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Tuesday, January 10, 2012

J. Edgar, una metafora della burocrazia

Da grande estimatore quale sono di Clint Eastwood non posso dire che J. Edgar sia un film riuscito. Troppe le sbavature e le forzature, persino le caricature direi. Non è certamente un film politico, né storico, su questo ma anche sul resto si può concordare con la puntuale e competente recensione di Pietro Salvatori. Tuttavia, una chiave di lettura "politica" in senso lato l'ho intravista, o forse voluta intravedere con le mie lenti ideologiche, e ve la sottopongo. Il personaggio di Hoover come una grande metafora delle burocrazie statali, sempre in lotta per giustificare, e accrescere, i loro poteri. Hoover s'identifica così visceralmente con la sua creatura, l'FBI, che durante tutto il film balza agli occhi, almeno ai miei, come le sue ossessioni, così esasperate, siano in fondo le stesse di qualsiasi burocrazia.

La tendenza ad autocelebrare i propri successi, a ingigantire i propri meriti ricorrendo persino alla menzogna e alla propaganda, allo stesso tempo esagerando l'entità delle sfide che si hanno di fronte, in questo caso le minacce alla sicurezza dei cittadini; e poi l'ossessione per il controllo, che sfiora il grottesco, il mito della propria infallibilità, la presunzione di agire per il bene della nazione e quindi di poter chiudere un occhio o anche entrambi sui mezzi di cui ci si avvale, spesso oltre i confini della legalità. Sono tutti tratti che non troviamo solo negli uomini, che così mascherano le proprie debolezze e inadeguatezze, ma sono comuni alle grandi burocrazie statali e al loro istinto di sopravvivenza. Le più spudorate esagerazioni con le quali Hoover cerca di glorificare se stesso e in questo modo rafforzare l'FBI sono le stesse con le quali le burocrazie statali, di tutti i tempi, cercano di giustificare di fronte all'opinione pubblica e alle autorità politiche la loro esistenza, anzi il loro essere indispensabili, insostituibili, e quindi di convincerle ad attribuire loro poteri sempre maggiori ed estesi. In una rincorsa alla perfezione, ad un massimo di efficienza ed efficacia dell'organizzazione, che sembra avere l'andamento di una curva. Raggiunto un punto fino al quale alla crescita di risorse, dimensioni e potere corrisponde anche un aumento di efficienza, quest'ultima comincia a declinare proprio a causa principalmente dell'eccessiva espansione e cominciano a manifestarsi effetti distorsivi, derive anche pericolose rispetto agli scopi originari dell'organizzazione.

E' questa la dinamica che per tutta la durata del film accomuna J. Edgar e la sua FBI. Le buone intenzioni, il patriottismo, la forza di carattere, il senso del dovere, tutte le intuizioni geniali non bastano a risparmiare a Hoover e all'FBI una eterogenesi dei fini. E persino nel tributo a Hoover per le incontestabili innovazioni nella lotta al crimine - la centralità delle impronte digitali, dell'analisi scientifica dei luoghi e dei reperti - s'insinua costantemente il dubbio sulla pretesa onnipotenza e perfezione del "sistema". La macchina statale imperfetta, fallibile, ossessionata, bugiarda, e autoindulgente come i suoi artefici. Anche in questa chiave "politica", come in tutti i film di Eastwood il fattore umano, i singoli individui, indagati senza pregiudizi nei punti di forza e soprattutto nei loro limiti e debolezze, si rivelano decisivi in qualunque avventura collettiva, che sia la guerra nel Pacifico o la storia dell'FBI, dunque attraverso di essa dell'intero '900 americano.

Come per i protagonisti di Million Dollar Baby e Gran Torino la forza d'animo, l'essere dei "duri", che Clint ha impersonato nella sua carriera di attore e continua a impersonare nell'immaginario collettivo, anche in J. Edgar non bastano ad avere ragione della durezza della vita. Peccato che questo film non riesca a coinvolgere lo spettatore come gli altri due. Se quella di Leonardo Di Caprio è un'interpretazione maiuscola, senz'altro da Oscar, in alcuni passaggi alla Marlon Brando, alcune pecche minano la riuscita del film. La narrazione è dall'inizio e per la prima metà del film troppo faticosa, in un certo senso "letteraria". Gli invecchiamenti sono tutt'altro che convincenti, addirittura ridicoli quelli di Armie Hammer e Naomi Watts (ad interpretare i loro personaggi invecchiati potevano essere chiamati attori semplicemente più anziani). Sfiora a tratti la caricatura la resa di fondamentali temi narrativi, come i rapporti di Hoover con la madre e con Clyde Tolson, così come il tema dell'omosessualità repressa, affrontato in modo troppo convenzionale, ma qui forse c'è da chiamare in causa lo sceneggiatore, Dustin Lance Back, lo stesso di Milk. E' se non altro apprezzabile che sul finale il film non scada nel sentimentalismo.

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