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Tuesday, November 20, 2012

Il marchio Monti in franchising non può bastare

Anche su L'Opinione

Pensavate di averle viste di tutte? Vi sbagliavate. Il meglio deve ancora venire: il meglio del peggio, s'intende. Nel weekend Montezemolo ha lanciato la sua alleanza con l'associazionismo cattolico-solidarista Verso la Terza Repubblica (tutta gente che ha pasteggiato allegramente anche nella prima e nella seconda) in appoggio al Monti-bis. La non discesa in campo del presidente della Ferrari dà vita all'ennesimo paradosso della politica italiana: un non candidato che lancia una lista per sostenere un'altra non candidatura, quella di Mario Monti a Palazzo Chigi. Un'operazione davvero troppo fumosa, persino per i tempi eccezionali che viviamo. Monti non si candida, nemmeno Montezemolo (e nemmeno Bonanni), ma ci sarà una lista Montezemolo col nome di Monti nel simbolo e come programma. Una fiduciaria, un franchising, più che una lista politica.

Afferriamo l'idea di porre fine alla stagione dell'uomo solo al comando, ma questa sorta di "leading from behind" – metterci la faccia e anche la firma, ma senza scendere in campo, senza misurarsi personalmente nelle urne – offre davvero maggiori garanzie di serietà e trasparenza rispetto agli interessi, evidentissimi, di cui la lista LCdM-Todi è espressione? Ci sarà dato di sapere almeno se il professore ha effettivamente concesso a Montezemolo & soci il diritto di "commercializzare" politicamente il suo ben affermato marchio, o se invece si tratta di uno sfruttamento non autorizzato? Davvero pensa di appaltare a tali "scudieri" (Montezemolo, Bonanni, Riccardi, Casini, Fini) il compito di fornirgli una legittimazione elettorale, senza degnarsi di esporre lui stesso agli italiani la sua agenda per i prossimi anni? E se la sente il presidente del Consiglio di garantire sui candidati che saranno inseriti (da chi?) nelle liste che invocano il suo bis?

Il guaio, dal punto di vista politico, è che il marchio Monti rischia di rivelarsi poco più che una furba trovata dei Montezemolo e dei Casini per risparmiarsi il gravoso onere della chiarezza della loro proposta politica. Insomma, non serve faticare troppo per spiegare agli italiani che cosa si vuole fare in concreto: il riferimento a Monti basta e avanza. Ma così è difficile scorgere nell'operazione LCdM-Todi qualcosa di più di una lobby centrista alla ricerca di un posto al sole nel più che probabile bis del professore. Si dirà che tanto il programma è obbligato, che tutti lo conoscono. Come dice Napolitano, «Monti ha segnato il cammino ai partiti». Vero solo in parte. Perché il marchio Monti richiama molte cose diverse – alcune buone, altre meno – ma anche molti vuoti, capitoli nemmeno aperti. Sarebbe interessante, quindi, capire in concreto rispetto a quali politiche dovrebbe esserci «continuità». Continuità, per esempio, anche nel non abbattere lo stock di debito pubblico e negli esigui tagli alla spesa? Se la mera «continuità» con l'esperienza Monti è una garanzia dal punto di vista della cultura di governo, non può bastare, invece – lo ammetteranno anche i più montiani – dal punto di vista dei contenuti. O meglio, dipende da come si pensa di uscire dalla crisi italiana, iniziata ben prima del crack Lehmann o di quello greco: uscire dalla crisi cambiando il paese da cima a fondo, oppure manovrando con astuzia sperando, con l'aiuto dell'Europa, che il costo del nostro debito torni magicamente ai livelli pre-crisi, cioè vicino a quello tedesco?

