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Friday, April 30, 2010

Ma cosa ci sta a fare l'Unione europea?

Non essendo un tecnico, vi rimando agli editoriali di Roberto Perotti sul Sole e di Oscar Giannino su Il Messaggero. Certo, le agenzie di rating hanno fallito e solo all'ultimo - quando le magagne erano ormai evidenti ai mercati - hanno reagito, ma ciò non dovrebbe distoglierci dal vero problema: i governi greci che hanno truffato i propri cittadini e tutti gli europei; e le istituzioni europee preposte (e per ciò lautamente pagate) ad evitare tali disastri che invece hanno miseramente fallito. Il problema è che la Grecia non può neanche essere messa sotto amministrazione controllata. Saranno sempre gli stessi governanti che hanno truffato sul debito a gestire il prestito.

Nell'istintivo "egoismo" dei tedeschi contrari al piano per la Grecia (l'86%) c'è più sale in zucca, e più intuitiva conoscenza di come funziona l'economia di mercato, di quanto i professionisti dell'euroretorica siano disposti ad ammettere: i salvataggi non funzionano, non evitano i fallimenti e provocano guai peggiori. Credevamo ingenuamente che l'Europa, tutta la sua pletorica burocrazia, i parametri di Maastricht, quei 'rompiballe' della Commissione europea, servissero almeno ad evitarci una situazione simile. E invece, neanche questo.

Le critiche rivolte all'Europa, e alla Germania, per aver ritardato a concedere il piano alla Grecia sono demagogiche, come scrive Perotti:
«Queste critiche sono anche dettate dalla retorica europeista ed eurista che prevale in Italia, per cui l'Unione Europea e l'euro sono diventati dei feticci dello status quo politically correct, invece che degli strumenti per migliorare la governance e la politica economica. Questa retorica ci impedisce di vedere che l'euro può funzionare benissimo, e magari meglio, anche senza la Grecia: non c'è alcun motivo tecnico perché non sia così».
Per Giannino, l'Europa ha contribuito in tre modi al disastro greco:
«L'insuccesso clamoroso degli aiuti strutturali. Un tasso d'interesse troppo basso rispetto a quello "naturale", per l'economia greca. Infine, la clamorosa cecità di fronte alle truffe contabili (truffe maccheroniche nell'ordine di 10 punti di Pil di deficit nascosto)».
E' la conferma che il problema, ciò che dovrebbe essere al centro delle critiche, non sta nella lentezza con cui l'Europa è andata in soccorso della Grecia, ma nelle sue stesse politiche, che hanno portato a questa situazione invece di evitarla, e nella totale mancanza di controllo. L'Unione europea, con il suo mercato unico, non è stata pensata e realizzata per salvare gli stati membri irresponsabili ogni volta che combinano magagne, ma per "costringerli" a migliorare la loro governance e la loro politica economica. Se fallisce in questo, cosa ci sta a fare?

Pannella se ne faccia una ragione

Christian Rocca torna a smontare la tesi assurda pannelliana secondo cui sarebbero stati Bush e Blair ad impedire l'esilio di Saddam Hussein perché volevano a tutti i costi la guerra e segnala un articolo del New York Times in cui si riporta che nella sua autobiografia Laura Bush si chiede che cosa sarebbe successo se il francese Chirac e il tedesco Schroeder si fossero davvero impegnati a convincere Saddam ad accettare l'esilio («if one of them could have persuaded Saddam to go into exile, if they could have conveyed that the United States was not bluffing»). A conferma, ancora una volta, che gli americani l'esilio lo volevano, anzi l'avevano ideata loro la proposta, e che era Saddam a non volerlo perché francesi, tedeschi (e russi) ebbero un ruolo determinante nel far credere al dittatore che sarebbero stati capaci di fermare gli americani.

Sono anni che lo scriviamo. Tesi confermata da diplomatici, dal numero due del regime iracheno (Tarek Aziz), ma evidente a tutti anche tra quel febbraio e quel marzo del 2003. Così André Glucksmann, in un'intervista a La Stampa: «Avrei preferito che il Consiglio di sicurezza all'unanimità esigesse l'esilio di Saddam Hussein, come avevano suggerito un certo numero di Stati arabi. E forse sarebbe stato possibile ottenerlo con una forte minaccia militare. Purtroppo la Francia, la Germania e le manifestazioni pacifiste hanno incoraggiato Saddam Hussein a credersi protetto». Non ci voleva la Cia per accorgersene. Lo ripetiamo per l'ennesima volta. Non è che Francia, Germania e Russia non volevano la guerra. Volevano che Saddam restasse dov'era e hanno agito di conseguenza. Punto.

Thursday, April 29, 2010

Il piano di Fini-san

Fin dalle prime ore dello strappo, la sensazione era stata che Fini avesse perso le staffe quando, già frustrato dal suo ruolo di eterno secondo, si è visto retrocedere in terza, se non in quarta posizione. Il suo malessere deriva oltre che da una irriducibile diversità da Berlusconi, dall'insicurezza di riuscire a succedergli come leader del centrodestra, accentuata da voci e ipotesi balenate sull'onda degli entusiasmi per il successo elettorale. Si è sentito ancor più superfluo e messo in un angolo, trascurato. Ha percepito che continuando così le cose, sarebbe stato sempre più marginalizzato e oscurato da altre personalità - su tutte Giulio Tremonti, perfetto trait d'union tra Lega e berlusconismo - e ipotesi, come quella di un premier leghista con Berlusconi presidente. Per cui, anche se le regionali non sono andate come sperava, ha dato inizio al "piano"...

Questa mattina arriva una conferma. Sulla base delle confidenze di alcuni ex fedelissimi del presidente della Camera, Libero ricostruisce quello che chiama «il piano di Fini contro il Pdl», con tanto di «colloqui» con Pier Ferdinando Casini e con Francesco Rutelli. Scrive Franco Bechis:
«Era pronto da tempo, dall'autunno scorso. E aveva subito un'accelerazione notevole proprio durante la campagna elettorale delle regionali. Gianfranco Fini era pronto ad aprire prima la crisi dentro il Pdl, poi trovare una sponda nell'area centrista e infine fare saltare il banco, smontando i due principali partiti del bipolarismo: Pd e Pdl. Ma la leva principale per realizzare tutto doveva venire da quella che per lui era una certezza: la sconfitta di Renata Polverini alle elezioni regionali del Lazio e il probabile deludente risultato complessivo».
Racconta Amedeo Laboccetta, ex An e da oggi anche ex 'finiano':
«Fino alle regionali avevo compreso le sue ragioni. Ma il giorno dopo le elezioni l'ho visto e gli ho detto che bisognava prendere atto della realtà. I fatti non erano quelli che ci si immaginava, e un leader sa cambiare atteggiamento. Vero che uno dei nostri, Italo Bocchino, si era spinto troppo avanti. Ma che Berlusconi avesse vinto le elezioni e che a Roma questo fosse avvenuto proprio grazie a lui, era un dato di fatto che non si poteva negare. Gli dissi quel giorno che bisognava prendere atto della attualità, che quei dati dicevano che il progetto di una rapida scomposizione del sistema politico, tutto pronto a dissolversi, l'area di Casini e Rutelli in movimento, altri contatti con esponenti del PdL e dell'opposizione non avrebbero portato a nulla».
Ma Bocchino aveva già fatto partire Generazione Italia. Prosegue Laboccetta:
«Gli dissi. "Gianfranco, fermati!" Hai ragione su molte cose, ma se la realtà è diversa... Bocchino sostenne il contrario: avanti, è il momento di spaccare tutto. Parlava da guerrigliero, e credo che sia proprio questo che avesse in mente e che vedremo in scena nei prossimi mesi: la guerriglia... Gianfranco ormai è in mano a guerriglieri come Bocchino, e mi sembra preso dal cupio dissolvi. Cosa farà? La guerriglia, poi la componente finiana, la correntina e inevitabilmente la scissione... Errori ce ne sono stati dappertutto. Vero che Fini troppo spesso è stato umiliato da Berlusconi. Vero che la responsabilità di quella brutta pagina della direzione nazionale è stata vicendevole. Io fino all'ultimo ho sperato che si potesse ancora - chissà, con una stretta di mano - riprovare. Ma non è così. Gianfranco è partito da una considerazione certa: lui non sarebbe stato il successore di Berlusconi nel Pdl. Lega o non Lega, ormai erano più forti altre ipotesi: Giulio Tremonti o altri. Non lui. Io fino all'ultimo gli ho detto: aspetta, prendi tempo. Un leader sa farlo».
Un leader, appunto, ma Fini era ormai preso da un «cupio dissolvi». Da qui il "fallo di frustrazione". Ma se si è chiuso in un vicolo cieco la colpa è sua. Ha scelto di non entrare nel governo per avere le mani più libere, per giocare la stessa, comoda partita di logoramento dei suoi predecessori alla presidenza della Camera (Casini e Bertinotti), convinto che sarebbe riuscito laddove gli altri avevano fallito. Gli è andata male, anche perché ci stava un passo falso elettorale dopo due anni di governo con la crisi, un po' di immobilismo, tutte le gazzarre mediatico-giudiziarie e infine pure il caos liste. E invece... sappiamo com'è andata e Fini ha perso il contatto con la realtà.

Invece di covare rancore, avrebbe dovuto porre a Berlusconi due o tre richieste concrete, obiettivi di governo da portare a casa e che potessero caratterizzarlo in chiave futura. Queste sì che sarebbero state questioni comprensibili e utili a tutti: a se stesso, al Pdl, al governo e al Paese. Due o tre cavalli di battaglia su cui gettarsi personalmente a capofitto, su cui avrebbe trovato in Berlusconi e nella Lega alleati ben disposti a trovare un compromesso alto, un accordo serio. Così avrebbe potuto giocarsi le sue carte.

A palla contro il "mouro"

Analisi perfetta e onesta quella di Enzo, che condivido in pieno. Naturalmente ero lì a tifare Barcellona, in chiave romanista ma non solo. Perché adoro Messi, ammiro Guardiola e il gioco del Barcellona. Però devo dire che ieri l'Inter ha meritato la finale. All'andata ha "rubato": a parte il terzo gol in fuorigioco, solo il rigore negato l'avrebbe portata sul 3-2 e ieri sarebbe stata tutta un'altra storia. Ma ieri no. Una squadra come il Barcellona, in casa, 11 contro 10, non può annoiarci per 80 minuti. E penso che sì, abbia pesato anche l'ingenuo e un po' infantile pre-partita. Mourinho non ha fatto nulla di eccezionale, è solo un gran motivatore. Però una cosa va detta sullo "stile Barça": premesso che l'espulsione di Thiago Motta c'era tutta, non foss'altro per doppio giallo, mi è dispiaciuto vedere la sceneggiata del giocatore colpito (come Di Natale in semifinale dell'Europeo proprio contro la Spagna) e la gara di tuffi nell'area e nella metà campo dell'Inter. Robe che neanche Quagliarella. Odio i calciatori italiani quando si comportano in questo modo, ma bisogna prendere atto che su questo sono in pochi a poterci dare lezioni. Ormai.

