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Thursday, November 30, 2006

Soli e disorientati, gli orfani del Ratzinger cardinale

Papa Benedetto XVI accolto dal primo ministro turco Erdogan all'aeroportoDifesa dell'Occidente e "No" alla Turchia nell'Ue, da sempre contraddizione in termini

Può il processo di adesione della Turchia all'Unione europea essere appeso al filo dei rispettabilissimi greco-ciprioti, componente di Cipro che si è opposta al referendum sull'unificazione dell'isola indetto dall'Onu? Evidentemente no. Se i grandi paesi europei avessero voluto, se avessero ben presente il valore geostrategico dell'ingresso turco, l'importanza di un negoziato vero, il senso epocale di questa sfida, avrebbero saputo trovare argomenti convincenti per superare gli ostacoli posti dai greco-ciprioti.

Dev'esserci dell'altro, sotto la decisione della Commissione Ue di proporre la sospensione di 8 dei 35 capitoli sui quali si articola il negoziato con Ankara, anche se è il Consiglio dei 25 ad avere l'ultima parola. Pretestuoso dev'essere il motivo di questo stop improvviso, segnale di un'incertezza e di una miopia di fondo, di un deficit di visione e di leadership della politica europea. Altro che le "radici", qui è la politica che manca.

Proprio mentre l'Europa "congela", la Santa Sede compie una inattesa inversione di rotta e si dice favorevole al realizzarsi delle condizioni per l'ingresso della Turchia nell'Ue.

Uscito dal colloquio con Benedetto XVI, è il premier turco Erdogan a riferire alla stampa che il Papa si è detto favorevole. Padre Lombardi, direttore della sala stampa vaticana, chiarisce la nuova linea della Santa Sede che «non ha il potere né il compito specifico, politico, di intervenire sul punto preciso riguardante l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea. Non le compete. Tuttavia vede positivamente e incoraggia il cammino di dialogo e di avvicinamento e inserimento in Europa, sulla base di valori e principi comuni».

In questi termini si era espresso giorni prima il Cardinale Bertone, Segretario di Stato: «L'auspicio è che la Turchia possa veramente realizzare le condizioni poste dalla Comunità europea per l'accesso e per un'integrazione nella Comunità». Una svolta rispetto a certe prese di posizione precedenti, espresse soprattutto del teologo Ratzinger, in altri tempi e con responsabilità diverse da quelle di oggi:
«Storicamente e culturalmente la Turchia ha poco da spartire con l'Europa: perciò sarebbe un errore grande accoglierla nell'Unione Europea... L'Europa non è un concetto geografico, ma culturale, formatosi in un percorso storico anche conflittuale imperniato sulla fede cristiana, ed è un fatto che l'impero ottomano è sempre stato in contrapposizione con l'Europa... Perciò l'ingresso della Turchia nell'Ue sarebbe antistorico».
In questi giorni ne abbiamo sentiti di atei devoti, laici dialoganti, e clericali di varia specie, scivolare dagli specchi su cui cercavano di arrampicarsi.

Giuliano Ferrara ha definito la svolta «un caso comprensibile di relativismo diplomatico, che con la verità del pensiero di Ratzinger sulla materia, espresso in altre sedi e in altri tempi in modo netto e chiaro, ha poco a che fare». Benedetto XVI «ha dato prova di estrema prudenza, e non poteva dire che le cose che ha detto, data la situazione». Certo, un «pesante pedaggio della reticenza», ma in un contesto di «costrizione politica nella sua massima espressione». Toh, d'un tratto il vecchio, marmoreo zio Joseph non c'è più, diventato una mammoletta. Dov'è finito il Papa "con le palle", integerrima voce della verità?

Marcello Pera ha dichiarato ad Avvenire:
«Va sottolineato come in precedenza le cautele del cardinale Ratzinger e della Santa Sede si accompagnassero al favore dei vertici Ue. Mi pare che oggi il Papa, proprio per non assumere un ruolo politico, desideri non interferire con l'autonomia della sfera istituzionale europea. Non è compito suo decidere, lo deve fare l'Europa. Personalmente, continuo a rimanere contrario all'idea di una Turchia europea. Ottanta milioni di cittadini di fede islamica creerebbero un problema non solo politico, ma di identità, benché si tenda ipocritamente a nasconderlo dietro cavilli di varia natura. Rischiamo di cambiare la natura dell'Europa per come è nata. Il riferimento alle radici cristiane è necessario per l'identità dell'Unione».
C'è come un senso di smarrimento. Forse che ci si è ritrovati soli in trincea, nella linea Maginot dell'Occidente della Tradizione cristiana? Avevamo fatto presente, in tempi non sospetti, dei rischi dell'opportunistica "sant'alleanza" con Ratzinger.

Adesso ci si aggrappa al contesto, ai toni, al solco che è sempre lo stesso o al tema troppo complesso.

«Le cose vanno lette nel contesto in cui avvengono», spiega l'ex ministro Carlo Giovanardi. Rocco Buttiglione precisa che «questa» Turchia non è idonea all'Europa, ma il pensiero del Papa non va «strumentalizzato»: «Il Papa ha sempre posto dei problemi che ci sono e vanno affrontati. Sbaglia invece chi nasconde la testa». Certo, da cardinale Ratzinger parlava di «prospettiva antistorica», «ma i problemi che Benedetto XVI ha sempre posto, restano tutti in piedi — questa volta il Papa ha soltanto scelto di cambiare i toni».

Il senatore Gaetano Quagliariello osserva che non si tratta di una svolta ma di «uno sviluppo nel solco del pensiero del cardinale Ratzinger: non dimentichiamo che una cosa è essere cardinale un'altra Papa e che nessuno può avere sulla questione Ue-Tuchia una posizione totalmente a favore o totalmente contraria, il tema è troppo complesso».

E cosa faranno tutti i blog papisti che espongono quelle improbabilissime gif animate con la cartina europea per dire "No" alla Turchia in Europa?

Difesa dell'Occidente e "No" alla Turchia nell'Ue è una contraddizione che non si apre certo oggi, con la svolta della Santa Sede. Se i difensori - credo incontestabili - dell'Occidente, Bush e Blair, sono da sempre tra i più attivi sostenitori dell'adesione della Turchia all'Ue, se le loro sono opinioni né deboli né sospette, e se proprio questi due leader hanno messo in campo alcune delle strategie più risolute per contrastare l'offensiva del fondamentalismo islamico, allora qualcosa che non va dev'esserci nei nostri Brancaleone alle Crociate.

Inevitabilmente, inoltre, la nuova posizione assunta dalla Santa Sede sposta anche la questione dell'identità europea dalla sterile disputa sulle "radici cristiane" al tema della democrazia, come dimostrano le parole del Cardinale Bertone: «D'altra parte noi auspichiamo che questa evoluzione di un grande Paese islamico che accede alla democrazia e che vuole attuare un regime democratico faccia passi avanti e giunga a compimento. E realizzare quindi quella concezione di una vita politica e democratica che è la grande tradizione europea».

L'impressione è che Papa Benedetto XVI sia ancora incerto se cavalcare l'ondata teocon o proseguire sul percorso, avviato da Papa Wojtyla, del dialogo interreligioso, se puntare alla ricristianizzazione dell'Europa in funzione anti-islamica, o se stringere proprio con l'islam, integralista ma ripulito dall'eccessiva violenza, religione ineluttabilmente anche europea, un'alleanza in funzione anti-liberale e anti-relativista.

Una «svolta liberale», non «pasticci conservatori»

E' ciò che chiedono Capezzone e l'Istituto Bruno Leoni, nient'affatto convinti che la proposta di riforma degli ordini professionali che domani il ministro della Giustizia Mastella porterà in Consiglio dei Ministri vada nella direzione giusta.

«La riforma delle libere professioni costituisce un'urgenza indifferibile per il nostro paese», scrivono, ma la «strada intrapresa» da Mastella non corrisponde all'«intento riformatore» e «disattende» sia le indicazioni dell'Autorità Antitrust, sia della Commissione europea. Resterebbe infatti «intatto l'attuale sistema ordinistico, nel quale gli Ordini professionali sono enti pubblici, monopolisti dell'accesso alla professione assegnata, del tutto incapaci di consentire ai consumatori di conoscere le reali e attuali capacità di quei professionisti, come avviene invece nei sistemi anglosassoni basati sulla concorrenza (e, quindi, sulla trasparenza) tra libere e private associazioni di professionisti».

Il presidente della Commissione attività produttive, insieme a Michele De Lucia, e ad Alberto Mingardi, Carlo Stagnaro e Silvio Boccalatte, hanno annunciato, nel caso in cui il disegno di legge non venga corretto «in senso liberale», una loro proposta, per un'«effettiva riforma, di tipo anglosassone, che renda le professioni davvero libere ed accessibili», di cui hanno anticipato gli 8 punti chiave.

1) conversione degli attuali ordini professionali da enti pubblici in associazioni di natura privatistica, senza obbligo di iscrizione né vincoli di esclusiva;
2) esclusione di ogni predeterminazione numerica degli accessi;
3) fissazione di standard minimi per il riconoscimento delle libere associazioni, ferma restando la non obbligatorietà dell'iscrizione;
4) compatibilità dell'esercizio della professione con il rapporto di lavoro subordinato;
5) compatibilità con le regole di libera concorrenza e libertà del mercato del lavoro previsti dalla normativa dell'Unione europea (tariffe, pubblicità);
6) possibilità piena di svolgere la professione in forma societaria;
7) previsione di un'assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile del singolo professionista o della società;
8) adozione di misure tali da facilitare e semplificare il più possibile l'accesso dei giovani alle professioni.

La stupidaggine non è un reato, ma si paga

Sul caso Deaglio c'è da stendere un velo pietoso, così come su una magistratura che persegue le bufale giornalistiche, mentre dovrebbe lasciare che siano le eventuali parti lese, come il ministro Pisanu, a sporgere querela e a farsi risarcire il danno.

Altro che un'inchiesta su cosa è successo la notte delle elezioni, il film ha per oggetto un'unica grande cospirazione anti-comunista che va dal bandito Giuliano e il massacro di Portella della Ginestra a Silvio Berlusconi, passando, naturalmente, per gli americani.

Adesso il poveretto ammette che - guarda un po' - ha «un po' trascurato il ruolo della Cassazione». Ma va'?

Qui continuiamo a pensare che il problema di Deaglio fosse quello di una trovata che gli consentisse di recuperare il pubblico della sinistra antagonista dopo la delusione che gli ha dato settimane fa pubblicando uno studio che smontava le tesi complottistiche sull'11 settembre.

La goffaggine con la quale si è mosso non è cattiva fede, ma solo stupidaggine. E la stupidaggine non è un reato, ma si paga di tasca propria.

Caro Castaldi

Ho compreso perché ti sforzavi di leggere in quel modo il discorso del presidente Napolitano, che altrimenti sarebbe stato troppo «aggressivo, laicista, anticlericale» per il suo ruolo e si sarebbe «bruciato»: «La sfida di Napolitano è, nelle intenzioni, quella di negoziare con la Chiesa su ciò che la Chiesa definisce "non negoziabile" – bene, aspettiamo a vedere se, e come, pure questo laico (noi radicali l'abbiamo voluto al Quirinale anche per questo, no?) si brucia sulla laicità dello Stato; a sua insaputa, Napolitano gioca a far chiarezza sui veri interessi della Chiesa in Italia».

Sono anche d'accordo con le parole di Salvemini, che riporti: «Concepiamo la politica come la scienza di ciò che è possibile fare in determinate condizioni di tempo e di luogo, e non come la scienza di ci che è desiderabile per ragioni puramente teoriche». E ammetto che il mio editoriale di lunedì ("Il Presidente Napolitano svende il principio di laicità") è più assimilabile alla seconda concezione, quella "massimalista", della politca.

Ma se per l'incarico che ricopre, Napolitano non poteva essere più "laicista", il ruolo di "noi" "radicali", non dovrebbe essere quello di chi cerca di tirare da una parte?

Mi spiego. Il fatto è che ritengo particolarmente dannoso alla causa della laicità e della libertà individuale questo continuo richiamo da parte in particolare della corrente riformista, migliorista, dei Ds - di cui Napolitano presidente della Repubblica è tra i massimi esponenti - alle "soluzioni condivise", all'"etica condivisa".