Nel secondo caso, nient'affatto peregrino data la componente di irrazionalità che anima i mercati, potrebbe bastare la sola presenza di Monti a Palazzo Chigi, nel primo no. Ci sta che in questo anno il professore, ritrovatosi all'improvviso il timone tra le mani, non abbia voluto rischiare una virata a 180 gradi che avrebbe potuto ribaltare la barca Italia e far finire in mare milioni di connazionali. E così si è limitato ad usare la leva più immediata e sicura: più tasse. Ma ora, pur nei vincoli di bilancio ristrettissimi, qualche spazio di manovra c'è, alcune opzioni di fondo, molto diverse tra di loro, tra cui scegliere ci sono. Per esempio, Draghi insiste nel raccomandare un risanamento meno recessivo, centrato cioè sui tagli alla spesa e non su aumenti di tasse. Fino ad oggi Monti ha intrapreso la via opposta. Nel suo bis a Palazzo Chigi seguirebbe o no i suggerimenti di Draghi?

Insomma, se l'operazione Monti-bis è cambiare il paese, ma senza proclami per non spaventare l'elettorato e i "poteri forti", e per evitare di infiammare le piazze, tatticamente può avere un senso. Il sospetto, tuttavia, guardando l'operato di questi mesi, gli scudieri che si accalcano ansiosi di fargli strada, e la sua ambiguità sull'agenda per i prossimi anni, è che l'obiettivo sia minimale: non affondare, tenersi a galla aspettando che la tempesta passi, dunque evitare di consegnare il timone a Bersani-Vendola, che ci porterebbero contro gli scogli, ma sostanzialmente senza cambiare il paese, quindi garantendo tutti i soggetti interessati al mantenimento dello status quo.

Friday, October 26, 2012

Socialismo cattolico in carrozza con Montezemolo

Il flirt tra Fermareildeclino e ItaliaFutura si conclude così: alle idee liberiste Montezemolo ha preferito la potenza organizzativa dell'associazionismo cattolico-solidarista, quello che chiamo socialismo cattolico; a Giannino ha preferito Bonanni, la Cisl, le Acli, insomma il mondo di Todi, che da mesi era alla ricerca di "mezzi" per un impegno politico diretto, che non fossero però i vecchi arnesi Pdl, Udc e Pd, né un nuovo partito cattolico.

Hanno finalmente trovato un "passaggio", e sono saliti sulla "carrozza" di Montezemolo, che negli anni ha sfornato più di un manifesto-appello, una lunga sequenza di testi sempre più annacquati fino ad arrivare a quello democristiano di oggi, che è davvero una presa in giro. Serve sostanzialmente a sancire la nuova alleanza di interesse, con un elenco di firmatari che sembra una lista elettorale già scritta, ma nulla dice di concreto su come riformare il paese. E certo avere la Cisl, primo sindacato nel pubblico impiego, tra gli  azionisti di maggioranza non promette grandi spinte al cambiamento nella pubblica amministrazione e nella scuola.

Dietro la retorica anti-partitica e una pretesa «apertura alla società civile», va di moda invocarla anche se nella definizione può rientrare tutto o niente, sono riconoscibili specifici e molto particolari interessi - legittimi, per carità. Da notare che c'è subito una forte presa di posizione contro i «conflitti di interesse», come se molti dei firmatari non fossero espressione di associazioni e cooperative che hanno, ovviamente e legittimamente, i loro interessi economici.

Tra le tante ovvietà, si guarda all'avvento di una «Terza Repubblica», senza nemmeno delinearne i tratti istituzionali che si auspicano abbia, e si rivendica una «continuità» con il governo Monti, per «una stagione di riforme di ispirazione democratica, popolare e liberale». Il nuovo soggetto, insomma, ha la pretesa di professarsi allo stesso tempo democratico, popolare e liberale (culture politiche molto diverse che si dividono quasi tutto lo spettro politico, come accade nel PE). Un po' di tutto, e molto di niente, perché l'importante è esserci, a prescindere dal cosa fare, per un mondo non più disposto a delegare la rappresentanza dei propri interessi.

Il flirt con Fermareildeclino era coinciso con la fase di maggiore impronta riformatrice e liberale di ItaliaFutura. Comprensibile quindi un certo "stupore" nel vedere come dall'oggi al domani si sia trasformata (con un input di certo calato dall'alto, a proposito di democrazia e trasparenza interna) in un'operazione centrista, una ridotta di catto-solidaristi, con un manifesto moderatissimo quando lo stesso Monti ha spiegato che al nostro paese servono riforme radicali e non moderate.