Se questa non è una corrente (la sceneggiata di Bocchino)

Ieri sera a Porta a Porta Fini non ha certo contribuito a stemperare le tensioni. Da una parte continua con il suo ripiegamento tattico e la sua dissimulazione, sostiene di volere solo «dibattito», rispetto e diritto di cittadinanza per le sue opinioni (che nessuno gli nega), si mostra rassicurante («il logoramento non lo vuole nessuno») e ragionevole. Ma così non si capisce perché solo pochi giorni fa minacciava di costituire gruppi autonomi, quindi una scissione. E non si capisce nemmeno se su due cose concrete che ha posto si è scoperto d'accordo - come lui stesso ha riferito - con due importanti ministri (con Brunetta sui tagli alla spesa non lineari ma selettivi e con Sacconi sulla riforma della previdenza), segno che spazi per discutere di contenuti, se è questo che interessa, ce ne sono eccome. Dall'altra, non rinuncia a nessuno degli spunti polemici di questi mesi, anche i più pretestuosi e demagogici, nei confronti di Berlusconi e nel merito dell'azione di governo.

Di nuovo sugli attacchi del Giornale («non si sa perché soltanto oggi la solidarietà» del premier - mentre non è stata la prima volta); sulla giustizia (riforme «indispensabili», ma «non bisogna denigrare la magistratura che è baluardo della legalità», né «si può dare l'idea di allargare le sacche di illegalità» - come un Bersani o un Di Pietro qualsiasi); persino su Saviano (è meglio che il presidente del Consiglio non parli); sul federalismo («non è possibile discutere di federalismo senza sapere quanto costa» - il che è ovvio, ampiamente condiviso ed è per questo che i lavori sono in corso); sul reato di immigrazione clandestina (provocherebbe «aberrazioni» contrarie alla dignità umana - mentre siamo molto più morbidi di altri Paesi europei governati dalla sinistra o dal Ppe); infine, sul ruolo di presidente della Camera, che ricopre, puntualizza Fini, «non perché ho vinto un concorso né per un cadeau del presidente del Consiglio». «Continuerò a dire queste cose piaccia o non piaccia, all'interno del mio partito e ovunque ci sia occasione», avverte. E a Vespa, che gli chiede se è possibile una «serena collaborazione» con Berlusconi, risponde che è possibile piuttosto un «sereno confronto».

Ma il passaggio a mio modo di vedere scandaloso e preoccupante di ieri sera, non degno di Fini, è sulle dimissioni-farsa di Bocchino, una sceneggiata patetica che questa mattina si è conclusa nel solo modo possibile. Con una soluzione che avrebbe dovuto calmare gli animi, mentre la reazione scomposta di Bocchino rischia di incendiare ancora di più il clima. Se accettano le sue dimissioni o lo sfiduciano, diceva ieri anche Fini, allora è «epurazione». Ma allora ci si chiede: perché Bocchino ha presentato dimissioni che nessuno gli ha chiesto. Purtroppo la realtà è che le sue dimissioni, condizionate a quelle di Cicchitto, miravano ad un azzeramento dei vertici del gruppo del Pdl alla Camera, in vista di una ridistribuzione dei ruoli (il rinnovo dei presidenti delle commissioni parlamentari è previsto per metà maggio, l'ha ricordato lo stesso Fini) che tenesse conto del peso della componente 'finiana'. Rivotare capogruppo e vice «per consentire alla minoranza - come ha messo nero su bianco lo stesso Bocchino - di esercitare il suo ruolo, di verificare le sue forze e conseguentemente di rivendicare gli spazi corrispondenti al suo peso».

In breve, una "conta" per poter reclamare "posti" in una quota 'finiana'. Fini ieri sera ha ribadito di non volere una corrente, ricordando di aver definito lui stesso le correnti «metastasi» e spiegando che «il correntismo è una posizione pregiudiziale», mentre lui vuole solo «animare il dibattito» interno. Ma che cosa è stata, se non il manifestarsi del correntismo deteriore, in pieno stile Prima Repubblica, questa vicenda delle dimissioni di Bocchino? Il fatto che l'operazione non sia riuscita non ne cambia certo la natura.

Poi qualcuno dovrebbe ricordare a Fini che sulle riforme Berlusconi non ha affatto cambiato idea: innumerevoli volte ha dichiarato (così come i leghisti) che sarebbe auspicabile arrivare a «riforme condivise», con il «coinvolgimento» delle opposizioni, mentre c'è stata almeno un'occasione in cui Fini ha fatto notare - giustamente - che non ci devono neanche essere diritti di veto, e che una maggioranza è comunque legittimata ad andare avanti da sola. Si lamenta che il Pdl non ha ancora una sua bozza sulle riforme istituzionali, mentre Calderoli ha già presentato la sua al capo dello Stato, ma se quella bozza ci fosse stata c'è da scommettere che avrebbe lamentato l'assenza di un sufficiente dibattito.

La carica polemica dei suoi interventi, ora anche televisivi, e l'ampiezza dei temi su cui si pronuncia nel merito, persino su provvedimenti all'esame delle Camere, non fanno che offrire argomenti alla tesi di uno sconfinamento del suo ruolo istituzionale: il presidente di una Camera che interviene nel merito di leggi in via di approvazione, che fa le pulci all'azione di governo e "controcanto" rispetto al presidente del Consiglio, sembra rivendicare un ruolo, che non può avere, nella determinazione dell'indirizzo politico del governo. Lo ripetiamo: non è l'esprimere opinioni politiche, o continuare ad essere un leader politico, in contrasto con le sue funzioni, ma l'essere capocorrente, in qualche modo oppositore, come sempre più si sta configurando - sia pure interno al suo partito - del presidente del Consiglio. Un doppio ruolo sempre meno sostenibile.

Wednesday, April 28, 2010

Due anni di Alemanno

Con oggi sono due anni. L'impressione che si ricava dall'intervista a Gianni Alemanno su Il Messaggero è che il sindaco ex An si prepari a passare all'incasso dopo la lealtà a Berlusconi nello scontro con Fini. Il conto è salato: lo pagheranno i romani e non solo. Contributi strutturali dal governo per 500 milioni di euro l'anno da oggi al 2046 (!) per ripianare il debito (pregresso, bisogna dirlo). E il bilancio slitta a luglio in attesa di incassare l'assegno. Ma anche «maggiore coinvolgimento della Regione e qualche sacrificio anche da parte dei cittadini» (adeguamento delle tariffe alle medie nazionali e - si promette - anche degli standard dei servizi). Il «banco di prova» su cui si chiede al governo di dimostrare «di non essere schiacciato sulle posizioni leghiste» come al solito è quello della spesa: sborsare soldi per ripianare i buchi di bilancio degli enti locali del centrosud. In questo senso Alemanno è molto 'finiano'.

E' ovvio che dato il debito pregresso, qualcosa il governo deve metterci, ma prima di chiedere soldi al governo e ai romani, tra precari stabilizzati e nuovi concorsi banditi, Alemanno ha dimostrato almeno la buona volontà con qualche taglio strutturale alla spesa? Nell'intervista non se ne fa cenno. In attesa delle nuove metropolitane, del piano buche (50 milioni di euro più contributi straordinari dal Cipe), di miglioramenti concreti su pulizia e rifiuti, e dei 1.085 posti in più negli asili nido, l'unica cosa su cui devo dire - da cittadino - ho notato una differenza è sui nomadi: se ne vedono meno aggirarsi come avvoltoi nelle strade, meno ai semafori, e alcune baraccopoli non ci sono più. Il sindaco rivendica lo sgombero di 260 micro accampamenti abusivi, oltre che del Casilino 900, e una diminuzione dei reati dai 225 mila del 2007 ai 166 mila del 2009. Per il resto, tutto sembra fermo in attesa dei 500 milioni del governo. Poi, non ci saranno più alibi.

Flop di Floris (e di Luca Sofri)

C'era grande attesa per la partecipazione (preregistrata) di Fini ieri sera a Ballarò ma si può dire che abbia deluso le aspettative di molti. Evidentemente Floris non era stato molto attento alle ultime mosse del presidente della Camera, perché i suoi insistenti tentativi di metterlo frontalmente contro Berlusconi sono tutti andati a vuoto. A mio avviso per ragioni puramente tattiche, Fini è in una fase di ripiegamento, per ora si accontenta che passi il messaggio "un dissenso nel Pdl c'è ed è ammesso", anche rischiando - come ieri sera - di non far capire al pubblico i veri motivi che solo pochi giorni fa lo avevano portato vicino alla rottura e di avallare uno spettacolo squallido come le finte dimissioni di Bocchino.

Una mossa da correntismo in pieno stile Prima Repubblica: le dimissioni infatti sono "condizionate" a quelle del capogruppo Cicchitto, in pratica sono una richiesta di dimissioni di Cicchitto, in modo da portare il gruppo del Pdl a rivotare per il presidente e il suo vice, «per consentire alla minoranza di esercitare il suo ruolo, di verificare le sue forze e conseguentemente di rivendicare gli spazi corrispondenti al suo peso». In breve, una "conta" per poter reclamare "posti" in una quota 'finiana'.

Ma torniamo al Ballarò di ieri sera per annotare qualcosa a futura memoria.
Fini si è mostrato rassicurante e ragionevole, in fondo chiedendo solo che si discuta delle questioni che ritiene importanti e che in effetti lo sono. Niente, agli occhi dei telespettatori, che giustifichi le minacce di scissione dei giorni scorsi. Anche ieri sera sono rimaste nel cassetto le sue idee "avanzate" su bioetica, immigrazione e cittadinanza. Ha sollevato la questione dei costi del federalismo fiscale, l'esigenza di discutere dei decreti attuativi guardando alla coesione sociale e all'unità del Paese, e che le riforme della giustizia vadano nell'interesse della legalità. Quando Floris ha cercato di condurlo su qualche cosa di concreto, cose molto care al Cav. (come interessi di Mediaset e giustizia), sui cui magari potrebbe decidere di distinguersi in Parlamento, non c'è stato verso. Sul conflitto di interessi, ha detto che è stato risolto da una legge fatta dal centrodestra. E in studio la 'finiana' Flavia Perina, direttrice del Secolo d'Italia, ha argomentato più efficacemente di Bondi a favore del ddl intercettazioni: una questione di stato di diritto, ancor prima che di privacy.

E' sul federalismo che la Perina ha invece mostrato un'inquietante riserva mentale, un pregiudizio centralista. Perché mai un ente locale - regione, provincia o comune - non dovrebbe essere in grado di conservare e valorizzare un bene demaniale, culturale o artistico, sul suo territorio? Perché i provveditori nominati dal governo di Roma dovrebbero essere più saggi e responsabili delle autorità locali? E' ovvio che i grandi patrimoni museali e artistici rimarranno allo Stato centrale, ma in Italia opere d'arte sono disseminate su tutto il territorio e sono spesso trascurate. Chi avrebbe maggior interesse di un comune, una provincia o una regione a valorizzare quel sito archeologico o quel palazzo storico semi-sconosciuto? E i cittadini saprebbero con chi prendersela per la cattiva gestione di quel bene.