Mi pare che questo approccio, in Parlamento, si concretizzi nella ricerca di un compromesso - già difficile - tra le tante Livia Turco e le tante Paola Binetti, cioè tra i Ds e l'anima "cattolicista" della Margherita. Accordo che - come ha spiegato il capo dello Stato nei giorni scorsi - sarà reso possibile anche dal riconoscimento del valore della scienza e del progresso da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Si rivelerà la strategia più efficace per ottenere miglioramenti concreti dal punto di vista legislativo? Sarò il primo a ricredermi, salvo poi dover ammettere - tutti - che la politica più valida per difendere il principio della laicità in Italia è quella dei Ds (laicità sì, ma senza spaccare il paese) e non quella perseguita dai radicali per anni, che è oggi di Blair e di Zapatero.

Intanto, mi limito a registrare ciò che proprio in queste ore è accaduto sulle droghe. Non solo non è rintracciabile un dibattito tra due politiche alternative, proibizionismo-antiproibizionismo, ma la ricerca delle "soluzioni condivise", che aveva convinto il ministro Livia Turco a non abolire la Fini-Giovanardi, bensì a limitarsi ad alzare da 6 a 12 spinelli la soglia della detenzione ad uso personale, è stata sconfessata ieri in Senato da un voto condiviso da CdL, Margherita e Ds, compresa Anna Serafini, ds e moglie di Piero Fassino.

Qui entra in discussione l'essenza stessa del riformismo italiano. Unica componente del centrosinistra che interpreta il ruolo di custode dell'"unità" della coalizione, e a quel singolo obiettivo sacrifica le riforme, prestando il fianco alle bordate massimaliste dell'estrema sinistra e dell'ala "cattolicista". E questo ci ricorda che se non si è capaci di far vivere una politica riformatrice, l'"alternativa" - per sua natura nemica delle "soluzioni condivise", perché "spacca" il paese, lo costringe a scegliere (democraticamente, ovvio) - si finisce per impelagarsi in negoziati defatiganti su cavilli di cui i cittadini non comprendono il significato di fondo.

Dunque, permettetemi di rimanere scettico, perché in quell'approccio delle "soluzioni condivise", dell'"etica condivisa", vedo in secondo piano l'obiettivo della difesa della laicità e della libertà individuale, sacrificabili sia all'"unità" dell'Ulivo, sia al valore della "coesione della società italiana". Un mito - perché in una società moderna e complessa non può esservi coesione se non nel rispetto della legge, e certo non sui valori, l'etica o gli stili di vita - che serve a nascondere le differenze per meglio gestire il potere. L'obiettivo è un'improbabile e irrealistica "coesione", o la convivenza di più etiche? Questa "coesione" non viene pagata a caro prezzo sempre da qualcuno cui è proibito vivere con dignità la morte o farsi una canna?

La mia impressione è che si voglia rendere latente il conflitto, anestetizzare il confronto, che in quel modo non si pongano i cittadini nella condizione di dover fare delle scelte tra alternative chiare, mentre quando ci si riesce, democraticamente, è occasione di crescita civile del paese.

Ecco perché, dopo tutto, dobbiamo essere grati a questo Papa quando parla di certi argomenti abbandonando ogni sensibilità e delicatezza, sottolineando posizioni che agli occhi della gente negli anni scorsi erano passate del tutto in secondo piano, nascoste dietro lo sconfinato velo di amore per Wojtyla («guai a chi ce lo tocca»). Benedetto XVI, non Napolitano, ci ricorda il carattere di "alternativa" di certe scelte.
Viva Ratzinger, abbasso Napolitano!

Tuesday, November 28, 2006

Le «soluzioni condivise» di Napolitano

Cari lettori, vi segnalo il mio esordio su Liberazione (quotidiano orgogliosamente «della Rifondazione comunista»), con il quale sorprendo anche me stesso, ma - come si dice - le vie del Signore sono infinite. E anche quelle dei "liberali".

Intanto, su Notizie Radicali, Castaldi mi dedica un affettuoso «Caro Punzi», al quale non esiterò a replicare con un altrettanto affettuoso «Caro Castaldi».

Sul caso Welby, al capitolo «torture di Stato», non perdetevi questo bell'editoriale di Ugo Ruffolo, su Libero (così abbiamo attraversato tutto l'arco parlamentare...) per scoprire che magari già la Costituzione e le leggi vigenti permettono di "salvare la vita" a Piergiorgio Welby.
«No alla pena di morte. È imperativo preferirle la condanna a vita; anche con carcere duro. Ma non quando la cella è tanto disumanamente ristretta da impedire di muoversi, e contemporaneamente si subisce il dolore di torture efferate. Perché allora la morte diventa quella grazia agognata che i tortura­tori negano, e quelli più feroci sapientemente procrastinano. Welby non ha commesso crimini, ma è prigioniero della più angusta, terrificante ed immobilizzante prigio­ne: il proprio corpo inerte, bara vivente ed insieme torturatore efferato. Welby, condannato senza colpa a quell'ergastolo, chiede la grazia di morte. È questa grazia eticamente e giuridicamente negabile?»
«Non si può inchiodare Welby su questa croce» solo perché altri vi si farebbero inchiodare.
«Welby, eroe del nostro tempo, soffre dedicando gli ultimi frammenti di vita degradata a difendere in nome della vita il principio della vita degna, e dunque dell'eutanasia come corollario del vero diritto alla vita... Se è consentito sacrificare la pro­pria vita, e qualche volta anche quella altrui, per salvare altri, deve essere consentito di sacrificare la propria per salvare se stessi».

E' «impazzita» anche l'Ocse

Ennesima impietosa bocciatura della Finanziaria

Altra tegola sulla coppia Prodi-Padoa Schioppa. Dopo i severi giudizi del Governatore della Banca d'Italia Draghi, dell'ex presidente Ciampi e del Financial Times, il declassamento da parte delle più autorevoli società di rating, e tutti i giornali contro, arriva l'impietosa bocciatura da parte dell'Ocse.

Le critiche che l'Ocse rivolge alla Finanziaria 2007 sono le stesse che in queste settimane si sono levate da un paese evidentemente, secondo Prodi, «impazzito». «Nessun serio tentativo di tagliare la spesa» ed «effetto depressivo sulla crescita».

«Il problema di bilancio dell'Italia si risolverà solo grazie a vaste riforme», ha detto il capo economista dell'Ocse, Jean Philippe Cotis, nel corso della conferenza stampa di presentazione dell'Economic Outlook 2006. «L'aggiustamento è interamente legato a nuove tasse, con nessun serio tentativo di tagliare la spesa» e l'aumento della pressione fiscale «avrà un effetto depressivo sulla crescita dei consumi».

L'Ocse è critica anche sulla possibilità che la manovra raggiunga gli obiettivi di bilancio. Il rapporto deficit/Pil è previsto al 3,2% nel 2007 (2,8% la stima formulata dal Governo) ed al 3,3% nel 2008, quindi ancora sopra i parametri fissati dal Patto di Stabilità Ue, perché le entrate relative all'evasione fiscale saranno inferiori alle attese del Governo.

Il contenimento della spesa, spiega il rapporto Ocse, è certamente «necessario», ma «soprattutto nel campo delle pensioni, del pubblico impiego, delle amministrazioni locali e della sanità, come indicato nei piani di medio termine del Governo».

Confermando la timida ripresa dell'economia italiana nel 2006, una crescita del Pil dell'1,8%, dopo «quattro anni e mezzo di quasi stagnazione», l'Economic Outlook spiega che i fattori trainanti sono stati «la forte crescita del mercato dell'export, le migliori condizioni creditizie, una crescita dell'occupazione e della fiducia». Secondo l'Organizzazione, la crescita si dovrebbe ridurre nel 2007 ad un +1,4%, per poi risalire all'1,6% nel 2008.

Il tasso di disoccupazione è atteso in costante calo, dal 7,1% dell'anno in corso, al 6,8% del 2007 fino al 6,5% del 2008, grazie al nuovo processo di regolarizzazione degli immigrati, all'aumento dell'occupazione tra le persone sopra i 50 anni e alla continua crescita di contratti a termine presso i lavoratori più giovani.

Bravo Erdogan, saggia la Santa Sede

Bravo Erdogan! Che in modo non previsto dal protocollo ha accolto personalmente Benedetto XVI sotto la scaletta dell'aereo. E' voluto essere il primo a stringere la mano al Papa e al gesto è stato dato rilievo dalle tv turche. E' seguito tra i due un colloquio privato durato circa 25 minuti. Al termine Erdogan ha riferito ai giornalisti che il Papa si è detto favorevole all'ingresso della Turchia nella Ue.

Padre Lombardi, direttore della sala stampa vaticana, ha poi precisato la posizione della Santa Sede in merito, spiegando che «non ha il potere né il compito specifico, politico, di intervenire sul punto preciso riguardante l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea. Non le compete. Tuttavia vede positivamente e incoraggia il cammino di dialogo e di avvicinamento e inserimento in Europa, sulla base di valori e principi comuni».

In questi termini si era espresso giorni fa il Cardinale Bertone, Segretario di Stato: «L'auspicio è che la Turchia possa veramente realizzare le condizioni poste dalla Comunità europea per l'accesso e per un'integrazione nella Comunità». Una neutralità "positiva", un sì, giustamente condizionato, ma certamente una svolta rispetto a certe prese di posizione precedenti, anche di Ratzinger, in altri tempi e con responsabilità diverse da quelle di oggi.

Bertone mostra di comprendere il valore politico e l'importanza strategica dell'ingresso della Turchia nell'Ue:
«D'altra parte noi auspichiamo che questa evoluzione di un grande Paese islamico che accede alla democrazia e che vuole attuare un regime democratico faccia passi avanti e giunga a compimento. E realizzare quindi quella concezione di una vita politica e democratica che è la grande tradizione europea».
Saggia la Santa Sede.

Monday, November 27, 2006

Il Presidente Napolitano svende il principio di laicità

Il presidente Napolitano in udienza dal PapaPochi se ne accorgono, tra questi non c'è Pannella

«Confido che il riconoscimento, anche da parte delle più alte autorità religiose, della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico come "autentici valori della cultura del nostro tempo", consentirà di dare soluzioni ponderate e condivise ai problemi della libertà della ricerca, con il suo codice e con le sue regole, e ai più complessi temi bioetici».


E' il passaggio del discorso del presidente Napolitano, in occasione della giornata nazionale per la ricerca sul cancro, di cui molto si è discusso nei giorni scorsi.

In realtà nulla di nuovo rispetto a ciò che disse di fronte al Pontefice solo pochi giorni fa. Napolitano confida in «soluzioni condivise», tra Stato e Chiesa, sui temi della ricerca e della bioetica. Non in altro modo può essere interpretato quel passaggio.

E in Vaticano, infatti, sono rimasti soddisfatti delle parole del Capo dello Stato: li si riconosce come autorità religiose che hanno dignità di interlocutori del Parlamento nel trovare le «soluzioni condivise». Un'aberrazione del principio di separazione tra Stato e Chiesa.

Certo, precisa il Quirinale, il Parlamento è la sede (ci mancherebbe!) e a studiare le soluzioni ci sono i cattolici "laici" che vi siedono, non i cardinali. Il presidente Napolitano ribadisce che sui temi detti «eticamente sensibili» sia buona regola (politically correct) che le soluzioni siano «condivise». Ma le auspicate «soluzioni condivise» a quei problemi le fa dipendere dal «riconoscimento» del valore della scienza e del progresso da parte delle «più alte autorità religiose». Insomma, le domande come quella del cittadino Piero Welby troveranno risposta solo se il legislatore sarà in grado di adottare «soluzioni condivise». E la possibilità che il legislatore trovi «soluzioni condivise» dipende a sua volta dall'apertura delle gerarchie ecclesiastiche.

