ichino a prevederlo, anche se forse troppo generosamente per entità dell'assegno e durata. Ben diverso sarebbe il reddito minimo garantito o di cittadinanza, che rischia di disincentivare l'occupazione, dando vita a forme di puro assistenzialismo e ad abusi di ogni tipo, e di dissestare le casse pubbliche.
Non esiste riforma del lavoro nella direzione auspicata dall'Ue e dalla Bce senza eliminare l'articolo 18 (nei licenzialmenti per motivi economici) e rivedere gli ammortizzatori sociali. Meglio nessuna riforma piuttosto che un annacquamento o, addirittura, una restaurazione di rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica, perché si chiuderebbe il capitolo per chissà quanti anni perdendo un'occasione forse irripetibile.
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