Non so se le riserve, a mio modo di vedere sostanziali, espresse ieri sera dalla Perina appartengano anche a Fini e ai 'finiani', ma certo se sono contro il federalismo non dovrebbero girarci intorno, dovrebbero dirlo chiaramente, anche se arrivano fuori tempo massimo.

Ultime osservazioni. Ieri sera Floris ha dato un po' di visibilità a Luca Sofri, a pochi giorni dall'avvio del suo "Il Post". Un paio di stronzate e antipaticissimo: gli altri sono demagogici e superficiali, ma al dunque anche lui non è andato oltre qualche battutina stupida. Ad un certo punto ha provato a sostenere che Bossi figlio era stato "raccomandato" dal padre non so dove. Sarà anche vero, ma proprio lui, Luca Sofri, che non ci venga a dire che non deve alla celebrità e alle relazioni politico-intellettuali del padre le attenzioni di cui è circondato. E nei suoi confronti - diciamolo - Cota è stato un signore: gli ha fatto capire dove si sarebbe andato a infilare se avesse insistito. Senza affondare. Lui ha capito e se ne è stato zitto per un po'. Superfluo.

Grandioso invece Edward Luttwak. Sulle intercettazioni telefoniche ha ricordato che in America, se vengono pubblicati atti coperti da segreto, si indaga sul colpevole della fuga di notizie e c'è la prigione (anche per i procuratori, mentre da noi non gli si può neanche togliere il caso); sull'oppressione fiscale che c'è in Italia ha incalzato sugli stipendi di giudici e politici, enormemente superiori a quelli Usa. Di Pietro e Sofri hanno rosicato non poco.

Tuesday, April 27, 2010

Napolitano affonda il dito nella piaga

Monito severo e rigoroso quello del presidente Napolitano alla magistratura, che attraversa oggi una «crisi di fiducia» nel Paese che, avverte, non deriva solo dal cattivo funzionamento della giustizia, ma anche dall'«incrinarsi della sua immagine e del suo prestigio». «Per recuperare l'apprezzamento e il sostegno dei cittadini» deve fare «autocritica», sarà un «percorso non facile, al quale può darsi positivo inizio se si stemperano le esasperazioni e le contrapposizioni polemiche che da anni caratterizzano il nodo, delicato e critico, dei rapporti tra politica e giustizia».

Napolitano parlava ai giovani magistrati che iniziano oggi il loro tirocinio, ai quali ha voluto quindi offrire i suoi consigli e le sue riflessioni. Ma sono messaggi diretti più che altro ai loro colleghi più anziani: «Fate attenzione a non cedere a esposizioni mediatiche o a sentirvi investiti, come ho detto più volte in questi anni, di missioni improprie e esorbitanti, oppure ancora a indulgere ad atteggiamenti impropriamente protagonistici e personalistici che possono offuscare e mettere in discussione l'imparzialità dei singoli magistrati, dell'ufficio giudiziario cui appartengono, della magistratura in generale. Quella del magistrato - ha ricordato - è una funzione che esige equilibrio, serenità e sobrietà di comportamenti». Perfetto, non c'è da aggiungere altro: esposizioni mediatiche, personalismi e missioni improprie ledono l'imparzialità dei singoli e dell'ordine intero.

Autonomia e indipendenza della magistratura «si difendono tutelando i magistrati dai comportamenti che creano nei loro confronti un clima di ingiusta delegittimazione ma anche adottando risoluzioni consapevoli», come quella - che sarà definita domani dal Csm - in cui si prende atto «dell'oggettiva confusione dei ruoli che può discendere dalla circostanza che il magistrato si proponga per incarichi politici nella sede in cui ha esercitato le sue funzioni». Né, ha aggunto Napolitano, «vanno assecondate chiusure corporative, dissimulate insufficienze professionali, tollerati casi gravi di inerzia o cattiva conduzione degli uffici». Si crea a volte un clima di «ingiusta delegittimazione» della magistratura, ma causato, ha voluto dire il capo dello Stato, da comportamenti di alcuni magistrati da cui tutti gli altri vanno tutelati.

Ripiegamento tattico

Dalla minaccia di costituire gruppi autonomi a quella di dar vita ad una "corrente", poi via via sfumata in componente o area politico-culturale, fino all'idea di un seminario programmatico. Sta tutta qui la retromarcia di Fini nell'arco di una settimana. Se fin dall'inizio avesse proposto a Berlusconi un "grande convegno" programmatico per «rafforzare» il partito nelle sue politiche, probabilmente la sua richiesta sarebbe stata accolta più che favorevolmente. E ieri, durante la riunione con i suoi 'fedelissimi' nella Sala Tatarella di Montecitorio, per l'occasione ancora off limits per i giornalisti, pare che qualcuno l'abbia fatto notare: «Valeva la pena fare tutto questo per ritrovarci a rinculare così».

La verità è che Fini non si accontenta certo di un seminario, si tratta di un evidente ripiegamento tattico. Non sono mutate le ragioni di fondo che lo allontanano sempre più da Berlusconi e che lo hanno indotto ad andare vicinissimo alla rottura definitiva. E' piuttosto una questione di opportunità politica, di realpolitik. Da un lato, come osserva Massimo Franco sul Corriere, quello dei 'finiani' è un «gruppo ripiegato su se stesso», «più debole e disomogeneo di quanto si pensasse». La maggior parte non è ancora pronta - ammesso che lo sarà mai - a seguirlo su una linea battagliera. Dall'altro, Fini comprende che l'immagine del guastatore nuoce alla sua immagine di sobrietà e rischia di alienargli ancora più simpatie tra gli elettori di centrodestra. Inoltre, teme giustamente la reazione di Berlusconi e di Umberto Bossi. Fini vuole evitare a tutti i costi di prestare il fianco a critiche ed accuse di sabotaggio dell'agenda di governo e si mostra preoccupato di non tirare troppo una corda spezzata la quale potrebbe materializzarsi lo spettro di elezioni anticipate.

Da qui l'esigenza di una messa a punto della linea, soprattutto ad uso e consumo di chi andrà in tv o farà dichiarazioni, ma anche in vista dei prossimi delicati passaggi parlamentari, a partire dal ddl intercettazioni, su cui Berlusconi e la maggioranza del Pdl, ma anche Bossi e i leghisti, aspettano al varco i "finiani". Dunque, «assoluta lealtà» alla maggioranza e al governo e massimo «rispetto» per il programma elettorale: «Tutti voi avete capito che non è in discussione la permanenza nel Pdl e nella maggioranza». «Siamo per un federalismo attento alla coesione sociale e all'identità nazionale, per la legalità, per il rinnovo delle classi dirigenti». Niente fughe in avanti, dunque, né sgambetti nei lavori parlamentari (sul ddl intercettazioni, per esempio). Sono queste le indicazioni trapelate dall'incontro di ieri. A proposito, immigrazione e cittadinanza, così come i temi etici, sembrano essere stati riposti momentaneamente nel cassetto per far posto a parole d'ordine più paganti (e più familiari per Fini e i "suoi") come destra e Sud.

La credibilità della linea "lealtà senza acquiescenza" si gioca su un delicatissimo equilibrio per quella che deve rimanere un'"area politico-culturale di minoranza" e non dare l'impressione di essere una corrente stile Prima Repubblica. Da qui l'idea di sotterrare (per il momento?) l'ascia di guerra e promuovere invece un più "costruttivo" convegno programmatico. Resta inoltre la contraddizione, sempre più evidente, del doppio ruolo giocato da Fini, presidente della Camera e allo stesso tempo leader di una minoranza organizzata interna al Pdl, che potrebbe divenire insostenibile se il clima dovesse surriscaldarsi troppo.

Berlusconi e Bossi restano alla finestra. Soprattutto il primo non ha interesse a cercare lo scontro, a maggior ragione se Fini dà garanzie di lealtà e rispetto del programma. Ma la posizione dei due leader è chiara: se in qualche modo al governo verrà impedito di governare e alle riforme - innanzitutto, il federalismo fiscale - di procedere, la strada non può essere che quella del ritorno alle urne. No alla paralisi, né a ipotesi "ribaltoniste". Davvero una componente finiana nel Pdl, come ha sempre sostenuto Giuliano Ferrara, può non essere un «dramma», a patto però che non si trasformi in una corrente di logoramento e di guerriglia in Parlamento. Cosa che forse non avverrà subito, ma personalmente credo che prima o poi lo sarà.

Monday, April 26, 2010

Generazione Italia propone Cicchitto al posto di Fini

L'ignoranza fa brutti scherzi. Se a questa si somma una certa confusione mentale il rischio è che gli altri ti ridano addosso. Succede che i 'finiani' (o piuttosto i 'bocchiniani') di Generazione Italia, nel tentativo di giustificare l'interventismo politico del presidente della Camera, che sta suscitando obiezioni e perplessità non solo nel Pdl, ma qualcuno dice anche al Quirinale, azzardino un parallelo con il ruolo politico del presidente della Camera dei rappresentanti negli Stati Uniti, carica attualmente ricoperta dalla democratica Nancy Pelosi. Ci si chiede se i continui interventi squisitamente "politici" di Fini, spesso in polemica con Berlusconi, e il suo ruolo - da oggi esplicito - anche di leader di una "minoranza organizzata" nel partito di maggioranza, siano compatibili con quello di garanzia di presidente della Camera. Generazione Italia teorizza di sì, avanzando due argomenti. Uno, «ogni prassi può essere modificata»; due, «dall'altra sponda dell'Atlantico potrebbe arrivare il modello per coniugare - anche in Italia - il ruolo di presidente della Camera con quello di politico impegnato attivamente nel dibattito interno».

In America, si fa notare, «lo Speaker della House è di fatto il capo della maggioranza», «quasi un presidente "capogruppo", il presidente della Camera americana ha un ruolo attivo, propositivo quando non di "spinta" nei confronti dei provvedimenti che arrivano in aula». E' senz'altro così in America. Ammettiamo che "innovare" la nostra prassi repubblicana sia cosa facile, che non si scontri con alcuna previsione costituzionale (che sia "super partes" e di garanzia non è esplicitamente scritto, ma forse lo si può dedurre, tra le altre cose, dal rito delle consultazioni in caso di crisi e possibili elezioni anticipate), e lasciamo per un attimo perdere la facile obiezione per cui, se Fini rivendica un ruolo attivo nella dialettica politica e nella vita dei partiti, allora bisogna interpretare "politicamente" la sua assenza alla manifestazione elettorale a Piazza San Giovanni, a Roma.