Quanto a FiD, premetto che non ho aderito, pur coindividendo (quasi) tutto il programma, perché nonostante le ottime idee e persone per ora non mi sembra un soggetto in grado di sviluppare alcuna prospettiva politica, quindi condannato all'isolamento e al velleitarismo. Magari maturerà, ma non intende "sporcarsi le mani". Nel caso specifico però, per come la vedo da fuori, è ItaliaFutura che ha deciso di volgersi da tutt'altra parte, anzi forse proprio di scrollarsi di dosso FiD, e non Giannino e compagni ad aver fatto gli schizzinosi. A questo punto, se proprio bisogna "sporcarsi le mani", perché altrimenti non si va da nessuna parte - e io credo che sì, bisogna sporcarsele - tanto vale farsi coraggio e partecipare alle primarie del Pdl, almeno andare a vedere il bluff, piuttosto che salire in carrozza con Montezemolo e Bonanni.

UPDATE ore 17:40
In questo post Andrea Romano smentisce la ricostruzione di Oscar Giannino, che sarebbe stato messo a conoscenza del testo del manifesto due settimane prima e non all'ultimo momento. Al di là di come siano andate le cose tra di loro, mi pare che effettivamente il punto sia il giudizio sul governo Monti, come spiega Romano: da superare, per Giannino e i suoi, da assicurarne la "continuità", per i montezemoliani. Resta da capire 1) quale sia realmente, in concreto, l'agenda Monti se il professore non chiederà esplicitamente agli italiani di essere rimandato a Palazzo Chigi; 2) quali siano, in concreto, le riforme che sosterrà l'alleanza Montezemolo-Todi; 3) come si possa pensare di riformare il paese con uno dei sindacati che ha opposto resistenza persino alle timide riforme avanzate dal governo Monti in questo scorcio legislatura (per non parlare dei danni di cui si è reso responsabile nei decenni).

Tuesday, February 07, 2012

Eppur qualcosa si muove

Anche su Notapolitica

A quanto pare si tratta ormai di capire non se l'articolo 18 verrà superato, ma come, e soprattutto in che termini farlo senza che i sindacati e il Pd ne escano umiliati. Il governo non ha intenzione di «esasperare alcunché, in particolare in una materia così sensibile e socialmente cruciale come il mercato del lavoro», ha assicurato il premier Mario Monti, ma certamente ha impresso un'accelerazione ad un dialogo partito con il freno a mano tirato. Prima il ragionamento di Monti sul posto fisso «monotono», poi il ministro Fornero, che al tavolo della scorsa settimana con le parti sociali ha chiarito le intenzioni del governo sulla riforma del lavoro: dialogo sì, ma la riforma s'ha da fare, anche senza l'accordo con sindacati e Confindustria, e «nel volgere di poche settimane». Con gli industriali a dare ragione al ministro, aprendo alle modifiche sull'articolo 18 (sì all'indennizzo in caso di licenziamento non discriminatorio, no al reintegro, ha ribadito la presidente Marcegaglia), e i sindacati attenti a non aizzare lo scontro.

Ieri il ministro degli interni, Anna Maria Cancellieri, ha rincarato la dose sul «posto fisso nella stessa città, di fianco a mamma e papà», e il ministro Fornero sui tempi: «Tergiversare, aspettare, non può essere la soluzione. Il governo ha il dovere di agire». Ed evidentemente articolo 18 e ammortizzatori sociali sono due temi, per usare le parole di Monti, che possono «dare un contributo alla crescita e aggredire la disoccupazione giovanile».

L'obiettivo è «spalmare le tutele su tutti, non dare a tutti un posto fisso a vita», perché «chi oggi promette un posto fisso a vita promette facili illusioni», avverte la Fornero. Dal Pd continuano ad arrivare reazioni irritate alle dichiarazioni del governo su posto fisso e articolo 18. L'ex ministro Damiano e il responsabile economico della segreteria, Fassina, le bollano come tesi «infondate». «Non si può votare a scatola chiusa quello che propone Monti», avverte il primo, mentre il secondo denuncia nelle parole dei membri dell'esecutivo il «lessico tipico della destra».

