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Un Paese, l'Italia, e un continente, l'Europa, in preda allo sconforto, allo psicodramma, che piuttosto che guardare in faccia alle proprie inadeguatezze gridano al complotto. Prima il governo Berlusconi, adesso anche a Bruxelles e nel governo Monti si fa strada la tentazione di parlare di un «attacco politico» alla Ue, all'euro, per mano dei perfidi anglo-americani naturalmente. Fosse mai che chi è al potere preferisce sempre letture autoassolutorie? Con l'euro noi italiani saremmo dovuti diventare sempre più "europei" e invece vediamo come sia l'Europa a imbarcare le cattive abitudini della politica nostrana. Il morbo italiano del cialtronismo economico e dell'indecisionismo politico si diffonde.
AGENZIE DI RATING - E' che proprio quando ci sembrava di aver intrapreso la strada giusta, è arrivata la mazzata di Standard & Poor's, e in molti ci hanno visto un fumus persecutionis. C'è chi festeggia perché il supponente Sarkozy ha perso la sua tripla A, mentre noi scivoliamo meritatamente in serie B. Se non altro questo doppio downgrade dovrebbe far tornare il senno - ma non c'illudiamo affatto - a chi nell'azione delle agenzie di rating vede di volta in volta, a seconda delle proprie preferenze/appartenenze politiche, complotti o bocciature "politiche" in senso stretto. Quando al governo c'era Berlusconi, i suoi amici vi vedevano un complotto ai suoi danni e i suoi nemici una bocciatura personale, tanto che solo le sue dimissioni dovevano valere - stabilmente - chissà quanti punti di spread in meno; oggi i ruoli si sono invertiti e questo spiega perché i primi festeggiano, vedendo il governo Monti raggelato dal doppio declassamento, mentre i secondi si chiudono a riccio a difesa del professore e cominciano ad adombrare ipotesi di complotto, a delegittimare le agenzie di rating laddove prima le usavano come clave contro Berlusconi. Sul Corriere il solito Mucchetti, ma persino sul Sole24Ore fioccano le dietrologie («chi c'è dietro», le «nuove superpotenze», «qualcosa di marcio») e si invoca una riforma per «tagliare» il loro «strapotere». Ovviamente la credibilità di letture dettate dal pregiudizio politico è comunque inferiore a quella delle agenzie di rating. Il problema dell'Italia non era (almeno non principalmente) l'uomo Berlusconi, così come oggi sarebbe idiota sostenere che il grande bocciato sia Monti.
Se alle agenzie di rating si possono muovere delle critiche, queste riguardano le fughe di notizie a mercati aperti, lo stillicidio incontrollato di voci che durano a volte per settimane, e il tempismo delle loro decisioni, che quasi sempre ormai non anticipano le mutate condizioni di rischio, ma giungono quando sono state già scontate dai mercati, contribuendo solo ad aumentare nervosismo e pessimismo. Può darsi, insomma, che questi declassamenti giungano con un ritardo di due mesi, mentre non tengano in debito conto dei miglioramenti in prospettiva. Ma se si limitano a ratificare le sentenze già emesse dai mercati e sono sempre meno capaci di prevedere, di anticipare e quindi in parte influenzare le dinamiche, dov'è il complotto? Giusto quindi mettere in dubbio l'attendibilità delle agenzie di rating, criticare i loro giudizi, ma demonizzarle equivale in realtà a divinizzarle. E soprattutto, da parte dei politici suona come uno scaricabarile.
L'ANALISI DI S&P - Proprio perché in ritardo di un paio di mesi, nel merito l'analisi di S&P sull'Europa, e sull'Italia in particolare, è difficilmente contestabile. Potrebbe sembrare contraddittoria, laddove da un lato rimprovera le istituzioni Ue di riconoscere «soltanto parzialmente la vera causa della crisi, cioè la sregolatezza fiscale alla periferia dell'Eurozona», e dall'altro che la crisi è «altrettanto una conseguenza dei crescenti squilibri esterni e delle divergenze di competitività tra il cuore dell'unità monetaria e la cosiddetta periferia». In realtà è semplicemente il quadro di una realtà complessa, in cui «sregolatezza fiscale» e scarsa competitività sono due facce della stessa medaglia. Da ciò ne deriva che ridotte all'osso le conclusioni di S&P appaiono abbastanza banali: senza la crescita non c'è austerità fiscale che tenga, anzi può rivelarsi persino «controproducente», rendendo possibile l'ulteriore deterioramento delle finanze statali come conseguenza di un contesto macroeconomico maggiormente recessivo.