E' questo nesso di dipendenza che il presidente stabilisce tra «riconoscimento» da parte delle «più alte autorità religiose» e il «dare soluzioni condivise» che va a toccare il principio di laicità. Secondo Pannella, invece, Napolitano «ha dato l'esempio» e la sua è stata una «prudenza doverosa». Non vorrei però che a forza di fare i "buonisti" insieme a Napolitano ci venisse sonno. Domanda: e se quel «riconoscimento» non ci fosse - e pare che non ci sia? Che si fa? Aspettiamo? E' il riconoscimento del valore della scienza ciò che importa chiedere alla Chiesa, o della libertà individuale?

La frase del presidente sarebbe stata perfetta senza quell'inciso «anche da parte delle più alte autorità religiose», in cui fa esplicito riferimento alla Santa Sede. Provate a rileggerla senza: «Confido che il riconoscimento... della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico come "autentici valori della cultura del nostro tempo", consentirà di dare soluzioni ponderate e condivise ai problemi della libertà della ricerca, con il suo codice e con le sue regole, e ai più complessi temi bioetici».

Quella del presidente Napolitano è una disponibilità tipicamente riformistica al compromesso che si fonda sul concetto ben poco liberale, cui così spesso sentiamo far ricorso, di «etica condivisa». L'idea, cioè, che sui grandi temi etici il legislatore debba adottare soluzioni il più possibile «condivise». Per i sostenitori dell'«etica condivisa» non è importante che lo Stato, rispettando il principio di laicità, non imponga per legge alcuna soluzione etica, ma che essa sia «condivisa» dalle forze politiche prevalenti in Parlamento. Per costoro laicità non equivale all'assenza di una visione etica nelle leggi, ma al compromesso, dal contenuto pur sempre etico, fra visioni etiche diverse. Il risultato, per il cittadino, non cambia.

L'idea di laicità non si contrappone alla religione così, per gusto, per vezzo anti-religioso, ma respinge qualsiasi pretesa di dare un fondamento etico - o una pluralità di fondamenti etici che hanno trovato un compromesso tra di loro - alla politica e al diritto, provengano essi dalla Chiesa, dai partiti, o da qualsiasi normale o illustre cittadino che intenda trasferire la sua etica "buona" in leggi per tutti.

Per questo non è sembrata gran ché come difesa della laicità quella di Napolitano nel suo incontro con il Papa in Vaticano. «Avvertiamo come esigenza pressante ed essenziale il richiamo a quel fondamento etico della politica...», ha detto il presidente, aggiungendo di vedere addirittura per lo Stato e per la Chiesa «una comune missione educativa», da esercitare «là dove sia ferito e lacerato il tessuto della coesione sociale, il senso delle istituzioni e della legalità, il costume civico, l'ordine morale».

Quella di Napolitano non è stata un'affermazione di laicità, ma del suo contrario: una difesa dell'etica di Stato. Meglio, una difesa dell'«autonomia della politica» - di cui «avvertiamo come esigenza pressante ed essenziale» richiamare il «fondamento etico» - a ricercare «soluzioni valide, ponderate, non partigiane...». Non si sta certo parlando di libertà individuale.

Sembra sott'inteso che bisogna trovare un accordo tra chi ritiene che la vita sia proprietà dell'Individuo e chi crede, invece, che appartenga a Dio e che sia, quindi, un bene indisponibile. Sforzarsi di trovare un accordo sembra un auspicio ragionevole, ma c'è un clamoroso non-detto.

La vicenda di Welby non è un caso limite, ma il più emblematico e dal punto di vista liberale il più semplice da risolvere, che non concede alibi ai portatori di una concezione etica del diritto. E' sul testamento biologico che si addensano problematiche ben più complesse, perché si è di fronte a una volontà espressa molto tempo prima dal momento in cui la decisione sulla vita del soggetto viene presa, e perché di fatto si trova ad essere interpretata dalla figura del fiduciario. Di fronte alla volontà di Welby, invece, espressa hic et nunc, nel pieno delle sue facoltà mentali e rispetto alle condizioni di vita imposte da una malattia irreversibile e all'ultimo stadio, non c'è etica che possa valere se non la sua.

Chiunque, in qualsiasi momento, può suicidarsi, mentre al malato terminale, solo perché immobilizzato, viene tolto il diritto di decidere della propria vita. Di fatto lo Stato si fa forte del suo corpo disabile e malato contro di lui, contro la sua volontà, contro la sua coscienza. E' una forma subdola e ipocrita, ma estrema, di violenza e di discriminazione.

Fare una legge sull'eutanasia non vuol dire imporre a tutti i cittadini nelle condizioni di Welby la scelta del cittadino Welby, ma consentire a ciascuno di vivere la morte secondo la propria etica e la propria coscienza. Non farla, invece, vuol dire imporre ai tanti cittadini Welby una scelta non loro.

Queste due posizioni non possono essere messe sullo stesso piano negoziale. Qualsiasi compromesso tra di esse violerebbe la libertà di Welby e il principio di laicità. Vi pare una posizione estremista? Piuttosto la chiamerei radicale, nel senso che la libertà individuale spesso va difesa radicalmente.

Democrazie in guerra

LibMagazineE' on line il numero X di LibMagazine. Insieme a tanti altri validi contributi, alcune mie riflessioni sul rapporto tra democrazia e guerra.

Quali sono le cause delle difficoltà dell'Occidente nella guerra al terrorismo e nell'affrontare regimi fondamentalisti come quello iraniano? Quali sono le cause delle difficoltà americane in Iraq?

Secondo Giuliano Ferrara (Il Foglio, 10 novembre), nessun errore strategico o tattico, le cause vanno ricercate «nel nostro modo di essere occidentali e moderni», nel fatto che Churchill «è morto e sepolto». Ferrara ricorda che il periodo di «lunga pace e prosperità» in cui viviamo dipende «dalla devastazione e dalla spoliazione di un nemico riconosciuto per tale e denunciato per tale».

La forza di annientamento con cui furono sconfitte Germania, Italia e Giappone nella Seconda Guerra Mondiale è cosa «ormai ideologicamente scorretta, incompatibile con la buona coscienza dell'occidente... La guerra è per noi un ricordo lontano, e
per il grosso dell'opinione consolidata dal partito globale dei media, un incubo».

Tuttavia, esistono dei «costi della nostra buona coscienza», nell'aver sostituito la geopolitica alla guerra. La «malattia mortale dell'occidente», conclude Ferrara (Il Foglio, 14 novembre) è «la scomparsa della guerra... non siamo capaci più di farla».

C'è del vero in quanto sostiene il direttore del Foglio. Una guerra contro un nemico che non cerca semplici vantaggi commerciali o territoriali, ma mira alla tua distruzione, come i terroristi in Iraq, non può essere vinta con il minimo sforzo, ma con l'annientamento dell'avversario.

Tuttavia, come ha giustamento osservato Carlo Panella (Il Foglio, 23 novembre), la «cecità» che colpisce le democrazie di fronte ai totalitarismi non è un problema «dell'oggi».

Il fenomeno del «riconoscimento tardivo del nemico» si è manifestato in modo esemplare negli anni '30 del secolo scorso, e la Conferenza di Monaco nel 1938 ne è l'evento più emblematico. Anche allora, dunque, c'era da prendersela con il «nostro modo di essere occidentali e moderni», con «la buona coscienza dell'occidente», con un lungo periodo di «pace e prosperità» alle spalle? Eppure, c'è chi quella guerra ha saputo combatterla e vincerla. Il problema, quindi, sottolinea Panella, è che «le democrazie stentano a comprendere che i sistemi totalitari le minacciano e reagiscono un attimo prima che sia troppo tardi». E' accaduto nel 1938 e, forse, accade oggi.

«Dal 1979 a oggi - osserva - gli Stati Uniti non sono riusciti a mettere a fuoco una strategia decente contro l'avanguardia marciante del totalitarismo islamico: l'Iran degli ayatollah». Dunque, è la previsione pessimistica di Panella, «andiamo a passi da gigante verso Monaco, in attesa che europei e americani sentano sulle loro nuche il freddo delle scimitarre islamiche. Nella speranza che reagiscano, come fecero, ma solo all'ultimo minuto, dopo Dunkerque e Pearl Harbor».

Il ritardo delle democrazie a comprendere le minacce delle forze totalitarie e la tendenza ad agire contro di esse «un attimo prima che sia troppo tardi» sembrano problemi fisiologici, che trovano spiegazione nella natura stessa delle nazioni democratiche, nel loro rapporto con l'idea della guerra e dell'esercito, ben descritto da Alexis de Tocqueville ("La Democrazia in America", 1835 - 1840): «Vi sono due cose che un popolo democratico farà sempre con grande fatica: cominciare una guerra e finirla».

La democrazia, spiegava il magistrato francese di ritorno dal suo viaggio negli Stati Uniti del 1830, «favorisce l'accrescimento delle risorse interne dello stato, diffonde l'agiatezza, sviluppa lo spirito pubblico, fortifica il rispetto della legge nelle varie classi». I cittadini dei paesi democratici sono spinti verso l'industria e il commercio. Essendo «eguali», sanno che è possibile, e desiderano, «mutare la loro condizione e aumentare il loro benessere: ciò li dispone naturalmente ad amare la pace, che fa prosperare l'industria e permette a ognuno di giungere a capo delle sue piccole imprese».

Temono la guerra, invece, che «divora tanto rapidamente» la ricchezza prodotta in tempo di pace: «Una specie di apatia e di benevolenza universale li placa e fa cadere la spada dalle loro mani». Inoltre, la temono perché «qualsiasi lunga guerra in un popolo democratico mette in pericolo la libertà». Aumentano immensamente le attribuzioni del governo, che accentra nelle sue mani i poteri e l'uso delle cose materiali. Dunque, «se non conduce al dispotismo tutt'a un tratto con la violenza, porta dolcemente ad esso con le abitudini». Tutte queste cause «contribuiscono a estinguere lo spirito militare» nelle nazioni democratiche.

Tuttavia, osserva Tocqueville, la guerra è «un accidente a cui tutti i popoli sono soggetti, qualunque sia il gusto che hanno per la pace». Se per ogni esercito è valida la regola per cui se «entra in campagna dopo una lunga pace, rischia di essere vinto...», ciò è particolarmente applicabile agli eserciti dei paesi democratici: «Dopo una lunga pace, e nei tempi democratici le paci sono lunghe, l'esercito è sempre inferiore al paese stesso. In questo stato lo trova la guerra; e, finché la guerra non lo ha mutato, il paese e l'esercito stesso sono in pericolo». Presso le società democratiche, inoltre, in tempo di pace «la carriera militare è poco onorata e seguita. Questo sfavore pubblico è un peso che grava sullo spirito dell'esercito».

Eppure, Tocqueville invita il paese democratico a «non lasciarsi scoraggiare dalle prime disfatte, poiché le possibilità di vittoria del suo esercito aumentano con la durata stessa della guerra». Se la pace è particolarmente "dannosa" per gli eserciti democratici, «la guerra assicura loro qualità che gli altri eserciti non hanno mai».

Quando la minaccia si concretizza, o la guerra si prolunga, strappando i cittadini ai loro lavori pacifici, mettendo in pericolo il benessere conquistato in tempo di pace, i paesi democratici si dimostrano in grado di reperire tutte le risorse e le ricchezze necessarie, umane e materiali, «conducono più facilmente tutte le loro forze disponibili sul campo di battaglia». Accade che «le stesse passioni che attaccavano i cittadini alla pace, li rivolgano verso la guerra» e si scopre che l'abitudine alla libertà e all'eguaglianza ha preparato il loro «animo» ad essere particolarmente motivato e a «farla bene».

Tutte quelle qualità che rendono i popoli democratici attaccati alla pace fino a «un attimo prima che sia troppo tardi», una volta che vi sono trascinati, si trasformano in virtù che li rendono in guerra superiori ai loro nemici.

Per questa ragione, secondo Tocqueville, le nazioni democratiche, che «con tanta malavoglia si fanno condurre sui campi di battaglia, vi compiono prodigi quando si è riusciti a fare loro impugnare le armi» e hanno in definitiva maggiori probabilità di vittoria contro stati dispotici.