Volendo seguire il ragionamento dei giovani 'finian-bocchiniani', se ne deduce non che l'interventismo politico di Fini da presidente della Camera si possa giustificare guardando alla Speaker della House Usa, ma che a Montecitorio un presidente d'aula "alla Pelosi" dovrebbe semmai essere Fabrizio Cicchitto. Fini dovrebbe comunque dimettersi - anzi, a maggior ragione - perché sarebbe singolare che il "capogruppo" della maggioranza in Parlamento fosse il leader di una corrente ultra-minoritaria del suo partito. Sarebbe come chiedere che lo Speaker della Camera Usa fosse espressione della cinquantina di "blue dogs" su oltre 250 deputati Democrat. Nancy Pelosi ha fatto di tutto per aiutare Obama a far passare la riforma sanitaria. Fini farebbe lo stesso con i decreti attuativi del federalismo fiscale o con il ddl intercettazioni? E ammesso e non concesso che Fini voglia esercitare un ruolo di «spinta» dei provvedimenti governativi che arrivano in aula (al momento scommetterei sul contrario), l'opposizione lo accetterebbe solo perché si è smarcato da Berlusconi?

Un po' di vittimismo fa sempre comodo, quindi si cerca di far passare Fini come la voce libera che Berlusconi vorrebbe "zittire". In quanti in questi anni ci hanno campato? Ma non è questo. La questione vera, che si finge di non afferrare, non è che Fini, da presidente della Camera, debba rinunciare ad ogni attività politica o di partito, non è questa in conflitto con la sua carica. Certo che può intervenire e dire la sua nelle direzioni e nei congressi. Il punto è che non deve fare il capocorrente quando parla fuori dal partito, in veste di presidente della Camera, ai convegni o nelle occasioni istituzionali, nelle sue passeggiatine con i cronisti intorno a Montecitorio o in televisione, quando si diverte a fare il "controcanto" al presidente del Consiglio. Non si è mai visto un presidente della Camera che convoca i "suoi" parlamentari e che minaccia di costituire gruppi autonomi in Parlamento in dissenso dal suo partito. Ma ho già esposto in questo post del 21 aprile (qui una versione più estesa per il Velino) le implicazioni costituzionali del caso Fini. Chissà quanto ci metteranno i custodi e i soloni della Costituzione a svegliarsi... visto che non si tratta di Berlusconi.

Friday, April 23, 2010

Appunti da oltremanica

Dal secondo dibattito tra i candidati premier in Gran Bretagna che si è tenuto ieri sera i nostri politici dovrebbero solo che prendere appunti. E riflettere silenziosamente. Interessante, infatti, l'approccio, condiviso e pragmatico, sulla base del quale si è svolta la discussione in particolare su due temi. Sull'immigrazione (caro Fini...) l'impianto da cui le posizioni dei tre non si discostano di molto sembra una variante spinta del leghismo nostrano. Il premier uscente laburista Gordon Brown si vanta di aver ridotto il numero degli ingressi e boccia senz'appello la proposta del liberal-democratico Nick Clegg di regolarizzare i clandestini: «Avviare un'amnistia per gli immigrati irregolari sarebbe un errore perché incoraggerebbe la gente a venire in questo Paese pensando che a un certo punto ne legalizzeremmo la presenza. Non costituirebbe un deterrente e farebbe sì che sempre più gente venga illegalmente nel nostro Paese».

Ma non è tutto qui. Il premier ha rivendicato il successo del «sistema a punti» avviato dal suo governo, che secondo le statistiche ha invertito il trend relativo all'ingresso degli immigrati: «La nostra politica mira a controllare e gestire l'immigrazione. Per farlo abbiamo istituito un sistema a punti. **Nessun lavoratore non specializzato proveniente da fuori l'Unione europea può entrare nel nostro Paese. E stiamo gradualmente riducendo il numero di specializzazioni per le quali abbiamo bisogno di persone che vengono da fuori, così che cuochi o operatori sociali in futuro non verranno dall'estero ma saranno addestrati in Gran Bretagna**».

Qui da noi il governo «a trazione» dei cattivi leghisti si limita a chiedere che chi entra nel nostro Paese abbia un lavoro. In Gran Bretagna fanno entrare solo chi ha le specifiche professionalità indicate dal governo. E comunque, ci sarà un giro di vite, in modo da tornare ad avere cittadini di Sua Maestà come operatori sociali e cuochi (da quest'ultimi God Save Us!). Naturalmente anche il leader tory David Cameron è contro la sanatoria e per di più rispetto a Brown, pur premettendo che i lavoratori stranieri «sono una risorsa, per cui vanno accolti e assistiti», lui addirittura chiede di porre un «tetto» prefissato al numero di immigrati da accogliere, a prescindere dalla loro specializzazione. Oltre alla sanatoria Clegg propone di "trasferire" gli immigrati verso le aree del Paese che hanno più bisogno di forza lavoro.

E riguardo un recente emendamento presentato dalla leghista Silvana Comaroli al dl incentivi all'esame del Parlamento («Le regioni, nell'esercizio della potestà normativa in materia di disciplina delle attività economiche, possono stabilire che l'autorizzazione dell'esercizio dell'attività di commercio al dettaglio sia soggetta alla presentazione da parte del richiedente, qualora sia un cittadino extracomunitario, di un certificato attestante il superamento dell'esame di base della lingua italiana rilasciato da appositi enti accreditati»), un'analoga proposta è contenuta nel programma elettorale dei laburisti inglesi, secondo cui a dover sostenere l'esame d'inglese sarebbero non solo coloro che intendono aprire un'attività commerciale, ma anche badanti, insegnanti, operatori sociali, personale dei call center e chiunque svolga una professione che lo metta in contatto diretto con il pubblico.

Sui temi etici i tre (compreso il conservatore Cameron) sono unanimi: sì aborto, sì ricerca scientifica, sì unioni omosessuali. E sì anche alla visita di Papa Benedetto XVI - nonostante lo scandalo degli abusi sessuali sui minori, su cui però tutti e tre chiedono con forza alla Chiesa di fare chiarezza - perché nella tollerante Inghilterra c'è sempre posto per la fede e per il contributo delle diverse religioni.

Tornando sull'immigrazione, facciamo un salto in Germania. Lakeside Capital ci offre questo contributo, tratto da qui:
Despite illegal immigrants’ rights to health care, these services are infrequently used. The problem lies in two clauses of the German immigration law which makes it mandatory for public institutions such as hospitals to pass on information about illegal immigrants to social affairs offices and in turn to the Ministry of the Interior (i.e. § 87 AufenthG, chapter 3.2.2; Article 76 of the AuslG). Therefore, doctors who help undocumented people access basic health services may be penalized for not reporting them.
Qualcuno ieri intervenendo alla direzione del Pdl ha detto che queste cose sono «incompatibili con il Ppe».

Partito vero, ma non per merito di Fini

Che bravi Tremonti e Brunetta (e Alfano)

Certo, si preferirà - ed è comprensibile - concentrarsi sullo scontro Berlusconi-Fini, "macchiettizzare" il Pdl ironizzando sugli interventi degli "yesman", ma se la direzione di ieri ha segnato per il Pdl l'inizio di una nuova fase, di crescita, una sorta di battesimo del fuoco - il «primo lavacro democratico», l'ha definito Ferrara - di un partito che si scrolla di dosso l'etichetta di partito "di plastica", «palcoscenico» per i monologhi del Cav., nel quale invece si dibatte, si discute apertamente e in pubblico al suo interno, forse non si deve a Berlusconi, ma sicuramente non a Fini. Fini, lo abbiamo detto più volte, ha trasformato legittimi e insindacabili (avrà le sue ragioni) motivi di distinzione dal presidente del partito e dalle opinioni prevalenti nel Pdl in pretesti per una incomprensibile rottura, o per la comprensibilissima costituzione di una corrente, il cui obiettivo, come nei partiti della Prima Repubblica, non è il dibattito e il confronto interno, né il semplice caratterizzarsi della sua leadership, ma il logoramento del presidente del Consiglio espressione delle correnti avversarie. Cioè esattamente il motivo per cui nella Prima Repubblica i governi duravano non anni, ma mesi, se non settimane.

Molti degli intervenuti ieri si sono posti sinceramente il problema di come il Pdl possa competere più efficacemente con la Lega al Nord. Ma ben diversamente da Fini, che si è limitato su questo a riciclare dalla sinistra i logori pregiudizi che vedono nei leghisti dei pericolosi razzisti. Per esempio, il ministro Brunetta, che ha criticato la deriva «conservatrice» della Lega: se «il potere locale la sta facendo diventare conservatrice», «noi dobbiamo accentuare la nostra forza modernizzatrice».

Fini ha mostrato di vedere nel federalismo fiscale una minaccia alla coesione nazionale e sociale più che un'opportunità di responsabilizzazione delle classi dirigenti del meridione. Una riserva mentale che ormai anche il Pd ha il pudore di dissimulare. Il problema dei decreti attuativi è semmai cercare di limitare i costi, non di limitare l'impatto di responsabilizzazione. Persino sulla riforma della giustizia Fini e i suoi ormai disconoscono la grande questione democratica posta dalla magistratura politicizzata e riducono l'anomalia certamente rappresentata da alcuni provvedimenti ad hoc alla mera ricerca di «sacche di impunità». In questo modo rischiano di fondare un antiberlusconismo "di destra" in realtà non troppo dissimile da quello perdente della sinistra.

Nel suo intervento di ieri il ministro Tremonti - dopo lo strappo di Fini corteggiato da De Benedetti in quanto, in vista del futuro, sempre più cruciale "trait d'union" tra il berlusconismo e la Lega - ha messo in campo concetti "pesanti", come quello del Pdl come unico partito in questo momento realmente «nazionale». Dato di fatto che da solo smonta l'allarme lanciato da Fini sulla «trazione leghista» e che evidenzia come il ministro dell'Economia sia uno dei pochi ad avere le idee chiare sul destino manifesto del partito fondato da Berlusconi e co-fondato da Fini.

Ha riconosciuto come la tenuta dei conti pubblici non è solo merito suo, ma non sarebbe stata possibile senza la "copertura" politica ed elettorale di Berlusconi e ha offerto una lucida analisi del voto: i ceti produttivi che non votano più la sinistra, sempre più ridotta all'Appennino tosco-emiliano (e pugliese); la Lega che non ruba i voti al Pdl, ma li strappa alla sinistra tra i ceti popolari e operai; il Pdl che emerge come unica forza «nazionale». E per questo può permettersi di concedere alla Lega due governatori, un ministro dell'Interno, e proprio perché è un partito nazionale al Nord non può rivolgersi in modo esclusivo come fanno i leghisti. E' l'unico che ieri ha individuato due semplici compiti a cui lo Stato dovrebbe limitarsi per fare del bene al Sud: l'ordine pubblico e le grandi opere. Per il resto, il federalismo fiscale potrà fare solo che bene perché il Sud non ha bisogno di più spesa pubblica, ma di spendere meglio.