Alla governance dell'Ue, e alle classi politiche degli Stati membri, si rimprovera di non riconoscere fino in fondo questo rischio, quindi di agire con «un approccio a senso unico che enfatizza l'austerità fiscale senza un forte e consistente programma per aumentare il potenziale di crescita delle economie dell'Eurozona». Ecco perché non si ritiene che il cosiddetto fiscal compact possa bastare a far tornare la fiducia. Tra le riforme necessarie si citano le liberalizzazioni del mercato del lavoro e dei settori dei servizi, che però non sembrano coordinate a livello sovranazionale come dovrebbero. Mentre per alcuni Paesi l'alto debito pubblico è il fattore chiave della crisi, per l'Eurozona nel suo complesso è una crescente divergenza di competitività tra centro e periferia.
L'ITALIA - Purtroppo l'Italia soffre di entrambi i mali, dunque la sua terapia è più problematica. L'analisi di S&P viene accusata di «incoerenza», perché a settembre, viene ricordato dal Corriere della Sera, «gli analisti dell'agenzia motivarono una bocciatura in arrivo con "rischi per gli obiettivi di bilancio", con "incertezze sull'attuazione di misure a favore della crescita" e con il "blocco della situazione politica" che potrebbe "ritardare le risposte alle sfide"». Ma chiediamoci: è proprio vero, come scrive Fubini, che «da allora tutti questi elementi di vulnerabilità sono stati ridotti o eliminati dall'Italia»? No, è falso, persistono tutti. Persistono i "rischi per gli obiettivi di bilancio", dal momento che con i pesanti effetti recessivi di una manovra tutta tasse, e senza ancora riforme per la crescita, il calo del Pil quest'anno sarà molto peggiore di quello previsto (-2% e non -0,5), rendendo l'azzeramento del deficit nel 2013 una chimera. Né al momento appaiono sgombrate le "incertezze sull'attuazione di misure a favore della crescita", visto che siamo sotto schiaffo dei tassisti e i sindacati pare siano riusciti a far uscire l'art. 18 dall'agenda del governo. Insomma, c'è poco o nulla nell'attuale quadro politico italiano che renda ottimisti sulla realizzazione delle liberalizzazioni e di una riforma pro-crescita del mercato del lavoro.
Ciò non contraddice affatto l'apertura di credito che l'agenzia concede al governo Monti, elogiato anziché bocciato. E' indubbio che Monti venga visto come più autorevole e credibile di Berlusconi, e S&P lo riconosce esplicitamente, come mesi fa riconosceva le politiche nella giusta direzione del precedente governo. Riconosce a Monti (e Rajoy) di aver «avviato iniziative per modernizzare l'economia e assicurare la sostenibilità delle finanze pubblice nel lungo periodo»; riconosce che «la gestione politica interna della crisi è notevolmente migliorata in Italia»; e addiritttura che «l'indebolimento del quadro politico europeo viene in sufficiente misura compensato dalla più forte capacità dell'Italia di formulare e implementare politiche anticrisi». Ma era, ed è evidente che ciò non basta, perché come ripetiamo da settimane il problema italiano è un blocco sistemico, che va al di là dei singoli partiti e delle personalità politiche, e i mercati l'hanno ben presente. Avrebbero commesso un grave errore Monti, e con lui tutti i suoi sostenitori, politici e mediatici, se avessero creduto che potesse bastare l'autorevolezza della sua figura per ottenere uno sconto sui tassi d'interesse.
Ricapitolando: 1) S&P non dice che non ci voglia austerità fiscale, ma che "solo" quella sarebbe controproducente. E non è certo Berlino che impedisce agli altri Stati di accompagnare il rigore con riforme strutturali pro-crescita, o di conseguire il pareggio di bilancio tagliando la spesa pubblica improduttiva invece che a suon di tasse, che hanno effetti ben più recessivi; 2) S&P riconosce la diversità da Paese a Paese dei fattori chiave della crisi: ci sono Paesi il cui problema principale è il debito elevato, altri per cui è il gap di competitività. Si dà il caso che per l'Italia siano entrambi. Appare incomprensibile quindi come l'Italia possa sostenere di aver fatto i "compiti a casa" se: 2a) non ha toccato lo stock di debito e pare si rifiuti di farlo; 2b) invece di tagliare la spesa aumenta le tasse accrescendo l'impatto recessivo dell'austerità fiscale; 2c) sulla crescita siamo ancora ai tavoli e alle concertazioni, cioè alle chiacchiere, e non saranno certo i farmaci di fascia C venduti all'Ipercoop a rilanciare il nostro Pil, semmai liberalizzazioni radicali: lavoro, professioni, municipalizzate, reti.
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