Dunque, il ripudio della guerra, le resistenze che ad essa oppongono i Parlamenti, i media, e l'opinione pubblica, sono elementi costitutivi delle società democratiche. Il rapporto tra consenso popolare e guerra è inscindibile, spesso drammatico e pieno di rischi, ma irrinunciabile. Per quanto mi riguarda, mi arruolo tra coloro che con maggiore forza denunciano le minacce delle forze totalitarie, e propongono le risposte più risolute, non escludendo l'uso della forza, ma ho presente che rinunciare alla dialettica tra guerra e opinione pubblica, all'estrema, a volte quasi "suicida" - a volte saggia - riluttanza che i cittadini di una democrazia hanno riguardo la guerra, significa di fatto rinunciare alla democrazia stessa, a ciò che siamo in ragione di essa, al «nostro modo di essere occidentali e moderni». E', quello di reagire troppo tardi, un rischio, e un costo, che sono disposto a correre. Caro Ferrara, ci vuole forse più fiducia nella democrazia, perché finora gli errori e le inefficienze a cui pure è soggetta si sono rivelati sopportabili rispetto ai benefici.

Il vero tema da discutere, invece, sarebbe come riconoscere il nemico prima che sia troppo tardi, prima di quell'ultimo minuto che poi rende inevitabile il ricorso a guerre devastanti. Comprendere se e come, di fronte a stati la cui minaccia è rappresentata dalla natura stessa dei loro regimi, siano possibili politiche di "regime change" nonviolento, con il sostegno delle forze democratiche al loro interno e l'uso delle armi di attrazione di massa delle democrazie. Di questo è urgente parlare. Per questo, è urgente riconoscere il nemico.

Sunday, November 26, 2006

Quella lunga notte elettorale alla sudamericana

Il film di Deaglio "Uccidete la democrazia", sui presunti brogli elettorali alle elezioni politiche del 2006 commessi dalla CdL per mano del ministro degli Interni Pisanu, è una boiata pazzesca. L'ho sentito ieri, trasmesso da Radio Radicale. Presentandosi come documentario stupisce che di documentato non presenti proprio nulla, soprattutto per quanto riguarda l'oggetto del film-denuncia: i presunti brogli. Si tratta di un documentario, sì, ma di quelli di propaganda, con la tesi del complotto ideologico a fare da sfondo e con le raffinate tecniche di manipolazione tipiche dei "documentari" degli anni '30 e '40 del secolo scorso.

In realtà il film allude all'esitenza di un'unica grande cospirazione anti-comunista che va dal bandito Giuliano e il massacro di Portella della Ginestra a Silvio Berlusconi, passando, naturalmente, per gli americani. Questo è l'oggetto del film, che ha lo stesso valore documentale di un'esilerante puntata di Blob.

Forse, per Deaglio, c'era il problema di una nuova trovata per recuperare il pubblico della sinistra antagonista dopo la delusione che gli ha dato settimane fa pubblicando uno studio che smontava le tesi complottistiche sull'11 settembre.

Piuttosto, di quella lunga notte elettorale, ricordiamo due eventi davvero strani, che in quelle ore ci fecero respirare davvero un brutto clima, direi sudamericano, prima che tutto si sciogliesse, chissà fra quanti anni scopriremo come e grazie a chi. Il primo, la riunione a palazzo Grazioli, a notte inoltrata, tra i vertici della Casa delle Libertà, il ministro degli Interni Pisanu e il presidente del Senato. Quanto meno inopportuna. Riguardo i brogli, fu (ed è) la CdL a chiedere di ricontare tutte le schede. A questo punto, perché non ricontarle?

Il secondo, la proclamazione di vittoria pronunciata in piazza dagli stati generali dell'Ulivo, senza ancora la certezza di dati ufficiali, o per lo meno ufficiosi, anzi con la certezza del contrario, cioè del testa-a-testa fino alla fine. Poche righe fredde lette da un Fassino dal volto più cadaverico del solito. Poi, il via al brindisi e ai festeggiamenti. Un atto quanto meno irresponsabile: cosa sarebbe accaduto se la mattina dopo quelle migliaia di persone si fossero svegliate con la vittoria di Berlusconi?

Miti nazional-popolari/2: vecchi in pensione, giovani a lavoro

Uno degli emendamenti del governo alla Finanziaria si chiama «accordo di solidarietà tra generazioni», la cosiddetta staffetta giovani-anziani. Per dare lavoro part-time a un giovane, si riduce l'orario di lavoro di un over-55.

Questa proposta ha dato modo a Tito Boeri di smontare un'altra credenza nazional-popolare molto radicata, che mi sento ripetere, da anni, nelle cene tra amici in cui ci imbattiamo a discutere di pensioni e lavoro: «E' una storia, quella secondo cui per fare posto ai giovani bisogna togliere lavoro agli anziani, in nome della quale si sono, nei decenni passati, varati massicci programmi di pensionamento anticipato», che non hanno mai prodotto l'effetto auspicato. Peggio, «le tasse che ci hanno lasciato in eredità distruggono tantissimi posti di lavoro».
«Qualunque datore di lavoro sa bene che non c'è un numero fisso di posti, che possono essere offerti indipendentemente dal costo del lavoro o dalla congiuntura. Chiunque abbia mai guardato dati disponibili a tutti si sarà reso conto che i Paesi in cui si va in pensione prima sono anche quelli in cui c'è più disoccupazione giovanile: in Italia si va mediamente in pensione a soli 57 anni e abbiamo un tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti dell'area Ocse. La disoccupazione tra i giovani è cominciata a scendere da quando l'età di pensionamento ha cominciato lentamente a risalire».
Eppure, il mito resiste: secondo i sondaggi, il 70% degli intervistati tra gli italiani crede che «se le persone più anziane andassero in pensione più tardi, i giovani avrebbero meno opportunità». Falso, è un mito che si fonda sulla logica del posto fisso, che risente di un'idea del lavoro rimasta al modello organizzativo dell'impresa fordista o tayloristica, e dell'ignoranza della complessità dei processi economici attuali.

Siniora ce la fa: Tribunale internazionale sull'omicidio Hariri

Piuttosto che invocare il dialogo con la Siria a ogni politico libanese anti-siriano assassinato, il Governo italiano saluti l'istituzione del Tribunale internazionale sull'omicidio dell'ex premier Hariri da parte del Governo libanese di Siniora, che ha resistito alle intimidazioni di Damasco e di Hezbollah.

Un passo concreto nella direzione dell'indipendenza e dello stato di diritto, ma è adesso che più serve a Siniora il forte appoggio dell'Unione europea, quindi dell'Italia, e degli Stati Uniti, visto che il presidente filo-siriano, Lahoud, non sembra intenzionato a controfirmare il decreto di istituzione del Tribunale.

Il Governo Italiano assicuri subito «un forte e concreto sostegno economico alla sua messa in opera», chiediamo insieme a Matteo Mecacci, rappresentante all'Onu del Partito Radicale Transnazionale.

La parola a Paolo Guzzanti

Ha il diritto a far conoscere la sua denuncia. Perché le sue accuse, così gravi, reiterate oggi su il Giornale, trovino riscontri o magari confutazioni, comunque delle risposte, ma non possono cadere nel vuoto.

Nell'articolo di oggi estende il suo "j'accuse" ai mainstream media italiani, i giornali e le televisioni pubbliche e private, ma anche alla sua parte politica, Berlusconi incluso, che hanno riservato alla sua denuncia nient'altro che «derisione e silenzio».
«Io oggi accuso. Io accuso prima di tutto la mia parte politica di non aver mosso un dito, di non aver emesso un fiato, di essere rimasta attonita e impassibile, soltanto perché – presumo – Vladimir Putin si trova al centro di molti sospetti.
(...)
Ma adesso devo rivolgermi personalmente a Silvio Berlusconi che già ieri ho chiamato in causa: anche se Romano Prodi è da trent'anni il "darling" di Mosca, con la società Nomisma in joint venture con l'istituto Plehanov che era la branca economica del Kgb, nell'immaginario, e non soltanto nell'immaginario degli italiani il vero amico di Vladimir Putin è Silvio Berlusconi. Io ho sempre difeso questo marcato sbilanciamento verso il premier russo con la ragion di Stato: bisognava trattenere la Russia ancorata all'Occidente, e non lasciarla carrellare verso la grande Asia cinese. E va bene: l'ho scritto, detto e ripetuto, ma non basta. Il silenzio del Presidente di Forza Italia ed ex (e futuro) Presidente del Consiglio italiano, comincia a impressionare. Silvio Berlusconi tace mentre il governo alleato ed amico dell'amico e alleato Tony Blair è furioso con Mosca e con Putin.
(...)
Occorre prima di tutto che la parte politica che dice di volere non banalmente la libertà, ma la libertà nella verità, si decida a dire da che parte sta in questa lurida storia di Litvinenko e delle liste di proscrizione che a quanto pare mi onorano includendo anche il mio nome».
Questa sera il senatore Guzzanti, ex presidente della ex Commissione Mitrokhin, interverrà a Radio Radicale.

La Russia, prima vittima del veleno Putin

Polonio 210. Presto sapremo in quale reattore nucleare è stato prodotto. Per ora, dalle prime mosse degli investigatori e delle reazioni delle autorità britanniche la pista che porta al Cremlino sembra la più accreditata.

«È possibile che si apra una grave crisi diplomatica fra la Gran Bretagna e la Russia», scrive oggi Panebianco sul Corriere. Non solo a causa dell'omicidio dell'ex spia, ma anche «a causa delle sue modalità: l'uso del polonio 210, una sostanza radioattiva che potrebbe avere contaminato, con rischi per la salute dei cittadini, i luoghi frequentati dalla vittima dopo l'avvelenamento. Una minaccia che le autorità di Londra stanno prendendo molto sul serio in queste ore. Le sprezzanti battute di Putin ("l'Europa pensi ai suoi tanti omicidi politici impuniti") non migliorano la situazione».

Di sicuro, però, c'è un veleno che sta uccidendo la Russia: Putin. L'editoriale di Panebianco coglie l'essenziale, che va oltre l'ennesimo assassinio politico. Come dobbiamo interpretare la «stabilizzazione semiautoritaria» di Putin e dei suoi uomini? Non si capisce se la Russia stia comunque «avanzando, ancorché in modo tortuoso, sulla strada della democratizzazione» oppure se sia «preda di una involuzione autoritaria irreversibile». Siamo di fronte solo a «un momentaneo "raccogliere le forze" comunque necessario a un paese che, nella sua storia, non ha mai conosciuto la demcrazia? Oppure è lo strangolamento in culla della neonata democrazia russa?»
«La sola cosa certa è che la speranza dei primi anni Novanta, di un mondo in cui la nuova Russia avrebbe preso il suo posto nella "comunità delle democrazie" contribuendo, insieme ai Paesi occidentali, al governo del sistema internazionale, si è esaurita. Gli affari continueranno, come è anche giusto che sia (anche se l'Europa dovrà per forza porsi il problema di come ridurre la propria vulnerabilità ai ricatti energetici di Putin). Ma la partnership, quella, richiede altro. Richiede una reputazione, una credibilità e una capacità di ingenerare fiducia che Putin ha sperperato».

Friday, November 24, 2006

Il veleno Putin uccide ancora

E' morto Alexander Litvinenko, ex colonnello del Kgb rifugiato a Londra e divenuto cittadino britannico. Era stato avvelenato tre settimane fa da un agente tossico che i medici inglesi non sono riusciti a individuare ma che gli ha "bruciato" uno ad uno gli organi.

Per Oleg Gordievsky, altro ex agente sovietico, «è tutto molto chiaro, si tratta dell'assassinio di un eroe della Russia e della Gran Bretagna, un esule diventato cittadino britannico ucciso sul suolo inglese da un servizio segreto brutale e corrotto».

Nel 1999 Litvinenko denunciò la corruzione e le trame dell'Fsb per giustificare la guerra in Cecenia. Ahmed Zakayev, ex dirigente ceceno, anche lui esule a Londra, rivela che il pomeriggio in cui fu avvelenato ricevette dei documenti sull'assassinio della Politkovskaya. Insomma, sembra che chi tocca la Cecenia muore. Ma l'impressione è che il veleno misterioso si chiami Putin.

Bisogna aggiungere che Litvinenko è stato per tre anni un informatore personale di Paolo Guzzanti durante i lavori della Commissione Mitrokhin. I contatti con lui avvenivano attraverso Mario Scaramella, che l'ex colonnello del Kgb incontrò a Londra il giorno in cui fu avvelenato ma poche ore dopo aver bevuto la tazza di thè che gli sarebbe stata fatale.