Ma sul fronte sindacale qualcosa comincia a muoversi. Il segretario della Cisl Bonanni parla di una «robusta manutenzione», parola che non piace alla Cgil («non è giusta e nemmeno necessaria») ma anche il segretario della Uil Angeletti si dice «disposto a dire sì ad una legge che dica esplicitamente – fatte salve le ragioni discriminatorie – quando il licenziamento è consentito per motivi economici». Certo, con molti se e molti ma. Insomma, la situazione è molto fluida ma l'impressione è che il governo voglia accelerare, che articolo 18 e ammortizzatori siano sul tavolo, e che i sindacati, almeno Cisl e Uil, siano disposti a concedere qualcosa, magari con una formula che consenta loro di salvare la faccia, per esempio una sospensione sperimentale, della durata di 3 anni, dell'art. 18 per i licenziamenti di natura economica. E si sa, le dighe difficilmente reggono con una breccia aperta.

Friday, February 03, 2012

Meglio soli che male accompagnati


Un colpo di reni del ministro Fornero, che al tavolo di oggi con le parti sociali sulla riforma del lavoro chiarisce le intenzioni del governo: dialogo sì, ma la riforma s'ha da fare (ce lo ha ricordato anche la cancelliera Merkel la scorsa settimana) e il governo la farà «nel volgere di poche settimane», anche senza l'accordo con sindacati e Confindustria.

I messaggi lanciati ieri dal premier Mario Monti durante le sue apparizioni sulle reti Mediaset, prima al Tg5 poi a Matrix, confermano che l'articolo 18 è sul tavolo: «Non è un tabù» e «può essere pernicioso per lo sviluppo in certi contesti», quali l'Italia, ha fatto capire. Da sempre sull'articolo 18 si scontrano due visioni diametralmente opposte: chi lo ritiene una tutela fondamentale, il baluardo dei diritti sociali; e chi invece un potente feticcio che frena le assunzioni e ostacola la crescita dimensionale delle imprese. In questa chiave bisogna leggere il proposito, annunciato ieri sera dal premier, di «ridurre il terribile apartheid che esiste nel mercato del lavoro tra chi è già dentro e chi fa fatica a entrare o entra in condizioni precarie». Siccome è impossibile obbligare le imprese ad assumere a tempo indeterminato – al limite, se si aboliscono tutte le altre tipologie di contratto, non assumeranno affatto – l'unico modo per rimuovere o per lo meno ridurre l'apartheid è rendere meno inamovibili gli insider, così che gli outsider possano beneficiare della maggiore mobilità.

Confindustria ha preso la palla al balzo. La presidente Marcegaglia si è detta «d'accordo» sul fatto che la riforma vada fatta e trova «ragionevole» che il governo vada avanti, anche perché «non è un accordo sindacale, su un contratto che deve vedere le parti sociali assolutamente coinvolte». Mercati ed Europa sono alla finestra, «aspettano di vedere come faremo questa riforma, che dimostrerà la capacità di cambiamento del Paese». Gli industriali sembrano finalmente aver preso coraggio nel sostenere anche il superamento dell'articolo 18: «Siamo totalmente d'accordo che non deve essere più un tabù, crea una dicotomia drammatica, pesantissima all'interno del mercato del lavoro. Quindi il tema è sul tavolo e noi lo sosteniamo». In particolare sul tavolo il ministro Fornero avrebbe portato lo stop al reintegro dei lavoratori licenziati per motivi economici nei casi di crisi aziendale.

Ma su un altro punto fondamentale della riforma, il passaggio dal sistema di ammortizzatori attuale, che tutela il posto di lavoro, anche se improduttivo, ad uno universale che tuteli il singolo lavoratore, in qualsiasi settore sia impiegato, che favorirebbe una più rapida ristrutturazione delle aziende o riallocazione degli investimenti produttivi, Confindustria mostra una certa resistenza, condivisa dai sindacati.