E' passato per lo più inosservato, ma c'è chi ha avuto il coraggio, nell'infuocata direzione di ieri, di muovere delle critiche costruttive e puntuali anche a Tremonti, il più "blindato" dei ministri. Per competere con la Lega, ha detto Brunetta, bisogna accelerare nell'azione riformatrice del governo. A cominciare dalle cosiddette riforme «a costo zero», che non costano, ci fanno risparmiare e contribuiscono in maniera determinante a rilanciare l'economia. Sono «quelle più difficili da fare», perché vanno contro «privilegi, sprechi, corporativismi, clientelismi, egoismi». Ma rivolgendosi al ministro Tremonti, Brunetta ha avvertito che la crisi e il deficit non possono essere «alibi» per non fare le «riforme modernizzatrici». Anzi, si devono fare proprio quando la congiuntura economica è negativa. E dai tagli «lineari» della spesa bisogna passare a tagli mirati premiando le realtà più meritevoli e punendo le altre.

Cos'è questo se non un confronto sulla linea di politica economica del partito e del governo, ma costruttivo, che fa emergere aree politico-culturali diverse, ma non correnti? E il ministro Alfano, che ha messo in guardia il presidente Berlusconi dal compiere l'errore di escludere riforme a maggioranza? Se un'ampia condivisione va ricercata, tuttavia la sinistra ha tutto l'interesse a presentarsi nel 2013 accusando il governo di non aver fatto nulla: «Fra tre anni i cittadini ci chiederanno non se abbiamo dialogato, ma se abbiamo portato a casa le riforme promesse».

Bersani solletica Fini e Bossi, De Benedetti guarda a Tremonti

Su il Velino:

Dopo aver definito quanto avvenuto ieri durante la direzione nazionale del Pdl una «rissa incredibile», e avvertendo che una tale spaccatura interna alla maggioranza può provocare una «paralisi dell'azione di governo» e mettere a rischio «la stabilità del Paese», il segretario del Pd Pierluigi Bersani intende lanciare un messaggio «anche a persone e a forze che sono oltre il centrosinistra». Stamattina da Genova ribadisce quanto spiegato in un'intervista all'Unità. Approfittando dello strappo tra il premier e il presidente della Camera, e delle preoccupazioni che il nuovo scenario desta in Umberto Bossi per il proseguio della legislatura, e quindi per la realizzazione del federalismo, Bersani non nasconde di rivolgersi «a tutti» - anche a Fini e alla Lega - «a tutti coloro che non intendono proseguire la strada sulla curvatura plebiscitaria», quando propone «un patto repubblicano per difendere gli assetti della democrazia nel solco della Costituzione», per «evitare una deriva plebiscitaria e cambiare l'agenda del Paese». Il pericolo numero uno è ancora una volta individuato in Silvio Berlusconi e nella sua «forma di accumulazione del consenso che non prevede decisioni, ma solo di tirare a campare, di fare surf da una promessa all'altra».

Ma qualcosa si muove nel Pd anche da parte di uno dei suoi padri nobili, che tempo fa prenotò per sé la tessera numero uno dell'allora costituendo partito. Carlo De Benedetti, patron di Repubblica-l'Espresso, interviene di nuovo su Il Foglio di Giuliano Ferrara, ma stavolta non con un articolo di politica estera. Con un articolo («Caro Tremonti, giù le tasse per favore»), che se ad una lettura superficiale poteva apparire critico nei confronti del ministro Tremonti, in realtà tentava di stabilire un dialogo, di gettare un ponte, proprio nel momento in cui va in scena lo strappo tra Fini e il Pdl. «Il senso di quello che propongo - ha scritto l'Ing. - è spostare il peso del fisco dalla produzione e dal lavoro alla ricchezza che si fa cose. Dalle "persone alle cose", ha sintetizzato in uno slogan efficace il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, nel suo libro bianco sul fisco. E io trovo giusto quel proposito». Come osserva Franco Bechis, su Libero, «una serenata a Tremonti, mai apprezzato così direttamente e apertamente da un potere forte considerato il nemico numero uno di questo governo». E il sostegno, da parte di un potere forte della sinistra, ad una «grande riforma del sistema fiscale. Una riforma in senso liberale. Perché favorire fiscalmente chi produce e lavora, penalizzando chi accumula, come ci ha insegnato Luigi Einaudi, è l'essenza stessa del liberalismo».

C'è qualcosa che «unisce», secondo Bechis, le ultime mosse di De Benedetti, Ferrara, Montezemolo, Fini, Paolo Mieli e altri: «La convinzione che l'attuale assetto bipolare non abbia più benzina in corpo». Non il Pd, né il PdL, ritenuto «non in grado di sopravvivere alla gestione diretta del suo vero e unico fondatore». Fra tre anni, quando Berlusconi non sarà più in campo o prenderà la via del Quirinale, e difficilmente ormai Fini potrà succedergli, il quadro è destinato a scomporsi e a ricomporsi ed ecco che De Benedetti si rivolge ad uno dei possibili "pezzi" del puzzle, il ministro Tremonti, "trait d'union" tra il berlusconismo e la Lega. Nel suo intervento di ieri alla direzione, tra l'altro, il ministro ha messo in campo concetti 'pesanti', come quello del Pdl come unico partito in questo momento realmente «nazionale». Dato di fatto che da solo smonta l'allarme lanciato da Fini sulla «trazione leghista» e che evidenzia come il ministro dell'Economia sia uno dei pochi ad avere le idee chiare sul destino manifesto del partito fondato da Berlusconi e co-fondato da Fini.

Thursday, April 22, 2010

Fini dichiara guerra: tenterà il logoramento

Fini non ha affatto pronunciato il discorso che mi aspettavo, alto e di prospettiva, con aplomb istituzionale. Ha scelto le basse polemichette. Ma la sostanza non cambia, l'esito della direzione di oggi è esattamente quello che avevo previsto nel post di ieri. Non bisogna farsi confondere dalle questioni di merito che ha toccato nel suo intervento, alcune delle quali messe efficacemente in ridicolo dagli interventi precedenti e successivi, altre senz'altro importanti per il partito e da dibattere, anche se in modo costruttivo e non 'antagonista', come hanno voluto fare Fini e i suoi in questi mesi.

Ed è proprio questo il punto: mettersi d'accordo su ciò che è realmente accaduto in questi mesi. Sono state avanzate richieste di dibattito interno al partito su questioni politicamente rilevanti, o si è dato vita ad un "controcanto" sistematico e potenzialmente logorante, usando la postazione in teoria 'super partes' della presidenza della Camera, e spesso da parte dei finiani indicando nella persona di Berlusconi un modello deteriore di politica, usando nei suoi confronti gli stessi identici pregiudizi della sinistra, bocciati sonoramente dagli elettori?

E' stato tutto sommato un bel momento quello dello scontro, in cui i due leader si sono affrontati a viso aperto, in modo trasparente, come in un colloquio privato. La chiave politica della direzione di oggi l'ha infilata nella toppa Berlusconi quando ha replicato rivelando con linguaggio semplice e diretto, con fare inusuale per i "professionisti" della politica, il contenuto dei loro colloqui privati dei giorni scorsi. E' lì che ha smascherato Fini, che poco prima aveva cambiato totalmente la sua posizione: 'Caro Gianfranco, oggi vieni qui in direzione a chiederci occasioni di dibattito mai richieste prima (mai sono state avanzate richieste formali di convocare gli organi statutari su quei temi) e che nessuno ha intenzione di negarti (una delle richieste, quella di una commissione ad hoc sul federalismo fiscale, Berlusconi l'ha accolta su due piedi), ma l'altro giorno, in presenza di Letta, mi hai detto che ti eri pentito di aver contribuito a fondare il Pdl ed eri deciso a costituire gruppi autonomi in Parlamento'.

Le questioni che oggi lo hanno spinto a chiedere più dibattito interno (avanzando in particolare la ragionevole proposta di un paio di commissioni di lavoro), assicurando comunque di volersi rimettere al volere della maggioranza, sono le stesse per cui qualche giorno fa sembrava fermamente intenzionato ad andarsene? Quando tutti hanno potuto sentire dalla voce di Fini le «questioni politiche» a lui care, tutti hanno riconosciuto l'importanza di discuterne, ma a nessuno sono apparse tali da giustificare l'apertura di una crisi simile, tanto più all'indomani di un successo elettorale. E' questa la debolezza di Fini: l'enorme distanza tra le questioni, pure importanti, che pone, inserendole in un contesto di successi elettorali e apprezzamento generale per l'operato del governo che lo stesso Fini ha riconosciuto, e la radicalità delle decisioni che era pronto ad assumere solo pochi giorni fa, così come l'intensità del "controcanto" suo e dei suoi degli ultimi mesi.

Ma come dicevo, per capire il gioco che ha deciso di giocare in questa partita, basta guardare al ruolo che si è scelto: perché non è voluto entrare nel governo, con un incarico anche nel partito, ma ha preferito la carica di presidente della Camera? Basta guardare a come quel ruolo è stato interpretato dai suoi predecessori (Casini e Bertinotti) e a come lo sta interpretando lui oggi (mi chiedo sempre dove siano finiti i "custodi" della Costituzione), per capire il suo gioco. I suoi continui interventi "politici", squisitamente da leader politico, e da oggi esplicitamente anche leader della minoranza interna al partito di maggioranza, sono compatibili con il ruolo di garanzia della presidenza di una Camera? La questione vera, che si finge di non afferrare, non è che Fini, da presidente della Camera, debba rinunciare ad ogni attività di partito, non è questa in conflitto con la sua carica. Certo che può intervenire e dire la sua nelle direzioni e nei congressi. Il punto è che non deve fare il capocorrente quando parla fuori dal partito, in veste di presidente della Camera, ai convegni o nelle occasioni istituzionali, o nelle sue passeggiatine con i cronisti intorno a Montecitorio, quando si diverte a fare il "controcanto" al presidente del Consiglio.

Quelle di Fini dopo la direzione sono dichiarazioni di guerra che confermano la sua strategia. Una guerra di trincea, che prenderà la forma del logoramento. Che riesca non è detto, ma ci proverà. E non è del tutto vero che non è anche una questione di "posti". Sia nel suo intervento che dopo la direzione, Fini ha voluto sottolineare che si è aperta una «nuova fase»: non solo non è più quella dell'unanimismo ma è quella del confronto. Ma ha anche detto chiaramente che da oggi non ha più senso parlare di quote 70-30 tra ex FI ed ex An, come a dire che adesso c'è una «minoranza interna, di tipo politico-culturale, che supera la vecchia divisione tra Alleanza nazionale e Forza Italia», e che quindi rivendica una propria rappresentanza, anche solo 90-10. E ha chiesto a Berlusconi di prenderne atto, di averne consapevolezza, pur rimettendosi, per quanto riguarda gli organigrammi, alle sue decisioni. Almeno per ora.

Wednesday, April 21, 2010

Fini ha scelto il suo gioco

Vigilia di direzione per il Pdl. Non prendiamoci in giro. Non è questione di democrazia interna, di diritto al dissenso, di rispetto personale. Per carità, tali questioni esistono nel Pdl, sono importanti, come negli altri partiti e come in An. Ma basta guardare a come negli ultimi 9 anni le personalità che si sono succedute alla presidenza della Camera hanno interpretato il loro ruolo - al di fuori o in contrasto con il dettato costituzionale - per capire il disegno politico di Fini. Capirlo non significa che sia razionale. La strategia è il logoramento di Berlusconi, al prezzo del fallimento dell'esperienza di governo. Per succedergli ma come leader di un nuovo centrodestra, da dentro o più probabilmente da fuori il Pdl.