Guzzanti, in un recente articolo su il Giornale che non si può ignorare, collega Litvinenko ai presunti rapporti di Prodi e Nomisma con il Kgb, ma questa è un'altra storia. Era giusto però segnalarla.

UPDATE: I segreti del Laboratorio 12 (Guido Olimpio, Corriere della Sera)

Thursday, November 23, 2006

Miti nazional-popolari/1: il concorso e la raccomandazione

Mi pare sia sfuggito all'attenzione dei più un editoriale di Pietro Ichino, di qualche giorno fa sul Corriere della Sera, volto a smontare uno dei più potenti miti dell'Italia burocratico-corporativa: «l'ipocrisia del concorso». La tesi è di quelle che vengono fatte cadere nel dimenticatoio, che non provocano dibattiti, perché troppo radicali.

In sostanza, quello di Ichino non è il solito articolo piagnucoloso sui concorsi truccati dove vengono mandati avanti i raccomandati. E' lo sport nazionale di tutte le mamme prendersela con il concorso truccato e convincersi che se non lo fosse garantirebbe la scelta imparziale dei candidati migliori a svolgere l'incarico bandito. Ogni problema sarebbe risolto e ogni ragazzo troverebbe il suo posto di lavoro. Insomma, un altro tabù nazional-popolare, quello del concorso, tanto che nessuno si è ancora permesso di mettere in discussione l'art. 97 della nostra Costituzione, che recita: «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso».

Non è così, Ichino si spinge oltre e arriva subito al punto: non è un problema degli inquinamenti clientelari, baronali, politici, sindacali o di altro genere, ma è il metodo stesso del concorso che è di «ostacolo alla scelta migliore». Il concorso si rivela come «un metodo cattivo di scelta anche quando esso si svolge rigorosamente secondo le regole».
«In primo luogo perché l'idoneità di una persona a un determinato ruolo dipende per lo più da un insieme di qualità e attitudini molto più complesso di quanto si possa accertare e verbalizzare con una procedura concorsuale... Quand'anche, poi, le prove concorsuali consentissero di accertare le qualità che veramente contano... resterebbe il fatto che la commissione giudicatrice non risponde per nulla della bontà della scelta. Svolto il compito, essa si scioglie; e se il vincitore si rivelerà inidoneo al ruolo, nessuno ne chiederà mai conto ai commissari. Il metodo del concorso è legato all'idea ottocentesca dell'amministrazione pubblica come luogo dove i comportamenti sono soggetti al controllo ex ante di legittimità, ma non al controllo ex post dei risultati prodotti».
Ben venga, dunque, la "raccomandazione". Non è contro questo mostro mitologico che bisogna scagliarsi. La raccomandazione, fondandosi sull'esperienza diretta che un collega, o un amico, ha del raccomandato, e sulla conoscenza precisa del profilo professionale che si sta cercando, è uno dei migliori metodi di selezione.

Nel nostro paese però ci sono elementi distorsivi che rendono questo metodo tutt'altro che virtuoso. Perché? Perché manca «un sistema di controllo rigoroso dei risultati». In altre parole, chi assume un "raccomandato" non risponde in proprio, e in base ai risultati, della scelta fatta. Non bisogna combattere la "raccomandazione" in sé, ma fare in modo che quanti ne fanno un uso clientelare, baronale, politico o sindacale, sappiano di rischiare il loro stipendio.

Vale il discorso che facevamo tempo fa sulla possibilità di licenziamento nel pubblico impiego. Trattandosi di denaro della comunità, gli sprechi devono essere minimizzati. Quindi i dipendenti pubblici dovrebbero rispondere ai massimi criteri di efficienza. Questo significa che occorre trasformare completamente l'organizzazione della pubblica amministrazione. La catena di responsabilità dal più alto all'ultimo dei dirigenti dev'essere ben definita. Ciascuno responsabile dell'efficienza del suo settore e ciascuno libero di licenziare e passibile di essere licenziato.

Ichino fa un esempio molto concreto, che riguarda il sistema universitario. Se venisse abolito il valore legale della laurea (cioè «abrogate tutte le norme che richiedono quel titolo di studio per accedere a qualsivoglia posto, funzione o beneficio»), e se lo Stato non finanziasse direttamente gli atenei, ma offrisse «a ogni diciottenne l'80% del necessario per l'iscrizione a una facoltà liberamente scelta, a suo rischio, a quel punto potremmo lasciare altrettanto libera ogni facoltà di assumere il personale docente e amministrativo secondo le procedure che essa preferisce: se sceglierà male, gli studenti andranno altrove ed essa dovrà chiudere».

E' essenziale invertire il flusso del finanziamento per introdurre elementi di concorrenza nel nostro sistema educativo (da un mio articolo sul numero di Diritto e Libertà dedicato al Welfare to Work):
«... dallo Stato, che finanzia indiscriminatamente, a pioggia, istituti e università, garantendo in modo automatico la loro esistenza, ai privati e alle famiglie, che investono le loro risorse indirizzandole laddove sanno che il servizio è di migliore qualità.

L'autonomia, delle scuole come delle università, deve così intendersi come piena responsabilità della propria sopravvivenza. Solo se gli istituti – i dirigenti, gli insegnanti e il resto del personale – fossero messi nella condizione di dover o garantire un servizio decente o chiudere, sarebbero spinti a fare appello a tutte le proprie energie, risorse, capacità, per offrire un'istruzione di qualità e richiamare fondi (privati e pubblici) in ragione di quella... Prendendo in considerazione i 13 anni del percorso scolastico dalle elementari alle superiori, ogni alunno costa allo Stato 100 mila dollari, 23 mila in più della media Ocse (pari a 77 mila dollari). Immaginiamo cosa potrebbe significare mettere solo la metà di quel denaro in mano alle famiglie, in modo che gli istituti non siano più finanziati in modo uguale, indistinto, ma si debbano contendere gli assegni delle famiglie, messe in grado così di scegliere tra gli istituti a seconda del loro valore reale».

Scegliere il disonore senza evitare la guerra

Come al solito mi ritrovo in pieno nell'analisi di Emanuele Ottolenghi, oggi su il Riformista, che si conclude così:
«La Siria sta cercando di mettere in ginocchio il governo libanese e al contempo manda un messaggio all'Occidente: il prezzo di una qualsiasi cooperazione siriana sull'Iraq - che James Baker si appresta probabilmente a raccomandare all'amministrazione Bush - è il Libano. Come nel 1989, chi sostiene un dialogo con la Siria dovrà pagare il quid pro quo in valuta libanese e sacrificare l'unico paese arabo che finora offriva una prospettiva - per quanto stentorea, fragile e incerta - di un processo democratico che sottraesse gli arabi dal tragico dilemma tra dittatura e guerra civile. Chi sostiene il dialogo con la Siria deve allora sapere questo: il prezzo sarà il Libano democratico.
(...)
Parlare con la Siria significa sostenere la morte del Libano. Sarebbe peggio che un sacrificio degli ideali democratici a favore di una cinica realpolitik. Significherebbe, come disse Churchill di fronte al sacrificio della Cecoslovacchia a Monaco, di scegliere il disonore invece della guerra, finendo poi con l'avere entrambi».
Ennio Di Nolfo si chiede come si spiega l'assassinio di Gemayel, così verosimilmente un atto ostile della Siria nei confronti del Governo Siniora e dell'Occidente, che lo sostiene, con la mossa diplomatica, apparentemente di apertura, della ripresa, dopo anni di rottura, di relazioni diplomatiche regolari con il governo iracheno eletto sotto il controllo delle forze americane.
«Una contraddizione o solo una copertura diplomatica rispetto al progetto più vasto, manifestato dal primo ministro iraniano, Ahmadinejad, di convocare una conferenza Iran-Iraq-Siria che anticipi le analoghe intenzioni manifestate da Bush e riprese, con accenti diversi, anche dalla diplomazia spagnola, francese e italiana?».
Probabile che in questi giorni Damasco ci abbia voluto far assaggiare la sua carota (la riapertura delle relazioni con Baghdad) e il suo bastone (l'assassinio di Gemayel).

Il circolo vizioso della spesa

Su il Riformista di oggi:
Caro direttore, lo sviluppo è il «grande assente di questa finanziaria» perché si continua a ritenere che vada sostenuto con maggiori investimenti e ulteriore spesa pubblica. Per ricominciare a crescere, invece, non servono più sussidi, più incentivi, o nuovi programmi governativi, ma una giustizia civile efficiente, che garantisca il rispetto dei contratti, e nuove regole, che restituiscano ai cittadini-consumatori la libertà di scelta, il loro unico “potere”. Dobbiamo convincerci che la nostra economia può crescere senza aiuti di Stato. E, crescendo, le entrate necessarie al risanamento deriverebbero dalla maggiore ricchezza prodotta. Innanzitutto, dobbiamo acquisire consapevolezza del circolo vizioso in cui siamo. Quando i conti cominciano a non tornare l’alternativa è tra riorganizzare o ricorrere a nuove entrate per continuare a svolgere le stesse funzioni. Ma la boccata d’ossigeno induce il malato in tentazione e così i governi riprendono a spendere evitando qualsiasi autentica riforma del sistema. Questo circolo vizioso si può spezzare solo rinunciando a nuove entrate per concentrarsi su una profonda ristrutturazione della spesa pubblica.

Tentativi di far quadrare il cerchio

Di un certo interesse, fra qualche passaggio condivisibile, qualche altro meno, lo sforzo di Robert D. Kaplan, ieri sul Washington Post, di conciliare idealismo e realismo della politica estera americana degli ultimi decenni.
«The debacle in Iraq has reinforced the realist dictum, disparaged by idealists in the 1990s, that the legacies of geography, history and culture really do set limits on what can be accomplished in any given place. But the experience in the Balkans reinforced an idealist dictum that is equally true: One should always work near the limits of what is possible rather than cynically give up on any place. In this decade idealists went too far; in the previous one, it was realists who did not go far enough.

Iraq has relegitimized realism, which is a good thing. But without an idealistic component to our foreign policy, there would be nothing to distinguish us from our competitors. And that, in and of itself, would lead to the decline of American power».

Wednesday, November 22, 2006

Negoziare con Iran e Siria: si può?

Slogan di una manifestazione anti-siriana a BeirutL'ultimo della serie, per ora, è il ministro dell'Industria libanese Pierre Gemayel, leader del partito cristiano maronita, rimasto vittima di un agguato in un sobborgo di Beirut. «Vogliono uccidere tutte le persone libere», è stata la reazione a caldo di Saad Hariri, figlio dell'ex premier ucciso nel febbraio 2005.

Bush ha invocato un'«inchiesta a tutto campo» e ribadito la determinazione degli Stati Uniti a «difendere i libanesi e la loro democrazia contro i tentativi di Siria, Iran e alleati [Hezbollah] di fomentare l'instabilità e la violenza». Insomma, la Casa Bianca punta il dito contro Damasco.

In effetti, politici e giornalisti che si oppongono all'influenza siriana sul paese dei cedri fanno una brutta fine, uno dopo l'altro: l'ex primo ministro Hariri, George Hawi, il giornalista Samir Kassir, l'ex editore Gibran Tueni. Negli ultimi mesi, inoltre, gli attentati al ministro della Difesa Elias Mur e all'anchorwoman May Chidiac. La mera eliminazione fisica di queste figure è già di per sé un obiettivo per Damasco. Senza bisogno di andare a caccia di moventi e disegni nascosti, Assad vuole recuperare il controllo politico del Libano e liquidare gli avversari è uno dei modi a sua disposizione.

Il dialogo con la Siria c'è, solo che non sta procedendo nel migliore dei modi. Ristabilendo le relazioni con l'Iraq del difficile dopo-Saddam ha in qualche modo risposto agli inviti a divenire «parte della soluzione», ma Assad non vuole dismettere gli abiti di «parte del problema», status che continua a dare i suoi frutti, e impunemente. Così ricorda qual è il prezzo: collaborazione in Iraq in cambio del controllo del Libano. E' questo il loro modo di "dialogare".