Sull'articolo 18 i sindacati sono pronti alla levata di scudi ma sono cauti nelle loro reazioni per non danneggiare la trattativa in corso. «Confindustria si fa prendere un po' la mano sulla scorciatoia dei licenziamenti», è la battuta della segretaria della Cgil Camusso, la quale piuttosto che i toni ultimativi di oggi preferisce «apprezzare, pur usando i condizionali d'obbligo, la dichiarazione del governo secondo cui l'intento è di lavorare per raggiungere un accordo». Bonanni della Cisl si augura che «in una situazione così nessuno si metta in testa in modo così pervicace la questione della flessibilità in uscita» e vede nell'articolo 18 un modo «per coprire le reticenze del sistema, un ballon d'essai per coprire altro». Ma il suo è un invito alla cautela: «Non daremo l'esca a nessun estremista che aizzi allo scontro. Il governo faccia lo stesso», suggerisce Bonanni.

Un tema, quello dell'articolo 18, che promette di diventare dilaniante all'interno del Pd, dove si scontrano la linea largamente maggioritaria, impersonata dall'ex ministro Damiano e dal responsabile economico Fassina, allineata a quella dei sindacati, e quella invece “liberale” di Ichino e dei 50 senatori che hanno sottoscritto la sua proposta. In mezzo Bersani, che dovrà sostenere le scelte del governo Monti, anche nel caso di un boccone amaro sull'art. 18.

Come prevedibile però la polemica si è scatenata in particolare su un'affermazione del premier Monti, quando ieri sera, ospite a Matrix, ha bollato come «monotono» il posto fisso. Apriti cielo! Dal Pd reazioni tra l'irritazione e lo scandalizzato, mentre Bersani tenta di gettare acqua sul fuoco (il pensiero di Monti, «ed io un po' lo conosco, è un po' più articolato» di quella battuta). Nel Pdl Sacconi e Gelmini danno ragione al premier, mentre Casini considera la sua una provocazione efficace, che non può scandalizzare, e Della Vedova una battuta infelice. L'intenzione del professore era quella di offrire un momento di verità nel dibattito spesso pieno di ipocrisie sulla precarietà. Monotono o meno, il posto fisso non esiste più, o esiste sempre meno, dunque sarebbe sbagliato indicarlo ancora oggi ai giovani come modello, come punto d'arrivo. L'unico modo per rendere meno precari i nuovi lavoratori, senza irrigidire il mercato peggiorando così il nostro gap competitivo, è rendere un po' meno inamovibili i vecchi.

Thursday, January 26, 2012

Meglio nessuna riforma che una cattiva riforma

Anche su Notapolitica

Tempo di primi bilanci. Il governo Monti ha fatto molto, molto più di quanto non siano riusciti a fare i governi di centrodestra e di centrosinistra: in soli due mesi ha praticamente abolito le pensioni d'anzianità, ha deciso lo scorporo tra Snam rete gas ed Eni (unica misura di peso del dl liberalizzazioni, per il resto deludente) e qualche sorpresa positiva potrebbe riservarla il dl semplificazione in esame oggi. Tuttavia, nell'emergenza, appena insediato, ha preferito inseguire il pareggio di bilancio a suon di tasse anziché di tagli alla spesa e la strategia complessiva sembra quella di ridurre il debito molto gradualmente, attraverso avanzi primari – che senza crescita potrebbero essere mantenuti solo con nuove e sempre più recessive tasse – piuttosto che aggredendone lo stock con un massiccio programma di dismissioni.

Un tema centrale per la crescita sarà in cima all'agenda del governo nelle prossime settimane: la riforma del mercato del lavoro, madre di tutte le liberalizzazioni. Nella lettera di intenti all'Ue il governo italiano si è impegnato ad attuare «entro maggio 2012 una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato», in ottemperenza a quanto chiesto dalla Bce nella lettera riservata di agosto: maggiore flessibilità in uscita a fronte di un sistema di assicurazione dalla disoccupazione diverso dalla cassa integrazione (che tra l'altro copre una minima parte dei lavoratori), che faciliti la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi.