Se i finiani più duri e puri non avendo più niente da perdere spingono per dar vita subito a gruppi autonomi e quindi a una scissione, il presidente della Camera sa che non è il momento e da quando la crisi è deflagrata sta cercando di convincerci che si tratta di rafforzare, rendere più democratico il partito attraverso un confronto su "questioni politiche" come il rapporto con la Lega, la politica per il Sud e via dicendo. Propositi meritevoli ma nessuna di tali questioni giustifica l'apertura di una crisi così lacerante, meno che mai dopo l'ennesimo successo elettorale. No, c'è una questione sola che lo richiedeva: Fini si sente chiuso politicamente da una Lega che esprime una classe dirigente sempre più credibile, tanto da governare regioni, rivendicare una voce nelle fondazioni bancarie, addirittura ipotizzare un primo ministro di sua espressione tra qualche anno; e da Berlusconi, la cui parabola sembra non conoscere fasi discendenti.

Ma Fini temeva questa situazione, l'aveva messa in conto, e non avendo mai davvero creduto più di tanto - sbagliando - che il Pdl (l'episodio del "predellino" se l'è legato al dito e ancora lo condiziona) potesse servire alle sue ambizioni, ha scelto di non entrare nel governo (dove un minimo bisogna pur lavorare), di non avere incarichi nel partito e di godersi gli onori di presidente della Camera, approfittando di questa comoda tribuna per smarcarsi da Berlusconi, logorarlo con il "controcanto" e, da adesso in poi, probabilmente con le "imboscate" parlamentari della sua corrente.

Una fase due? Magari come nel 2004? Fini pensa di aver diritto ad un "patto di consultazione" permanente, è geloso delle cene tra Berlusconi e Bossi ad Arcore nonostante il Pdl sia ben rappresentato, non si sente più adeguatamente rappresentato dalle quote 70-30 tra ex FI ed ex An e formalizzare una corrente è il primo passo per metterle in discussione. Tutto ciò ci riporta ad una logica da Prima Repubblica, per cui non solo tutte le cariche - che si tratti di nomine nel partito, governative, negli enti pubblici o in Rai - e persino le presenze nelle trasmissioni televisive vengono designate rispettando una logica spartitoria (alla corrente di minoranza spetta una quota prefissata di posti), ma una logica per cui alle correnti è permesso anche di ingabbiare, costringerlo ad un gioco estenuante di mediazioni sull'azione di governo, il più delle volte semplicemente "di potere", e quindi di logorare il presidente del Consiglio espresso dalla corrente avversaria.

Personalmente ho un'idea di partito diversa. Un partito che certamente discute democraticamente al suo interno ed elabora la sua linea politica, ma quando si è al governo, è il governo (nel quale tra l'altro sono rappresentate tutte le diverse anime del partito, compresa quella "finiana") che decide, che determina l'indirizzo politico; il gruppo parlamentare contribuisce, mentre il partito passa silenziosamente in secondo piano, fa più che altro convegnistica, si fa comitato elettorale quando serve, e chi ambisce alla leadership futura si prepara ma non la persegue certo sulla base del logoramento del proprio governo.

Fini sa che il "patto di consultazione" non lo avrà e quindi conclude che il suo percorso politico deve continuare ai danni di Berlusconi, del Pdl e dell'esperienza di governo. Adesso gli elettori non comprenderebbero una rottura e molti degli stessi finiani non lo seguirebbero. Per cui ecco come andrà a finire domani: Fini pronuncerà il suo discorso alto e di prospettiva, non nascondendo le divergenze da Berlusconi ma con aplomb istituzionale; non evocherà scissioni, rotture, né annuncerà la nascita di correnti. Insomma, l'ennesimo "rientro". Ma la corrente ci sarà di fatto e a poco a poco intensificherà la conflittualità nel partito, in Parlamento, in tv, nelle dichiarazioni quotidiane, nel tentativo appunto di logorare il premier. Tra qualche anno, verso il termine della legislatura, avvicinandosi la scadenza elettorale e il governo essendo riuscito a fare ben poco, Fini costituirà i suoi gruppi e darà vita al suo partito, pronto a presentarsi come l'uomo di una destra nuova, che di fronte agli elettori, ai cosiddetti 'poteri forti' e ai salotti buoni pretenderà di presentarsi non corresponsabile delle promesse mancate del berlusconismo, mostrando la patente di spirito indipendente dal "padrone" Berlusconi.

Questo il disegno, che riesca è tutta un'altra storia. Per me è suicida e avrebbe fatto meglio, invece, a preparare la sua leadership individuando due-tre cavalli di battaglia su cui caratterizzarsi; accordandosi con Berlusconi e la Lega sul loro conseguimento nell'arco della legislatura; investendo la propria figura politica su di essi. Grazie al suo ruolo istituzionale e con la sua voglia di distinguersi da Berlusconi, per esempio, avrebbe potuto ritagliarsi un ruolo di mediazione con l'opposizione sulle riforme.

Magari sulla sua strada Fini incontrerà Montezemolo. Lui smentisce di voler entrare in politica ma intanto ha lasciato la presidenza della Fiat e ammette che sarà più libero di esprimersi. La mia sensazione è che Montezemolo si vede come riserva bipartisan della Repubblica, o in alternativa come leader di una coalizione di centrodestra, ma siccome non è stupido, finché entrare in politica significherà scegliere se farlo con Berlusconi o contro Berlusconi, cercherà di non compiere o ritardare il più possibile questa scelta. Quindi di restarsene alla larga, per avvicinarvisi solo, eventualmente, verso il termine della legislatura, se e quando il bilancio dell'esperienza di governo sarà palesemente negativo. E in quel caso Fini rimarrà scudiero.

Dove sono i custodi della Costituzione?

Altro che Berlusconi, gli "strappi" di Fini al ruolo che la Carta attribuisce ai presidenti di Camera e Senato sono di una gravità inaudita, e inediti persino per la spregiudicatezza di Casini e Bertinotti. Quando si è mai visto un presidente della Camera che riunisce i "suoi" parlamentari? Che rivendica un ruolo nella determinazione dell'indirizzo politico del governo? E che in contrasto con il leader del suo partito e presidente del Consiglio è pronto a formalizzare correnti o addirittura a costituire gruppi autonomi? Quando si è mai visto? Si è rifiutato giustamente di prendere parte ai comizi in campagna elettorale, ma non sono forse questi comportamenti che contrastano con il suo ruolo istituzionale? Come fa a svolgere serenamente le sue delicate funzioni di garanzia? Che ne sarebbe della credibilità della terza carica dello Stato, se a un certo punto il calendario dei lavori della Camera fosse in contrasto con le esigenze del governo, o se la sua "corrente" si mettesse "di traverso" su una serie circoscritta di temi o persino su tutta l'agenda della maggioranza? Per non parlare poi dell'ipotesi di una crisi di governo da lui stesso provocata: a che titolo il presidente della Repubblica dovrebbe consultarlo, come parte in causa o come carica istituzionale? Solo un esempio delle implicazioni costituzionali del suo comportamento, ma emblematicamente tacciono i "guardiani" e i tanti "soloni" della nostra Costituzione.

Tuesday, April 20, 2010

Il solito vecchio Pd innamorato delle tasse

Come volevasi dimostrare. Ecco perché a Berlusconi basta vivacchiare, basta promettere agli italiani di non mettere le mani nelle loro tasche, per assicurarsi i loro voti. Gli anni passano, ma l'attitudine del Pd a "tartassare" non cambia. La prima proposta concreta e intellegibile del Pd, dopo mesi passati da Bersani a invocare più spesa sociale e "soldi freschi" da spendere, è più tasse sui "ricchi" per allungare la cassa integrazione da 12 a 24 mesi. E' questa la proposta avanzata ieri alla Camera dall'ex ministro del Lavoro del governo Prodi Cesare Damiano. Gente che nonostante i fallimenti politici continua a tenere in mano le redini della politica economica del partito. Il "contributo di solidarietà" prenderebbe la forma di una "una tantum" sui redditi oltre i 200 mila euro. Per questi contribuenti l'aliquota marginale per il 2010 e il 2011 salirebbe del 2%, dal 43 al 45%, producendo un gettito aggiuntivo di circa 450 milioni - tra i 300 e i 450 milioni secondo una stima più prudente.

C'è infatti da considerare l'impatto negativo della crisi economica sui redditi del 2009 e del 2010 e che molti di quei contribuenti, avvertiti dell'iniziativa, troverebbero quasi certamente il modo di dichiarare un reddito che non superi, magari di un solo cent, i 200 mila euro. Una cifra che appare comunque recuperabile - volendo - attraverso dei tagli alla spesa, ma evidentemente il Pd è affezionato all'immagine del partito che ricorre a nuove tasse ad ogni minima esigenza di fare cassa. D'altra parte si sa, le tasse sono «bellissime», impossibile resistergli. Tra l'altro, Bersani e Damiano riciclano una proposta quasi identica avanzata l'anno scorso dall'allora segretario Franceschini. Ma all'epoca, a rimetterci il 2% in più sull'aliquota marginale sarebbero stati i contribuenti con un reddito superiore ai 120 mila euro l'anno.

Una proposta-manifesto, si direbbe quindi, la cui anti-economicità risulta evidente a qualsiasi elettore che non abbia fette di prosciutto davanti agli occhi e con un minimo di contatto con la realtà. Con la somma che deriverebbe dalla nuova tassa infatti si darebbe un anno in più di respiro (e di illusioni) ai lavoratori in cassa integrazione, ma sarebbero soldi sottratti all'economia e quindi si ritarderebbe la ripresa, protraendo lo stallo di imprese che dovrebbero invece essere incoraggiate o a ristrutturare o ad uscire dal mercato.

Monday, April 19, 2010

Una corrente per fare cosa?

Non finirà qui. Probabilmente non assisteremo alla formazione di gruppi parlamentari autonomi, quindi ad una «scissione» nel Pdl, ma alla nascita di una "correntina", in pratica l'istituzionalizzazione del controcanto. Domani Fini riunirà i "suoi" per definire un documento da portare alla direzione di giovedì. Risulterà minoritario ma sancirà la nascita della sua personale corrente, propedeutica a poter avanzare pretese ad ogni variazione di organigrammi (di partito e governativi), visto che non si riconosce più nella spartizione 70-30 tra ex FI ed ex An.

