Anche su Notapolitica
L'Italia continua a precipitare nell'Index of Economic Freedom, l'indice della libertà economica nel mondo, elaborato ogni anno da Heritage Foundation e Wall Street Journal. Un vero e proprio tracollo dal 42° posto nel 2006 al 92° di quest'anno su 179 Paesi esaminati (60° nel 2007, 64° nel 2008, 76° nel 2009, 74° nel 2010 e 87° nel 2011). Ma la notizia del 2012 è che per la prima volta il nostro Paese compare nella fascia dei Paesi definiti «mostly unfree» («essenzialmente non liberi»). Siamo scivolati, infatti, nel punteggio complessivo, al di sotto della soglia 60, al 58,8 (-1,5 rispetto al 60,3 dello scorso anno), mentre da anni, anche se con un punteggio non molto superiore, riuscivamo a restare almeno nella fascia dei Paesi «moderatamente liberi» (tra i 60 e i 69,9 punti). Ormai lontanissimi dal punteggio medio delle economie definite «libere» (84,7), siamo leggermente sotto la media mondiale, che è di 59,5, in compagnia di Gambia, Honduras e Azerbaijan, mentre persino Kirghizistan e Burkina Faso risultano avere economie più libere della nostra. Tra i 43 Paesi della regione europea, il cui punteggio medio è 66,1, ci piazziamo al 36° posto, davanti a Grecia, Serbia, Bosnia, Moldova, Russia, Ucraina e Bielorussia, mentre solo la Grecia fa peggio di noi tra i Paesi Ue. Il ranking peggiora a livelli impressionanti se osserviamo in particolare tre parametri. Per la pressione fiscale siamo al 169° posto su 179 Paesi e per la spesa pubblica al 168°, in questo caso in compagnia di molti Paesi europei. Molto male anche il grado di libertà del mercato del lavoro (153° posto).
Si dirà che si tratta di realtà non comparabili, ma non bisogna confondere questo indicatore con la ricchezza o l'industrializzazione dei Paesi. Il suo obiettivo è misurare il grado di libertà dei sistemi economici. Dunque – almeno per chi crede che più libera è un'economia maggiori sono le sue possibilità di crescere – misura semmai una tendenza alla prosperità. In questo senso va forse letto un altro dato che emerge dalla classifica di quest'anno: l'avanzata dei Paesi asiatici, africani e sudamericani, segno che sempre più Paesi in via di sviluppo individuano nelle politiche di maggiore libertà economica quelle più appropriate per favorire lo sviluppo, mentre tra i Paesi occidentali, anche a causa del ruolo dei governi nella crisi, è in corso il processo inverso e tutti arretrano nel ranking generale. Solo cinque Paesi si situano nella prima fascia, quella dei «liberi»: i primi due sono asiatici (Hong Kong e Singapore), al terzo e quarto posto troviamo i due Paesi più grandi dell'Oceania (Australia e Nuova Zelanda) e al quinto la Svizzera, prima tra gli europei. Per la prima volta in assoluto fa il suo ingresso nella top ten, piazzandosi all'ottavo posto, un Paese dell'Africa sub-sahariana: le Mauritius. Tra i primi dieci anche Canada (6°), Cile (7°), Irlanda (9°) e gli Stati Uniti (10°), che ci rientrano per un soffio, lo 0,1 che li separa dalla Danimarca (11°), molto citata da noi per il suo modello di flexsecurity. Dei 23 Paesi nella fascia degli «essenzialmente liberi» 13 sono europei (tra cui la sorpresa Islanda e 8 dell'area euro), 3 asiatici (Taiwan, Macau e Giappone), 2 nordamericani (Canada e Usa), 2 sudamericani (Cile e l'ormai nota Saint Lucia, che si piazza tra Giappone e Germania!), 2 arabi (Bahrein e Qatar) e uno africano.
Ma è tra i «moderatamente liberi» che si registra l'exploit degli Stati africani, asiatici e mediorientali: new entry Marocco, Ghana e Mongolia. Si confermano migliorando il loro punteggio Uganda, Madagascar, Ruanda, Kazakistan, Thailandia, Malesia, Panama, Costa Rica, Perù e Barbados. Mentre sono ormai vicini a superare la soglia dei 70 punti, quindi ad entrare tra i Paesi «essenzialmente liberi», Corea del Sud, Giordania (primo tra i Paesi arabi non ricchi di petrolio), Botswana ed Emirati Arabi Uniti.
Tornando al giudizio sul nostro Paese, l'ulteriore perdita di posizioni è in particolare dovuta al peggioramento nel controllo della spesa pubblica (-9,2), che ha raggiunto il 51,8% del Pil, nella libertà dalla corruzione (-4) e nella rigidità del mercato del lavoro (-1,4). Il debito continua ad essere troppo elevato così come la pressione fiscale, nel 2011 salita al 43,5% del Pil. Per quanto riguarda lo stato di diritto, diritti di proprietà e contratti sono tutelati, ma i procedimenti giudiziari restano estremamente lenti e l'ordinamento legale è vulnerabile a interferenze politiche. La complessità del quadro normativo e delle procedure amministrative aumenta i costi delle attività produttive, danneggiandone la competitività. La sorpresa è che nonostante il governo punti sulle liberalizzazioni come priorità per la crescita, i punteggi migliori l'Italia li ottiene proprio nel capitolo sull'apertura dei mercati. La libertà di commercio riceve un punteggio di 87,1, il più alto dei parametri considerati, e un buon 75 la libertà di investimento, frenata da una burocrazia complessa, dall'eccessiva arbitrarietà nell'applicazione delle normative e dalle interferenze politiche.
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