La concertazione tra il ministro del lavoro Elsa Fornero e le parti sociali è partita col piede sbagliato e rischia di portarci nella direzione esattamente opposta – più rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica – ossia verso la Grecia. «L'unico risultato positivo dell'incontro – ha dichiarato il segretario Cisl Raffaele Bonanni – è stata la convergenza e le posizioni sostanzialmente comuni di tutti i sindacati e di tutte le associazioni datoriali. (...) Se tutte le parti sociali difendono l'attuale modello, che ha funzionato e funziona bene, non si capisce proprio perché bisognerebbe mettere tutto in discussione». Revisione dell'articolo18 e cancellazione della cassa integrazione straordinaria sono «temi fuori agenda», ha intimato Bersani. Le dichiarazioni degli industriali, in particolare della presidente Marcegaglia e di uno dei candidati alla successione, Giorgio Squinzi, sembrano dello stesso tenore. A chiedere la riforma, superando l'art. 18, addirittura «per decreto» è Maurizio Sacconi. Richiesta strumentale ad inguaiare il Pd e pulpito poco credibile, dal momento che da ministro del Welfare solo due anni fa, nel 2009, Sacconi teorizzava che «in tempo di crisi non possono essere all'ordine del giorno né riforme degli ammortizzatori sociali, né dell'articolo 18 né dellle pensioni». Insieme a Tremonti uno dei principali responsabili dell'immobilismo del precedente governo e della crisi d'identità del Pdl.

Sindacati e Confindustria mostrano quindi di volersi attestare su una linea di difesa dello status quo, confermandosi entrambi, al dunque, fattori di conservatorismo sociale ed economico. Nel presunto interesse dei loro iscritti, rischiano però di danneggiare l'intero Paese. Hanno il diritto di bloccare le riforme in un settore di cui si sentono attori esclusivi ma che di fatto ha un valore strategico per l'intera nazione? Oppure forse il governo ha il dovere di superare queste resistenze con le buone o con le cattive?

Se poi nemmeno il governo ha intenzione di toccare l'art. 18 e la cassa integrazione, allora sarebbe più onesto richiudere il capitolo e ammettere che non vogliamo ottemperare agli impegni assunti con l'Ue, che non vogliamo fare i cosiddetti "compiti a casa", che invece in tutte le occasioni il premier Monti e i suoi ministri, i partiti e i media spacciano per fatti.

Non c'è chiarezza su quale sia la base di partenza del governo e quale la sua linea del Piave. Qualsiasi concessione nel senso di maggiori rigidità rispetto al modello di flexsecurity proposto da Pietro Ichino (che supera sia l'art. 18 sia la cassa integrazione) sarebbe un fallimento, mentre il ddl Nerozzi, ispirato al progetto Boeri-Garibaldi, sarebbe il disastro: contratto unico con triennio d'inserimento, dopo di ché articolo 18 per tutti (anche sotto i 15 dipendenti). Sul fronte degli ammortizzatori sociali, la cassa integrazione andrebbe superata a favore di un sussidio di disoccupazione che tuteli il lavoratore, e non il posto di lavoro, favorendo quindi la sua riallocazione e una rapida ristrutturazione dell'azienda. E' il progetto Ichino a prevederlo, anche se forse troppo generosamente per entità dell'assegno e durata. Ben diverso sarebbe il reddito minimo garantito o di cittadinanza, che rischia di disincentivare l'occupazione, dando vita a forme di puro assistenzialismo e ad abusi di ogni tipo, e di dissestare le casse pubbliche.

Non esiste riforma del lavoro nella direzione auspicata dall'Ue e dalla Bce senza eliminare l'articolo 18 (nei licenzialmenti per motivi economici) e rivedere gli ammortizzatori sociali. Meglio nessuna riforma piuttosto che un annacquamento o, addirittura, una restaurazione di rigidità e ulteriori costi sul lavoro e spesa pubblica, perché si chiuderebbe il capitolo per chissà quanti anni perdendo un'occasione forse irripetibile.