Non si capisce in cosa esattamente il Pdl e il governo siano «al traino» della Lega. Su federalismo fiscale, immigrazione e sicurezza, i tre temi più cari ai leghisti, c'è piena sintonia politica e le posizioni di Fini (assunte solo ultimamente) sono obiettivamente minoritarie nel Pdl. La Lega è andata meglio del Pdl alle ultime regionali perché è più radicata sul territorio e il suo elettorato è più "fedele", meno sensibile alle tentazioni astensioniste che affliggono invece fisiologicamente i grandi partiti. Come ha osservato ieri anche Panebianco, «complici anche certe letture superficiali dei risultati delle regionali, la forza della Lega appare alquanto sopravvalutata... ha infatti ottenuto un grande successo ma con la complicità dell'astensione». Inoltre, c'è da considerare l'effetto "trascinamento" dei due candidati governatore, ma non si può dire che abbia sfondato né in Piemonte né in Lombardia. La sensazione è che attragga più voti da sinistra e dal centro di quanti ne strappi al Pdl. Ora governa due regioni, ma ha un ministro in meno.

Ma forse a irritare Fini sono le dichiarazioni a volte provocatorie e il protagonismo dei leghisti, cui a suo avviso il Pdl dovrebbe rispondere colpo su colpo. Il rischio però sarebbe quello di trasmettere l'immagine di una coalizione litigiosa, quando nei fatti - quando ci sono decisioni da prendere in Consiglio dei ministri - la Lega si è fin qui dimostrata un alleato affidabile e stabile. Non voglio credere che a farlo sbottare sia stata la "bozza Calderoli" o l'ipotesi di un premier leghista in un assetto semipresidenziale che vedrebbe Berlusconi presidente, scenari troppo in là da venire da poter creare una crisi del genere. In definitiva, le critiche dei 'finiani' alla Lega muovono da pregiudizi tipici della sinistra e non da posizioni liberali, dalle quali molto si potrebbe rimproverare alla Lega.

Un altro problema sarebbe la politica economica gestita in modo troppo autonomo e personalistico da Tremonti. A parte che Berlusconi in persona e tutto il governo hanno alla fine condiviso la politica del rigore, Fini dovrebbe dire chiaramente dove pensa che Tremonti stia sbagliando e cosa vorrebbe fare di diverso. Vuole più spesa sociale, come invoca Bersani, in barba al rigore sui conti pubblici? Chiede una politica più meridionalista? Ma in che senso, assistenzialista o federalista? Oppure come noi la contesta da posizioni "liberali"? Ma allora dovrebbe accorgersi che si apre una fase più che propizia, sia pure non scontata, per spingere sulle riforme, da quella fiscale a quella del welfare, e sulle liberalizzazioni. Se di contenuti e non di "posti" si tratta, perché non abbiamo sentito nulla di nulla in proposito?

Sulle riforme, mi pare ci sia ampia condivisione che sarebbe meglio non farle da soli (Bossi è il primo a pensarla così), ma che non bisogna neanche concedere poteri di veto alle opposizioni. Riguardo una gestione più collegiale e democratica della vita interna del partito sono condivisibili le richieste di Fini, ma non può trasformarsi in un modo per rallentare ed ingolfare l'attività di governo, un continuo stop-and-go su tutto, un gioco estenuante di mediazioni, dando luogo di fatto ad una diarchia Berlusconi-Fini.

Nel suo editoriale di oggi Giuliano Ferrara evidenzia quanto sia in realtà vago e generico il malessere di Fini, che «rivendica rispetto, uno spazio vitale, non essere umiliato e marginalizzato platealmente, vuole ossigeno per continuare a crescere sulla propria strada, costruendo il profilo di una conversione repubblicana che, tutto considerato, gli fa onore e fa onore al Cav. che l'ha resa possibile, al pari della conversione governativa e costituzionale della Lega di Bossi e Maroni. E allora, se chiede questo e non altro, che senso ha fargli la faccia feroce, caro Cavaliere?».

Anche Ferrara pensa dunque che sia tutto qui. Stringendo, che Fini sia geloso dei "caminetti" tra Berlusconi e Bossi ad Arcore. Ma sono i leader dei due partiti di maggioranza, mentre lui è presidente della Camera e il suo ruolo dovrebbe tenerlo alla larga dalla determinazione dell'indirizzo politico. E' paradossale e preoccupante che tra gli elementi più destabilizzanti degli ultimi governi vi siano stati i presidenti della Camera dei deputati (Casini, Bertinotti e ora Fini), esondando ampiamente dal loro ruolo istituzionale. Non si è mai visto un presidente della Camera che riunisce i "suoi" parlamentari per formalizzare una corrente o addirittura dei gruppi autonomi.

Al contrario di quello di Casini il controcanto di Fini non sarebbe «pericoloso», secondo Ferrara. Anzi, con le sue «incursioni» e il suo aplomb istituzionale Fini «allarga» lo spazio politico della maggioranza. E ciò può essere senz'altro vero, a patto però che non raggiunga e non superi quel limite di litigiosità interna alla coalizione che irrita gli elettori più di ogni altra cosa e che contraddistinse l'Unione prodiana. Che Fini sia «obbligato dal proprio interesse a stare dentro» il Pdl lo credo anch'io (anche se di mosse irrazionali in questi ultimi anni ne ha fatte parecchie); sul fatto che sia anche obbligato «a scommettere sulla buona riuscita» dell'alleanza di governo ho i miei dubbi. Mi pare infatti che anteponga a tutto la sua esigenza di smarcarsi da Berlusconi, sempre e su qualsiasi cosa, che sia convinto - sbagliando - di costruire il suo futuro politico logorandolo, come facevano le correnti Dc quando al governo non c'era un loro esponente.

Panebianco sostiene, a ragione, che una scissione sarebbe un «favore» alla Lega. A suo avviso, invece, una corrente interna al Pdl darebbe a Fini una «certa forza contrattuale» da spendere nei confronti di Berlusconi, Tremonti e Bossi sulle varie questioni dell'azione di governo. Una strada «sdrucciolevole», ma l'unica possibile, perché anche per Panebianco «limitarsi a fare il controcanto ogni volta che Berlusconi parla, come il presidente della Camera ha fin qui scelto di fare, può strappare applausi alla sinistra ma, politicamente, non porta da nessuna parte». Il problema è che a mio avviso la corrente non sarà altro che l'istituzionalizzazione del controcanto, perché di politiche e obiettivi concreti da proporre, sui quali mettere la faccia e caratterizzarsi, finora Fini ha dimostrato di non averne (tranne che qualche suggestione sulla cittadinanza).

Friday, April 16, 2010

Fini fermo a un'idea di partito da Prima Repubblica

Ciò che probabilmente in tanti, sbigottiti e increduli, si stanno chiedendo in queste ore è che cosa davvero chiede e cerca Gianfranco Fini a tal punto da essere disposto ad una rottura definitiva da Berlusconi, proprio in un momento in cui le prove elettorali promuovono il governo e lo rafforzano per il proseguio della legislatura. Quali sono le «questioni politiche» che ha posto e alle quali il premier «non ha saputo rispondere»? Non credo che le divergenze su immigrazione, cittadinanza e bioetica siano tali da indurre a una rottura. Si tratta dell'azione di governo, o delle riforme istituzionali? Le cose e le riforme da fare in questi tre anni di legislatura che rimangono - senza appuntamenti elettorali e con tutti i numeri in Parlamento e il consenso nel Paese necessari per farle - sono tali e tante che ciascuno può trovare il suo cavallo di battaglia da cavalcare, dunque le carte, lo spazio e tutto il tempo per giocarsi il suo futuro politico.

Ce n'è per tutti: il federalismo per la Lega, il fisco e la giustizia per il Pdl e in particolare per Berlusconi, il semipresidenzialismo e quant'altro per Fini. Forse non condivide la politica economica, gestita in modo troppo autonomo e personalistico da Tremonti? Allora però dica chiaramente dove pensa che Tremonti stia sbagliando e cosa vorrebbe fare di diverso. Vuole più spesa sociale, come invoca Bersani, in barba al rigore sui conti pubblici? Chiede una politica più meridionalista? Ma in che senso, assistenzialista o federalista? Oppure la contesta da posizioni "liberali"? Ma allora dovrebbe accorgersi che si apre una fase più che propizia, sia pure non scontata, per spingere sulle riforme, da quella fiscale a quella del welfare, e sulle liberalizzazioni, ma non abbiamo sentito nulla in proposito.

La realtà che tutti avvertono è che di questa rottura si stentano a vedere le ragioni di fondo e la strategia complessiva. Il malumore di Fini in realtà è prepolitico, direi psicologico (la sua irriducibile diversità da Berlusconi, l'insicurezza di riuscire a succedergli), e questo lo induce a fare le mosse sbagliate e spesso dichiarazioni schizofreniche (l'ultima sulle riforme: prima il modello francese da adottare in blocco, compreso l'irrinunciabile doppio turno; poi dice che si può inventare un modello tutto italiano, per forza di cose prendendo pezzi di altri modelli a destra e a manca).

Il suo malessere si può forse riassumere in una certa sensazione di essere superfluo e messo in un angolo, trascurato e oscurato oltre che da Berlusconi ora anche dalla Lega. Le questioni che pone sono quindi vaghe e generiche. Ma la colpa è sua, che è confuso, indeciso, non sa porre a Berlusconi due o tre richieste concrete, obiettivi di governo da portare a casa e che possano caratterizzarlo. Queste sì che sarebbero questioni comprensibili e utili a tutti: individui due o tre cavalli di battaglia su cui gettarsi personalmente a capofitto e vedrà che troverà sia in Berlusconi che nella Lega alleati ben disposti a trovare un compromesso alto, un accordo serio.

Ma non può pensare di sottoporre la maggioranza a questo tira e molla per tutta la legislatura solo perché sente di aver bisogno di visibilità. Finirebbe per logorare il governo ma anche se stesso. In questi 24 mesi si è limitato a distinguersi da Berlusconi qualsiasi cosa dicesse, un minuto dopo che aprisse bocca, come se non conoscesse il Cavaliere e i suoi tic praticamente da una vita. Un controcanto che è sembrato strumentale. E i commentatori sono praticamente unanimi nel considerare la sua strategia incomprensibilmente sbagliata, anche un conservatore non certo berlusconiano come Ernesto Galli Della Loggia.

L'argomento più fondato di Fini e i suoi è la gestione del partito e l'incubo della sudditanza del Pdl nei confronti della Lega, di cui sarebbe «al traino». Su quest'ultimo vale la pena soffermarsi. L'allarme per l'influenza della Lega sul governo e sul Pdl è eccessivo. La realtà è che la Lega, al contrario della sinistra estrema e di Antonio Di Pietro per l'Ulivo prima e il Pd poi, è un alleato stabile, leale, fermo sui suoi obiettivi ma flessibile e pronto al compromesso su tutto il resto. Per portare a casa i suoi obiettivi è disposta ad accettare quelli degli alleati (per ultima l'apertura sul semipresidenzialismo) e persino a trattare con il Pd più di quanto sia disposto a concedere il Pdl stesso. Alle elezioni regionali è stata brava a portare alle urne tutti i suoi elettori, unica tra tutti i partiti, ma non ne ha strappati al Pdl (semmai ne toglie alla sinistra, e questo dovrebbe sollevare interrogativi di tutt'altro genere), che ha sofferto piuttosto di un certo astensionismo e di una dispersione, in parte fisiologici, e comunque più che corregibili semplicemente ben governando in questa seconda parte di legislatura.