Blair è molto attivo nei tentativi di coinvolgere la Siria e sganciarla dall'orbita di Teheran. Fin dall'ultimo vertice del G8, quando Bush gli disse, riferendosi al presidente siriano, che «però deve smetterla con questa merda». Era prevista anche una visita a Damasco, ma l'emissario del premier britannico, Nigel Sheinwald, aveva avvertito Assad che qualsiasi riavvicinamento sarebbe fallito se avesse tramato per indebolire il Governo Siniora.

Anche Washington ha qualche canale aperto. Fu la stessa Condoleezza Rice, tempo fa, ad ammettere: «Il problema non è che non si parla coi siriani: il problema è che loro non agiscono». «Cosa potete fare per aiutarci a uscire dall'Iraq?», avrebbe chiesto l'ex segretario di Stato americano James Baker ai siriani, in un incontro segreto al Waldorf Astoria di New York.

Assad sembra intenzionato ad impedire, a qualsiasi costo, che membri della sua famiglia e del suo regime siano coinvolti nel processo per l'uccisione di Hariri. Proprio mentre a Beirut veniva assassinato Gemayel, l'Onu dava il via libera al tribunale internazionale con il compito di individuare i responsabili. Sei ministri pro-siriani si sono già dimessi nel tentativo di ostacolare l'istituzione del tribunale, che dovrà essere approvata dai 2/3 del Governo libanese, e di indebolire Siniora. L'eliminazione dei ministri è un altro modo, un po' rozzo, per cercare di far mancare il quorum.

La debolezza politica e l'incertezza strategica dell'amministrazione Bush dopo la sconfitta dei Repubblicani alle elezioni di mid-term può aver incoraggiato una dimostrazione di forza da parte siriana e iraniana. Non solo, infatti, l'assassinio di Gemayel e la ripresa delle relazioni Siria-Iraq, ma anche il summit sull'Iraq proposto dal presidente iraniano Ahmadinejad ai leader di Damasco e Baghdad.

L'Iran si propone come attore regionale in concorrenza con gli Usa per la soluzione del caos iracheno, lanciando un'iniziativa di coinvolgimento della Siria che è la stessa su cui proprio in queste ore si sta riflettendo a Washington, in particolare nel Gruppo di Studio sull'Iraq guidato da Baker. E' il tentativo, da parte di Teheran e Damasco, di dimostrare che sono loro a condurre i giochi, non solo sul terreno, ma anche dal punto di vista diplomatico.

E' semplice: vogliono rendersi indispensabili per stabilizzare la situazione in Iraq. In cambio di questa disponibilità chiedono il riconoscimento del loro status di potenze regionali, che implica sia il controllo politico del Libano sia la bomba atomica nelle mani di Ahmadinejad.

Dunque, negoziamo seriamente con Iran e Siria, sostengono in molti. Il problema è come. E' opportuno farlo mentre continuano ad alimentare le violenze in Iraq e sotto la minaccia dell'atomica iraniana? O mentre vengono assassinati i ministri del Governo libanese e Hezbollah viene riarmato per lanciare nuovi attacchi su Israele? E' opportuno rassegnarsi a perdere il Libano, accettare che Ahamadinejad abbia la sua bomba, e che su Israele incombano gravi minacce di distruzione, per ottenere in cambio niente più che degli interlocutori con i quali negoziare il futuro a Baghdad? E' opportuno trattare senza mettere sul tavolo una minaccia molto concreta di uso della forza?

Non potrà esserci nessuna pace in questa regione finché a stati come Iran e Siria sarà permesso di alimentare il terrorismo impunemente. Presto o tardi dovremo farci i conti, ma abbandoniamo ogni speranza di esito positivo se non siamo pronti a minacciare seriamente l'uso della forza. Qualsiasi iniziativa prendessimo, dovremmo sempre tenere a mente che questi stati sono disposti a tutto affinché nella regione non abbiano successo riforme democratiche, perché simili cambiamenti sarebbero letali ai loro regimi dispotici. Negoziare con Iran e Siria si può, basta essere consapevoli che potrebbe voler dire rinunciare alla trasformazione democratica del Medio Oriente.

Quote rosa? No, democrazia, e anglosassone

«Per avere più donne in Parlamento, ai vertici del governo e dello Stato, non sono tanto necessarie nuove norme di legge, quanto piuttosto norme che garantiscano democrazia e trasparenza nella vita dei partiti». Parole condivisibili quelle del presidente della Repubblica Napolitano, che individua il vero problema: il deficit di democrazia interna dei partiti, che riproduce anche nella politica la medesima esclusione del criterio del merito che c'è nel resto della società.

Ma come si convincono i partiti ad essere "democratici"? Un modo - l'unico, credo - ci sarebbe: una legge elettorale maggioritaria e uninominale, una riforma anglosassone. Non solo in questo modo i vertici dei partiti sarebbero indotti a candidare nei singoli collegi figure, sia maschili sia femminili, che possano incontrare i "gusti" degli elettori meno ideologizzati, ma si porrebbe seriamente, a lungo andare, dall'interno dei partiti stessi, il tema delle primarie.

Sanità e previdenza, è l'ora del privato

Oggi, su L'Opinione, un mio articolo su un recente paper dell'istituto CERM che analizza i punti di criticità del sistema sanitario nazionale, proponendo politiche concrete per la sostenibilità e lo sviluppo del sistema.

L'Italia è ferma a una vecchia concezione di "universalismo", incapace di individuare priorità economiche e sani­tarie e di soddisfare criteri di equità.

E' necessario far decollare i pilastri privati previdenziali e sanitari, sia collettivi (i fondi) che indivi­duali (le polizze assicurative). Tra le proposte, quella di far convergere in un unico strumento finanziario il fondo sanitario e quello pensionistico.

Hanno partecipato alla presentazione anche Benedetto Della Vedova e Daniele Capezzone, entrambi sostenitori della necessità di non affrontare separatamente i temi della sanità e della previdenza ma di inserirli nel quadro di un nuovo rapporto tra Stato e cittadino, tra Stato e mercato.

Tuesday, November 21, 2006

Bullismi, sociologismi d'accatto e responsabilità individuale

Ci ha pensato Azioneparallela, su Leftwing, a fare giustizia di tutti quei sociologismi d'accatto che ci tocca ciclicamente sentire in tv o leggere sui giornali. Questa è la volta del bullismo nelle scuole. Fenomeno nuovo? Non saprei rispondere meglio di così:
«Oggi debbo domandarmi se non fosse già in corso, da tutti inavvertita, la "mutazione etologica" della quale parla lo scrittore Antonio Scurati nell'articolo apparso sabato sulla Stampa, a proposito dei fatti accaduti a Torino nel giugno scorso (e finiti in questi giorni sui quotidiani), quando quattro studenti hanno picchiato un compagno disabile, filmando il tutto col telefonino. Scurati vede la "mutazione etologica" nel fatto che i quattro hanno picchiato il compagno al solo ed esclusivo scopo di filmare l'impresa. Finché picchiano, niente di strano: è ordinario bullismo; ma che picchino per filmare, questo è troppo: questa è una mutazione. Scurati, infatti, la interpreta così: i quattro "hanno perpetrato e vissuto un gesto efferato come uno pseudo-evento, un accadimento creato appositamente per i media". Se la parola "appositamente" ha un senso, questo significa che secondo Scurati se non avessero avuto il telefonino non avrebbero picchiato nessuno. Poiché i giornali hanno scovato in rete (non era difficile) non pochi filmati analoghi, c'è da chiedersi se anche questi altri episodi di bullismo sarebbero accaduti ugualmente in assenza di google e youtube. Scurati deve crederlo, e posso capire che perciò si agghiacci. Io ho un'opinione diversa... ma prima di esporla darò un'occhiata alla cornice in cui Scurati inserisce la sua disamina. In essa è infatti tratteggiata una società non solo sessualmente disinibita, ma che incita alla sfrenatezza sessuale, una società che "pencola tra idolatria e mercificazione" del corpo, in cui inoltre non si insegna più il senso della morte e della sofferenza, e il tragico è rimosso; una società in cui, infine, l'impassibilità e l'indifferenza verso la sofferenza altrui è addirittura canonizzata, intronizzata nella figura (che più passiva non si può) del telespettatore.

Ecco quello che definirei un genere di analisi finto profondo. L'analisi suona profonda perché vi si parla di morte e di sofferenza e di tragedia – e chi non si compunge dinanzi a queste parole? – ma è finta perché non si impegna in alcuna analisi accurata di dati e non fornisce alcun raffronto fattuale. Quando Scurati (o chi per lui: ce ne sono molte di simili analisi) avrà dimostrato che nelle società sessualmente inibite certe cose non succedevano, o che dove il corpo non è idolatrato o mercificato è meno mortificato che qui da noi, o che il bullismo da telecamera è spaventosamente in aumento, io prenderò in più seria considerazione il suo furente agghiacciarsi. Fino ad allora, di siffatte analisi riterrò solo questo: che mettono l'estensore nella posizione la più comoda e socialmente rispettata, quella del pensatore pensoso dei destini del mondo».
E il pestaggio ripreso con il telefonino?
«... l'epoca felice in cui la violenza era tutta e senza distinzione occultata, considerata un disvalore e perciò nient'affatto esibita, quest'epoca non è mai esistita... l'uomo ha già prodotto violenza al solo fine di specchiarsi in essa, e questo è accaduto nella dimensione del rituale: in una dimensione, cioè, che è costantemente riscontrata nei gruppi umani, dalle origini ai giorni nostri...»
Scurati, e i sociologi da salotto, ne escono piuttosto malconci dall'uno-due di Massimo Adinolfi.

Consentite anche a me di fare un po' di sociologismo. Piuttosto, caro Massimo, il guaio è che la grande assente nella nostra società è la responsabilità individuale. C'è sempre qualche salvagente che interviene a deresponsabilizzare le azioni "malvage" dei singoli, soprattutto dei ragazzi. La colpa è della società, della televisione, dei videogiochi, della disibinizione sessuale, della rimozione del dolore, della mercificazione del corpo, del consumismo, del Capodanno e pure dei maledetti punk. "Si stava meglio quando si stava peggio", e così via... E in questo senso «la goccia» di Kant è perfetta.

Scontato che neanche la migliore delle scuole rende tutti "bravi" ragazzi, piuttosto chiediamoci: il nostro sistema educativo è basato su meccanismi di incentivi-disincentivi che responsabilizzano gli studenti, nello studio e nella condotta? Le regole vengono fatte rispettare nelle aule o si permette a chiunque di farne carta straccia?

«Nessuno sta parlando realmente di libertà individuale»

Non siamo i soli a cui i discorsi del presidente Napolitano e di Papa Ratzinger non sono affatto piaciuti. Siamo in ottima compagnia. Oggettivista fa luce su come si svolge in Italia il dibattito sulla laicità e sui rapporti tra Stato e Chiesa: c'è chi prende le parti della chiesa-Chiesa e chi della chiesa-Stato. «Nessuno sta parlando realmente di libertà individuale».

Ribadiamo che l'idea di laicità non si contrappone alla religione così, per gusto, per vezzo anti-religioso, ma respinge qualsiasi pretesa di dare un fondamento etico, o attribuire uno scopo educativo, alla politica e al diritto, provengano esse dalla Chiesa, dai partiti, o da qualsiasi normale o illustre cittadino che intenda trasferire la sua etica "buona" in leggi per tutti.

Per questo non ci è sembrata gran ché come difesa della laicità quella di Napolitano ieri in Vaticano. «Avvertiamo come esigenza pressante ed essenziale il richiamo a quel fondamento etico della politica...», ha detto il presidente, aggiungendo che per lo Stato e per la Chiesa vede addirittura «una comune missione educativa», da esercitare «là dove sia ferito e lacerato il tessuto della coesione sociale, il senso delle istituzioni e della legalità, il costume civico, l'ordine morale».

Quella di Napolitano non è stata un'affermazione di laicità, ma del suo contrario: una difesa dell'etica di Stato. Meglio, dell'«autonomia della politica» - di cui «avvertiamo come esigenza pressante ed essenziale» richiamare il «fondamento etico» - a ricercare «soluzioni valide, ponderate, non partigiane...» eccetera eccetera.