Friday, September 10, 2010

Sua figlia, una squadrista

Ventiquattro anni, un diploma all'Istituto d'arte, studentessa di psicologia a Torino, figlia di un magistrato. Non certo il ritratto del disagio sociale quello della ragazza che avrebbe lanciato il fumogeno addosso al segretario della Cisl Raffaele Bonanni alla festa del Pd, ma l'identikit perfetto di un tipo di squadrismo ideologico che ha un ben preciso retroterra culturale e sociale che non si può far finta di ignorare. Lontano anni luce da quegli operai legittimamente interessati alle nuove relazioni industriali che vengono contestate in questi giorni (ma neanche nel loro caso, sia chiaro, sarebbe giustificata l'aggressione a Bonanni). Non c'è disperazione, non c'è disagio, non c'è pazzia, non c'è ignoranza. C'è indottrinamento all'odio politico e sappiamo tutti da dove proviene e coloro che ne sono i sobillatori.

Il tipico milieu famigliare (professori, magistrati) in cui - al riparo da qualsiasi preoccupazione per il futuro, dato l'agio economico e le relazioni sociali paterne o materne - nasce e si alimenta un certo intellettualismo, l'illusione di una superiorità morale, di appartenere ad una casta di "illuminati" cui spetta di indicare il "Bene" e di ottenere, se necessario anche con la violenza, che tutti si adeguino. Quando scoprono che semplicemente non funziona così, che la democrazia gli dà torto, il trauma è devastante, non si capacitano, non si riprendono più, si sentono usurpati di quella che credevano essere la loro funzione sociale.

E' anche il tipico prodotto della nostra università di massa, dove insieme ai pochi che sono lì per studiare davvero perché avvertono il bisogno di dotarsi di un bagaglio culturale per affrontare con serenità il futuro - e a loro danno - vengono parcheggiati questi figli di papà nullafacenti in attesa solo di venire inseriti senza alcun merito in qualche buona posizione, grazie alle conoscenze di famiglia, e nel frattempo giocano ai rivoluzionari, questi rampolli dei moralmente superiori. Non soprende che in un contesto del genere non si abbia il minimo elemento per esprimere un'idea anche vagamente in contatto con la realtà del lavoro e dell'impresa, cioè di ciò di cui in ultima analisi le persone normali vivono tutti i giorni.

Sintomatica l'intervista al padre della ragazza, un pm (e meno male che la figlia non studia giurisprudenza, ce la saremmo potuta ritrovare in un'aula di tribunale a perseguitare i "nemici del popolo"!): «Non le ho chiesto niente dell'accaduto, né tantomeno se fosse stata lei a lanciare quel fumogeno». Ecco, appunto. Rubina, assicura il padre, «è stata educata sin da bambina al rispetto del prossimo, alla tolleranza, alla non violenza. Da molti anni lavora in alcune associazioni di volontariato e si è sempre adoperata a favore del prossimo». E meno male... Sarà anche tutto vero, ma per la legge il suo non è esattamente il profilo dello stinco di santo: «... ha dovuto mostrare i documenti e rispondere alle domande degli agenti per una decina di minuti. Loro la conoscevano già, il suo nome è legato a "un'assidua frequentazione di Askatasuna e del Collettivo universitario Autonomia", a una passata denuncia per invasione e occupazione di edifici e a un precedente reato di violenza privata».

Già, cosa c'era da aspettarsi da una figlia che frequenta un centro sociale di nome Askatasuna (che si richiama al terrorismo basco)? Il padre dice che non parlerà con i suoi colleghi di Torino. Ti credo, la figlia è in una botte di ferro, nelle mani del "compagno" Gian Carlo Caselli. Guardi in faccia la realtà, signor Affronte, sua figlia è una volgare squadrista. Altro che questione sociale o politica, il fenomeno dev'essere affrontato come questione di mero ordine pubblico (per usare un eufemismo).