Ci viene spiegato che dobbiamo trovare un'«etica condivisa». E' quell'espressione buonista - di cui diffidare assolutamente - usata da sedicenti "laici" (mi verrebbe in mente Livia Turco) per manifestare la propria disponibilità al compromesso.

Accade quasi sempre che nelle trasmissioni televisive e nei dibattiti a rappresentare le posizioni "laiche" si trovino esponenti dell'ex Pci, o comunque di cultura di derivazione marxista, ai quali non sfugge neanche per sbaglio di utilizzare argomentazioni liberali, che cioè si facciano forza della libertà di scelta individuale come valore in sé e convenienza per tutti. Ogni volta che il ministro Turco va in tv a parlare di eutanasia, o di droga, fa danni.

Napolitano e Ratzinger si aggrappano ai Patti d'acciaio

Il presidente Napolitano in udienza dal PapaInnanzitutto non pestarsi i calli

Un incontro ben preparato dai rispettivi staff quello di ieri al Vaticano tra il presidente della Repubblica e il Papa. All'insegna di un rigoroso richiamo ai Patti Lateranensi e al Concordato, esplicito in entrambi gli interventi, tanto da indurci a ritenere che la sintonia fosse ricercata e preparata con accortezza. Tali le rispondenze tra i due discorsi, quasi un duetto, da poter sospettare uno stesso speechwriter.

Il Papa esordisce: «Per assicurare alla Santa Sede "l'assoluta e visibile indipendenza" e "garantirLe una sovranità indiscutibile pur nel campo internazionale", col Trattato Lateranense si è costituito lo Stato della Città del Vaticano. In forza di tale Trattato, la Repubblica italiana offre a diversi livelli e con diverse modalità un prezioso e diuturno contributo allo svolgimento della mia missione di Pastore della Chiesa universale...».

Per questo Ratzinger ringrazia eccetera eccetera...

Poi cita la "Gaudium et spes" per ribadire che «la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo. Tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace quanto meglio coltiveranno una sana collaborazione tra di loro...»

Il Papa quindi ricorda che questa visione è condivisa anche dallo Stato italiano, «che nella sua Costituzione afferma anzitutto che "lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani" e ribadisce poi che "i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi" (art. 7)». Tale «impostazione delle relazioni fra la Chiesa e lo Stato», vale la pena di ricordare, per essere precisi, «ispira» anche il Concordato del febbraio 1984, «nel quale sono state riaffermate sia la indipendenza e sovranità dello Stato e della Chiesa sia la "reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del Paese" (art. 1)».

Ed ecco il controcanto di Napolitano: «In Italia, l'armonia dei rapporti tra Stato e Chiesa è stata e resta garantita dal principio laico di distinzione sancito nel dettato costituzionale e insieme dall'impegno, proclamato negli Accordi di modifica del Concordato, alla "reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e per il bene del Paese". In ciò ci guidano i principi della nostra Carta fondamentale, che ha tra i suoi cardini la dignità e il pieno sviluppo della persona umana e coniuga con il riconoscimento della libertà religiosa l'assunzione dei Patti già sottoscritti con la Chiesa Cattolica».

L'obiettivo comune è «rasserenare il clima». Quale miglior esordio, per un «clima più disteso», che un richiamo reciproco ai Patti comuni? Il conflitto non conviene a nessuno: «Il nostro principale assillo è rinsaldare l'unità della Nazione e la coesione della società italiana: per tale compito sappiamo di poter contare, Santità, sulla Sua speciale sensibilità e sollecitudine».

Già, non si governa questo paese senza i cattolici. Se si fanno polemiche troppo gravi, o se ai cittadini concediamo il capriccio di scegliere l'eutanasia, li compattiamo, le loro differenze non esplodono. Retaggio togliattiano? O suggeritore dalemiano, visto che il ministro degli Esteri era al seguito del presidente? Possiamo escludere che abbia agito, anche in questo caso, "La Presidenza"?

Ratzinger da parte sua assicura che «la libertà, che la Chiesa e i cristiani rivendicano, non pregiudica gli interessi dello Stato o di altri gruppi sociali e non mira ad una supremazia autoritaria su di essi».

«Sì, Chiesa e Stato, pur pienamente distinti, sono entrambi chiamati, secondo la loro rispettiva missione e con i propri fini e mezzi, a servire l'uomo... Se è vero che per la sua natura e missione "la Chiesa non è e non intende essere un agente politico", tuttavia essa "ha un interesse profondo per il bene della comunità politica".

Chiesa e Stato sono chiamati, dunque, per quanto ciascuno per la «rispettiva missione», a «servire l'uomo». Per Napolitano addirittura sono chiamati ad «una comune missione educativa». Cioè, per il presidente la missione sarebbe «comune», mentre per il Papa ciascuno avrebbe la propria. Missione, per Napolitano, da esercitare «là dove sia ferito e lacerato il tessuto della coesione sociale, il senso delle istituzioni e della legalità, il costume civico, l'ordine morale». Avete letto bene. Napolitano parla di «costume civico» e «ordine morale», espressioni che solo a leggerle mi si rivolta lo stomaco.

Ordine morale? Esiste una «missione educativa» dello Stato «là dove sia ferito e lacerato... l'ordine morale»?! Chi è il custode del giusto «ordine morale», così da fare da guida agli altri?

Prosegue Napolitano: «Ci sono, certo, scelte che appartengono alla sfera di decisioni dello Stato, alla responsabilità e all'autonomia della politica. Ma avvertiamo come esigenza pressante ed essenziale il richiamo a quel fondamento etico della politica, che fa tutt'uno col patrimonio della civiltà occidentale e si colloca tra "gli autentici valori della cultura del nostro tempo". Mai dovrebbe la politica spogliarsi della sua componente ideale e spirituale, della parte etica e umanamente rispettabile della sua natura».

Malvino osserva che le due proposizioni possono essere invertite. In quel caso, evidentemente, il significato sarebbe ben diverso: «Avvertiamo come esigenza pressante... bla bla bla. Ma ci sono scelte che appartengono alla sfera di decisioni dello Stato...».

Siccome però non è come in matematica, dove cambiando l'ordine dei fattori il prodotto non cambia, qui Napolitano ha fatto una scelta e il prodotto cambia eccome. No, non s'è detta la stessa cosa.

Una Repubblica fondata sull'etica, su questo il presidente e il Papa sembrano concordare senza fatica. Poco importa che il «fondamento etico» di Napolitano non abbia origine confessionale, tanto basta per porsi al di fuori del concetto di laicità.

Ultimo zuccherino sulle radici cristiane dell'Europa: Napolitano si dice convinto che «molto possa fare per la causa della pace e della giustizia nel mondo l'Europa unita, parlando con una sola voce e riconoscendosi in grandi valori condivisi, che riflettono il *ruolo storico* e la sempre viva lezione ideale del Cristianesimo».

Monday, November 20, 2006

Quando Bush disse: sì a uno Stato palestinese, ma solo se democratico

Bush in uno degli incontri con Abu Mazen«Due popoli, due stati» sembra la formula magica, come se non fosse importante quale stato, di che tipo, si sta promettendo ai palestinesi.

Memori dell'esperienza dei movimenti di liberazione nazionale, che tutto hanno portato ai popoli che volevano liberare tranne che la libertà, e della realtà di oppressione e tirannia che caratterizza il mondo arabo, siamo ancora convinti che sia uno Stato nazionale ciò di cui hanno bisogno i palestinesi? Non è il caso forse di specificare subito che istituzioni politiche palestinesi autonome dovrebbero innanzitutto garantire democrazia e diritti umani?

«Due popoli, due democrazie», è la politica dei radicali, in una prospettiva di riforme democratiche e di modello federalista, anti-nazionalista, per il Mediterraneo e l'intero Medio Oriente, ad oggi strutturalmente portato ad essere causa e teatro di conflitti devastanti e inestinguibili.

Non passa domenica sera però senza che Pannella accusi il «fondamentalista» George W. Bush di ogni nefandezza. Eppure, tra tutte le accuse che si possono muovere al presidente americano, non si può disconoscere un dato politico prezioso, che converrebbe valorizzare: tra mille errori e contraddizioni Bush ha posto la democrazia come obiettivo di breve e lungo termine della strategia di politica estera americana in Medio Oriente dopo l'11 settembre 2001. Una svolta da salutare positivamente e da incoraggiare rispetto alla tradizione "realista" delle amministrazioni repubblicane.

E' il primo presidente americano, e il primo leader occidentale, ad aver condizionato, fin dall'ormai lontano giugno 2002, la nascita di uno Stato palestinese al suo carattere democratico, proprio secondo la formula «due stati, due democrazie», mentre i leader europei, tranne Blair, continuano ancora oggi a parlare di «due popoli, due stati», guardandosi bene dallo specificare l'essenziale per i palestinesi: due stati sì, ma «democratici».

Il nuovo piano della Casa Bianca per il processo di pace tra israeliani e palestinesi fu illustrato dal presidente Bush il 24 giugno 2002, in un discorso che fu interpretato da molti in Europa, facendo da eco all'Anp di Arafat, come un atto di arroganza.

Quel discorso divenne famoso per la delegittimazione definitiva di Arafat quale interlocutore. Il presidente Usa, invitando il popolo palestinese ad «eleggere nuovi leader non compromessi con il terrorismo», di fatto stava scaricando Arafat. «La pace richiede una nuova leadership palestinese, affinché uno Stato palestinese possa nascere», dichiarò Bush, formulando una promessa: «Quando il popolo palestinese avrà nuovi leaders, nuove istituzioni e nuovi accordi di sicurezza con i suoi vicini, gli Stati Uniti appoggeranno la creazione di uno Stato palestinese».

Tuttavia, aggiunse, «uno Stato palestinese non nascerà mai dal terrore, ma dalle riforme. E la riforma dev'essere qualcosa di più che un cambiamento di facciata, o un velato tentativo di mantenere lo status quo. La vera riforma richiede istituzioni politiche ed economiche interamente rinnovate, fondate sulla democrazia, l'economia di mercato, e l'azione contro il terrorismo».

Gli Stati Uniti, assicurò Bush, si sarebbero impegnati «a lavorare con i leader palestinesi per creare un nuovo contesto costituzionale e una democrazia funzionante per il popolo palestinese». E con l'Unione europea, gli altri paesi arabi, e il resto della comunità internazionale, «ad aiutare i palestinesi ad organizzare e monitorare elezioni libere e corrette, locali e nazionali a seguire».

Le condizioni poste da Bush per la nascita di uno Stato palestinese sono quindi chiare: «Se i palestinesi scelgono la democrazia, combattono la corruzione e rigettano in modo fermo il terrorismo, possono contare sull'appoggio americano per la creazione di uno Stato provvisorio di Palestina».

Purtroppo, la vittoria di Hamas alle ultime elezioni legislative ha reso le cose più difficili, ma Bush non ha mai dismesso la sua «visione» strategica: «Due stati, due democrazie, che vivano in pace e sicurezza l'una accanto all'altra». E la ripete in ogni occasione, in ogni incontro, facendo esplicito riferimento a quel suo discorso del 24 giugno 2002, anche se l'Unione europea sembra sorda, cieca e muta.

Il 28 gennaio 2003, nel discorso sullo "Stato dell'Unione": «In the Middle East, we will continue to seek peace between a secure Israel and a democratic Palestine».

Il 26 febbraio 2003, parlando all'American Enterprise Institute di uno Stato palestinese «autenticamente democratico».

Il 14 marzo 2003: «... two states, Israel and Palestine, will live side by side in peace and security... The Palestinian state must be a reformed and peaceful and democratic state... And the Arab states must oppose terrorism, support the emergence of a peaceful and democratic Palestine».

Il 30 aprile 2003: «... the vision of two states, a secure State of Israel and a viable, peaceful, democratic Palestine».

Il 9 maggio 2003: «If the Palestinian people take concrete steps to crack down on terror, continue on a path of peace, reform and democracy, they and all the world will see the flag of Palestine raised over a free and independent nation».