Thursday, August 26, 2010

L'amarezza di Marchionne per un'Italia che non vuole cambiare

C'è un misto di amarezza e rassegnazione nelle parole pronunciate da Marchionne al Meeting Cl di Rimini, consapevole che l'Italia è un Paese che ha «paura di cambiare», o meglio, che ha quell'atteggiamento provinciale di chi «non ha voglia» neanche di essere infastidito dal mondo che lo circonda, e «molto spesso - ha avvertito l'ad di Fiat mostrando tutto il suo rammarico - sono queste le ragioni del declino economico e sociale di un Paese». La retorica del cambiamento è trionfante, riempie la bocca di tutti, ma «l'elogio del cambiamento si ferma sulla soglia di casa, va bene finché non ci riguarda». Se nemmeno il presidente della Repubblica, che dovrebbe rappresentare il maggior livello di consapevolezza che sa esprimere un Paese, si mostra in grado di comprendere i fenomeni economici e sociali che ha sotto gli occhi, allora c'è davvero poca speranza che a prevalere non sia una cultura anti-impresa e anti-lavoro.

Comprensibilmente quindi Marchionne ha sentito il dovere di difendere, insieme alla «serietà» del progetto Fiat, anche «le ragioni» degli unici che hanno raccolto questa sfida, Bonanni e Angeletti, i segretari di Cisl e Uil, «che ci stanno accompagnando in questo processo di rifondazione dell'industria dell'auto italiana». Il resto della politica è capace al massimo di dividersi in tifoserie contrapposte, ma rimane alla finestra. Il governo non prende posizione (dov'è Sacconi?), non realizza, né annuncia le riforme di cui il sistema avrebbe bisogno (il caso di Melfi e la sentenza dei giudici del lavoro fornivano l'ennesima occasione per giustificare un intervento sullo Statuto dei lavoratori). Il solo Tremonti, ieri, ammoniva, con evidente riferimento all'accordo di Pomigliano e alla vicenda della Fiat di Melfi, che «se vuoi i diritti perfetti nella fabbrica ideale, rischi di conservare i diritti perfetti, ma di perdere la fabbrica ideale che va a produrre da un altra parte». Mentre il Pd getta le sue poche maschere "riformiste" e si rivela per quello che è, una delle sinistre più retrive che abbiamo in Europa.

Marchionne è stato giustamente molto severo: ci si deve rendere conto che non è conveniente per nessuno investire in Italia (è «l'unica area del mondo in cui il gruppo Fiat è in perdita»), perché da noi vige un sistema anacronistico e insostenibile che impedisce alle imprese di essere competitive, in un mondo che cambia con estrema rapidità e che richiede tempi di risposta altrettanto veloci per tentare di tenere il passo. Se Fiat lo fa, rinunciando a «vantaggi sicuri in altri Paesi», è solo perché ha le sue «radici» in Italia, ma chiede, implora, agli italiani di «riconoscere la necessità di cambiare e aggiornare il sistema in modo che garantisca alla Fiat di poter competere», perché «la cosa peggiore di un sistema industriale incapace di competere è che sono i lavoratori a pagarne le conseguenze». E chiede il minimo sindacale per un'impresa, cioè che si rispetti il basilare diritto di proprietà, cioè almeno la «garanzia di poter gestire i nostri stabilimenti in modo affidabile, continuo e normale».

E' ciò che non è garantito a Melfi, e probabilmente neanche in altre parti del Paese, se durante uno sciopero a cui aderiscono poche decine di operai su 1750 si tollera che tre di essi blocchino le macchine impedendo agli altri di lavorare e alla fabbrica di produrre. «La maggior parte delle persone che lavorano in Fiat - ricorda Marchionne - ha compreso e apprezzato» l'impegno dell'azienda, l'accordo di Pomigliano è stato approvato dalla maggioranza dei sindacati e dei lavoratori, eppure in pochi riescono a sovvertire la volontà dei più: «Non è onesto usare i diritti di pochi per piegare i diritti di molti... E' inammissibile difendere e tollerare illeciti arrivati fino al sabotaggio. Non è giusto nei confronti dell'azienda e non è giusto nei confronti di altri lavoratori... Dignità e diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone. Sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti». Eppure la magistratura che fa? Riconoscendo i diritti di quei tre, di fatto li nega a tutti gli altri. Altro che «fondata sul lavoro», l'Italia è una Repubblica fondata sulla sopraffazione e il sabotaggio.