Il 3 giugno 2003, incontrando il presidente egiziano Mubarak a Sharm el-Sheikh: «Last year on June 24th, I put forth a proposal for two states, Israel and Palestine, living side-by-side in peace. I called on Israel to respect the rights of Palestinians, including the right to live in dignity in a free and peaceful Palestine. I urged the Palestinian people to embrace new leaders who stand for reform, democracy and for fighting terror».

Il 4 giugno 2003, al vertice di Aqaba con i leader di Israele, Anp e Giordania: «... it is in Israel's own interest for Palestinians to govern themselves in their own state. These are meaningful signs of respect for the rights of the Palestinians and their hopes for a viable, democratic, peaceful, Palestinian state».

Il 25 giugno 2003, incontrando Abu Mazen: «... the Palestinians govern themselves in their own state, a peaceful, democratic state where the forces of terror have been replaced by the rule of law».

Il 25 luglio 2003, incontrando di nuovo Abu Mazen: «We do not merely seek a state, but we seek for a state that is built on the solid foundations of the modern constitution, democracy, transparency, the rule of law, and the market economy».

Il 6 novembre 2003, parlando al XX anniversario del National Endowment for Democracy: «For the Palestinian people, the only path to independence and dignity and progress is the path of democracy. And the Palestinian leaders who block and undermine democratic reform, and feed hatred and encourage violence are not leaders at all. They're the main obstacles to peace, and to the success of the Palestinian people».

Il 14 aprile 2004, esprimendo il suo appoggio al piano di ritiro da Gaza formulato dal premier israeliano Sharon: «... a peaceful, democratic, viable Palestinian state».

Il 26 giugno 2004, presentando l'iniziativa di riforma per il Medio Oriente allargato e il Mediterraneo: «We reiterate our common vision of two states, Israel and a viable, democratic, sovereign, and contiguous Palestine, living side by side in peace and security».

Il 12 novembre 2004, in sintonia con Blair: «We seek a democratic, independent and viable state for the Palestinian people. We are committed to the security of Israel as a Jewish state. These objectives - two states living side-by-side in peace and security - can be reached by only one path: the path of democracy, reform, and the rule of law».

Bush e Blair ribadiscono il loro appoggio a un processo di pace «based on two democratic states - Israel and Palestine - living side by side in peace and security... There will be no lasting solution without a Palestinian state that is democratic and free, including free press, free speech, an open political process, and religious tolerance».

L'11 aprile 2005, incontrando il premier israeliano Sharon: «I remain strongly committed to the vision of two democratic states, Israel and Palestine».

Il 26 maggio 2005, incontrando il presidente dell'Anp Abu Mazen: «The United States remains committed... to realize the vision of two democratic states living side-by-side in peace and security».

Il 20 ottobre 2005, incontrando di nuovo Abu Mazen: «... two states, living side-by-side in peace; two democracies living side-by-side in peace... I assured him that the United States will use our influence to help realize a shared vision of two democratic states, Israel and Palestine, living side-by-side in peace and security».

Il 23 maggio 2006, incontrando il nuovo premier israeliano Olmert: «In 2002, I outlined my vision of two democratic states, Israel and Palestine, living side-by-side in peace and security».

Il 28 luglio 2006, durante la guerra tra Israele ed Hezbollah in Libano: «Prime Minister Blair and I remain committed to the vision of two democratic states, Israel and Palestine, living side-by-side in peace and security».

Il 7 agosto 2006: «... a two state solution between Israel and the Palestinians, two democracies living side-by-side in peace».

Il 14 agosto 2006: «We'll continue to work for the day when a democratic Israel and a democratic Palestine are neighbors in a peaceful and secure Middle East».

Il 20 settembre 2006, incontrando Abu Mazen: «... the best way to bring peace to the Holy Land is for two democratic states living side-by-side in peace».

Sunday, November 19, 2006

I vietnamiti dovranno attendere ancora

Il presidente Bush con il presidente vietnamitaSi può dire che questa immagine di Bush mentre stringe la mano al presidente vietnamita sotto il busto bronzeo di Ho Chi Minh è un insulto a migliaia di ragazzi americani che hanno combattuto, e che sono morti, per difendere la frontiera della democrazia? Sì, si può dire. Sconfitti due volte, se anche la potenza simbolica delle immagini "fa" storia.

Oggi del Vietnam si preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno delle trasformazioni economiche. Eppure, come in Cina, le riforme politiche sono tutt'altro che scontate. Non c'è libertà d'espressione e neanche libertà religiosa, come testimonia la persecuzione dei Montagnard, la popolazione cristiana che abita gli altipiani.

Il presidente Bush, con la first lady, ha partecipato a una funzione religiosa esattamente come aveva fatto qualche anno fa a Pechino, cogliendo così l'occasione per ricordare l'importanza di libertà così «basilari» come la libertà di religione. La visita in Vietnam però rimane caratterizzata dall'ampio sorriso con il quale il presidente americano ha voluto affrontare il ricordo della sconfitta militare, consapevolmente scegliendo di farsi ritrarre con il bronzo di Ho Chi Minh alle sue spalle e di sottolineare i progressi delle riforme economiche piuttosto che la mancanza di libertà nella «giovane tigre asiatica».

Le priorità dell'America oggi sono il contenimento strategico della Cina e il libero mercato nel Pacifico. Quindi si è disposti a pagare dei costi in termini di coerenza politica pur di strappare il Vietnam all'influenza cinese. Hanoi avrebbe dimostrato di gradire, di cercare cioè proprio con Washington un rapporto in grado di controbilanciare l'influenza della Cina.

Al summit dei 21 paesi dell'Apec Bush ha cercato di far sentire la Cina sotto assedio diplomatico su più aspetti: la richiesta di rivalutazione dello Yuan; il rispetto dei diritti umani; le sanzioni alla Corea del Nord per l'atomica e al Sudan per le stragi in Darfur; il riarmo cinese, dimostrato da un aumento del 14% del bilancio delle forze armate nel solo 2006, per il quale la Rice ha espresso «forte preoccupazione». Il Vietnam è una "piccola Cina" - nel senso di riforme economiche non accompagnate da altrettante aperture sul piano delle libertà e della democrazia - i cui problemi a confronto possono essere per il momento accantonati.

Emblematica dell'approccio americano nei confronti del Vietnam, una lunga intervista rilasciata dal segretario di Stato, Condoleezza Rice, ad alcuni giovani giornalisti di Hanoi. Qui in Vietnam, ha osservato, «sembra che il commercio e lo sviluppo economico siano presenti in ogni luogo». «Siamo anche interessati all'evoluzione politica del Paese», ha aggiunto, citando a sproposito presunti progressi:
«Mi ha fatto piacere eliminare il Vietnam dalla lista dei Paesi con limiti alla libertà religiosa [!], perché essa è importante per un Paese in transizione come per gli Usa, è un valore che ci è molto caro. Ovviamente vorremmo vedere maggiori progressi nella liberalizzazione politica, sui diritti umani, e ho sollevato questi argomenti con i miei interlocutori vietnamiti. Ma è un'evoluzione di cui parliamo con molto rispetto. Il vostro è un Paese che ha fatto molta strada in pochissimo tempo e vogliamo essere un buon partner e un buon amico per il Vietnam».
Insomma, toni ammorbiditi e atteggiamento costruttivo. La transizione ha i suoi ritardi, li vediamo, ma per ora meglio chiudere un occhio e concentrarsi sugli aspetti positivi. L'impressione è che i vietnamiti dovranno attendere ancora: trent'anni fa gli Stati Uniti furono sconfitti dal Nord, oggi sono distratti dalla Cina. Ad andarci di mezzo sempre loro, i vietnamiti.

Saturday, November 18, 2006

Non due Stati, ma due Democrazie. E Israele nell'Ue

Due manifestazioni, a Milano e a Roma. Alla prima, a Milano, organizzata dal Tavolo della pace, partecipano tutti i partiti del centrosinistra, lo Sdi ma non i Radicali per quanto riguarda la Rosa nel Pugno. Alla seconda, a Roma, organizzata dai centro sociali e dal Forum Palestina, hanno aderito i Comunisti italiani di Diliberto e l'Ucoii, l'organizzazione integralista islamica legata ai Fratelli Musulmani.

Due approcci diversi. Quella di Milano se apparentemente riconosce le ragioni sia degli israeliani che dei palestinesi, al grido «Due popoli, due stati», in realtà addossa a Israele tutte o gran parte delle colpe; quella di Roma, orgogliosamente anti-israeliana, al grido: «Solidarietà al popolo palestinese». Per chi partecipa a questa seconda le organizzazioni terroristiche sono in realtà eroici movimenti di resistenza popolare. Ipocrita la prima, criminale la seconda.

I radicali hanno rifiutato di partecipare ad entrambe. In un comunicato Rita Bernardini, segretaria di Radicali italiani, e Lorenzo Strik Lievers, della Direzione, definiscono «inadeguata e in definitiva controproducente la piattaforma» della manifestazione a Milano. Non si dà un contributo alla pace senza riconoscere «la realtà che vede da una parte la democrazia israeliana che persegue e ha perseguito, da ultimo con il ritiro da Gaza, obiettivi di compromesso e di coesistenza, dall'altro uno schieramento sempre più dominato da forze totalitarie che rifiutano di riconoscere Israele e dichiarano l'obiettivo di annientarlo».

Il contributo europeo invece, può essere «la prospettiva "due popoli, due democrazie"... fondata sul superamento della logica impotente dello stato nazionale, sull'ingresso nell'Unione Europea di Israele e di una Palestina democratica, se sceglierà di essere tale, in una logica di federalismo democratico».

E' stato questo il senso di un recente intervento di Marco Pannella al Parlamento europeo: non "due popoli, due Stati", bensì, "due popoli, due democrazie": «L'alternativa europea possibile ed urgente per costruire Pace tra Israele e palestinesi (e nel Medio Oriente) è: due popoli, due democrazie! Perché soltanto proponendo a tutto il Mediterraneo riforme democratiche ed il modello federalista europeo anti-nazionalista sarà possibile eliminare alla radice le cause strutturali del conflitto Medio Orientale, così simili alle cause di tutte le guerre che hanno devastato il nostro continente fino alla decisione di rinunciare al valore assoluto della Sovranità nazionale».

Qualcuno avrà informato Pannella che il tanto vituperato «fondamentalista» George W. Bush è stato il primo presidente americano, fin dall'ormai lontano giugno 2002, a condizionare la futura nascita di uno Stato palestinese al suo carattere democratico?

Se oggi, sul Corriere della Sera, Piero Fassino è intervenuto correggendo lo slogan "due popoli, due stati" in "due popoli/due stati/due democrazie", venerdì, sullo stesso quotidiano di Via Solferino, Furio Colombo, Peppino Caldarola, ed Emanuela Fiano, in una lettera aperta agli organizzatori del corteo di Milano, hanno sollevato il problema del pregiudizio anti-israeliano nella sinistra, ponendo questioni come il «legittimo diritto» di Israele a utilizzare il muro «per fermare i kamikaze» e «il disarmo senza condizioni e immediato di tutte le milizie che combattono in Pale­stina, e che impediscono con la loro esistenza la nascita di un vero Stato palestinese».

E' proprio vero, chiedono, che la questione israelo-palestinese è «il cuore di tutti i conflitti del Medio Oriente»? E la guerra in Libano? La «repressione delle libertà» in tutti i paesi dell’area? La «sciagurata azione» del presidente iraniano?

Ai manifestanti, che propongono di «sospendere ogni cooperazione militare con Israele», Colombo, Caldarola e Fiano chiedono: «Potete indicarci un'altra situazione di dissenso per la quale si sia chiesto un simile blocco?». Israele potrà vivere in pace «solo se ci saranno due popoli, due Stati, due democrazie, ma sappiamo anche che oggi Israele vive in stato d'assedio, circondato da potenti nemici armati». Perciò, concludono, «diciamo un sì convinto alla pace e un altrettanto no convinto a processare Israele. Noi dunque non ci saremo, per evitare che un pur legittimo dibattito possa prestarsi a diventare processo».

Da RadioRadicale.it:
Intervista a Furio Colombo

I colloqui di Venezia: "Il caso Israele e l'Occidente. La politica, i valori, la guerra e la pace: Europa e Stati Uniti di fronte all'unica democrazia del Medio Oriente"

Approfondimento: la proposta Israele nell'Ue