Non voglio credere che a far sbottare Fini sia stata l'ipotesi di un premier leghista in un assetto semipresidenziale che vedrebbe Berlusconi presidente, una provocazione, e in ogni caso un tema da affrontare più in là. Purtroppo, resta il fatto che enfatizzando il "pericolo verde" Fini aderisce alla vulgata, diffusa dai mainstream media e propagandata dalla sinistra politica e intellettuale, di una Lega rozza e pericolosa, e secondo cui gli stessi elettori del Pdl e moderati sarebbero spaventati dal vedere il governo assecondarla, quando semmai è esattamente il contrario, il più delle volte la Lega riesce a interpretare meglio, in modo più schietto, esigenze e interessi anche di molti di loro.

La critica alla Lega, e il tentativo di giocare da contrappeso da parte di Fini, muovono da pregiudizi tipici della sinistra e dei benpensanti sui leghisti, e non da posizioni liberali, dalle quali molto si potrebbe rimproverare alla Lega. Aderendo a questa vulgata, Fini rivela una mentalità romano-centrica e di Palazzo, altro che "nazionale", e fa il gioco della sinistra, dimostrando di essere vittima di un complesso nei suoi confronti: desidera essere accettato dai benpensanti e dai salotti, stimato a sinistra per la sua indipendenza da Berlusconi e dalla Lega, ma in realtà lo è perché (e finché) con le sue azioni la rimette insperabilmente in gioco.

Fini spera che Berlusconi accetti di interpellarlo prima di compiere il minimo passo. Ma scorda che lui è presidente della Camera, e per discutere la linea di governo (e del partito) c'è il Consiglio dei ministri, ci sono i coordinatori del Pdl e gli organi del partito. Potrebbe persino chiamarlo lui quando ne ravveda la necessità, ma non può pretendere che Berlusconi ceda a un continuo stop-and-go su tutto, persino sulle dichiarazioni quotidiane, nessuna diarchia è possibile. Veniamo al punto: Fini ha un'idea di partito tipica della Prima Repubblica. Un partito (come la Dc) in cui alle correnti che non esprimono il presidente del Consiglio è tuttavia consentito per "contentino" di ingabbiarlo, costringerlo ad un gioco estenuante di mediazioni sull'azione di governo, il più delle volte semplicemente "di potere", finendo per logorarlo. Berlusconi è l'ultimo dei leader da cui pretendere una cosa del genere (ci aveva già provato Casini), anacronistica anche per il sistema politico verso cui tutti - compreso Fini - dicono di voler andare.

Se Fini vuole davvero costituire un gruppo autonomo, non prendiamoci in giro, vuol dire che almeno in linea teorica prende in considerazione l'ipotesi di non votare insieme al resto della maggioranza e, in ultima analisi, contempla anche di poter togliere la fiducia al governo. Insomma, di provocare un "ribaltone". Su questo Fini non può davvero pensare di nascondersi. In tutto questo poi c'è un'altra anomalia di questa incerta e confusa Seconda Repubblica: è paradossale infatti che tra gli elementi più destabilizzanti degli ultimi governi vi siano stati i presidenti della Camera dei deputati (Casini, Bertinotti e ora Fini), esondando ampiamente dal loro ruolo istituzionale.

Il guaio di questa situazione, a prescindere dalla consistenza numerica della "scissione" finiana, è che si rischia di gettare alle ortiche il 'momentum' più propizio del centrodestra per provare a cambiare davvero questo Paese. E il ricorso alle urne è un autentico salto nel buio. Il voto anticipato brucerebbe senz'altro Fini, ma potrebbe riservare brutte sorprese anche a Berlusconi. Prima di tutto, perché il premier può solo tentare di provocare lo scioglimento delle Camere, ma non spettando a lui questo potere, può solo dare il via ad una crisi di governo, un minuto dopo la quale entrerebbero in gioco dinamiche (forze e interessi) incontrollabili, i cui esiti vanno dal semplice "ribaltone" a un voto che a ben vedere sarebbe imprevedibile. Non premierebbe certo Fini, ma il malcontento degli elettori di centrodestra potrebbe sfogarsi, se irrazionalmente poco importa, proprio sul Pdl e su Berlusconi.

UPDATE ore 11:41
Scoperto il bluff di Fini, che fa subito un passo indietro, fingendo di vedere, «sul piano del metodo, una prima risposta positiva ai problemi politici» che ha posto ieri nella convocazione della direzione del partito per giovedì, che però era stata già programmata (!). «Mi auguro - dichiara Fini - che a partire dalla riunione, cui parteciperò, possa articolarsi una risposta positiva anche nel merito delle questioni sul tappeto, a cominciare dal rapporto tra il Pdl e la Lega». Fini deve invece essersi allarmato - a ragione - dalla convocazione dell'ufficio di presidenza del Pdl per oggi alle 16 per «comunicazioni urgenti» da parte di Berlusconi.

Thursday, April 15, 2010

Innanzitutto nostri connazionali. Ma Emergency non è neutrale

E' verosimile che si tratti solo di una montatura, così come è verosimile che qualcuno possa essersi fatto prendere la mano dalla sua "simpatia" per la causa di quanti combattono le autorità afghane e gli "occupanti". Nella confusa vicenda dell'arresto dei tre operatori di Emergency in Afghanistan c'è però almeno un punto fermo: si tratta di tre nostri connazionali. Il governo ha dunque dei doveri nei loro confronti. Soprattutto in un Paese che non risplende certo per stato di diritto e trasparenza, deve garantire prima di tutto che siano trattati umanamente e dignitosamente; secondo, che possano difendersi efficacemente dalle accuse loro imputate; terzo, dovrebbe accertarsi oltre ogni ragionevole dubbio, celermente e con fonti proprie (visto che siamo presenti nel Paese non dovrebbe essere troppo difficile), che non si tratti di un complotto.

La storia del ritrovamento di armi e della complicità nel presunto complotto per uccidere il governatore della provincia di Helmand puzza e non è escluso che possa aver pesato in questa vicenda l'oscuro ruolo giocato da Emergency nella liberazione degli ostaggi italiani Mastrogiacomo e Torsello. Sembra verosimile l'accusa secondo cui abbia aiutato i talebani se non a sequestrare i due, quanto meno a ottenere dal loro rilascio lauti riscatti, non collaborando invece con l'intelligence e le autorità militari della coalizione e afghane. Il ministro degli Esteri Frattini ancora una volta non ha certo brillato per tempestività e lucidità. Al minimo sentore che possa trattarsi di una montatura, il governo dovrebbe intimare a Karzai di liberare i nostri connazionali. E' giusto che tutte queste valutazioni vengano fatte nella maggiore riservatezza possibile, ma spero davvero che sia ciò che si sta facendo.

Queste dovrebbero essere le prime preoccupazioni non solo del governo, ma anche di tutti noi, al di là del giudizio di ciascuno sulla guerra, sulla missione in Afghanistan e sul lavoro di Emergency - anche se non fu così nel caso di Quattrocchi e dei suoi sfortunati compagni. Detto questo, non si può tacere un altro aspetto di questa vicenda. Di tutta evidenza Emergency non è un'organizzazione neutrale come pretende di essere considerata. Non ho elementi per non credere a Strada quando dice che nelle loro strutture vengono curati i feriti di tutte le parti in conflitto. Ma il problema non è certo che vengono curati anche i talebani, quanto piuttosto l'atteggiamento innegabilmente ostile di Emergency nei confronti delle forze della coalizione e del governo afghano.

Un atteggiamento che oggettivamente mette in pericolo tutti gli operatori. Non perché giustifichi rappresaglie da parte del governo di Kabul, ma perché può dar luogo a infiltrazioni talebane e a collateralismi che vanno al di là delle intenzioni e delle capacità di controllo di Emergency. La sua posizione ideologica contro la presenza delle truppe straniere e contro il governo instaurato in Afghanistan dopo la guerra del 2002 si presta a strumentalizzazioni di ogni segno. E Gino Strada con la sua arroganza, anche in queste ore, non fa che peggiorare la situazione.

Wednesday, April 14, 2010

La Chiesa non può ignorare la giustizia degli uomini

Avranno imparato la lezione?

Il bubbone pedofilia, che da anni si stava gonfiando, è finalmente scoppiato e la Chiesa corre ai giusti ripari, segno che al di là di smentite e difese d'ufficio, sa bene d'avere torto e di aver sbagliato, e che non si tratta di un oscuro complotto mediatico anti-cattolico organizzato dai massoni, come tenta di far credere ai suoi fedeli. Meglio tardi che mai, si direbbe. Tra incredibili gaffe e errori comunicativi praticamente ogni giorno (il parallelo con la Shoah e l'equiparazione omosessuale-pedofilo), arriva infatti, sull'onda e per effetto degli scandali, e nel panico totale di una gerarchia che sembra non sapere più che pesci pigliare, la nuova direttiva: nei casi di abusi sessuali su minori da parte dei preti "si deve sempre seguire la legge civile per quanto riguarda la denuncia dei crimini alle appropriate autorità".

E' quanto recita la "guida" della Congregazione per la dottrina della Fede pubblicata sul sito della Santa Sede. Nei casi più gravi e accertati, continua il documento, il Papa potrà direttamente ridurre il colpevole allo stato laicale, senza passare per un processo canonico. Per la prima volta si fa riferimento esplicito alla denuncia alle autorità civili, quando fino ad oggi le direttive suggerivano (neanche troppo velatamente) - se non intimavano fino alla scomunica - il silenzio e la discrezione.

Anche nei confronti della Chiesa, come ricorda oggi Ostellino, va applicata «la distinzione kantiana, e liberale, fra peccato e reato». Ma la Chiesa non si è limitata a condannare il peccato e a perdonare il peccatore pentito. Distinguere non significa nascondere, insabbiare.

Con la nuova direttiva - di tutta evidenza non "motu proprio" ma "obtorto collo" - la Chiesa mostra di aver compreso che ciò che ha più scandalizzato, irritato, sconcertato l'opinione pubblica, anche cattolica, non è tanto l'enorme quantità di abusi sessuali di membri del clero sui minori, quanto piuttosto l'anacronistica e criminale pretesa della Chiesa cattolica di considerare la propria giurisdizione al di sopra di quella civile, sostitutiva rispetto ad essa, e quindi di sottrarre i suoi appartenenti alla legge, rivelando così la sua propensione a riprendersi piccoli spazi del suo perduto potere temporale. Mi spiego: se anche fosse stata severissima al suo interno con i preti che si sono macchiati di abusi, non avrebbe dovuto dar luogo a comportamenti reticenti e a coperture che sanno di favoreggiamento. Mi sembra di vederli lo sbigottimento e l'incredulità negli occhi del Papa e dei cardinali: crolla oggi una pretesa superiorità della loro giurisdizione in cui hanno davvero creduto. Non riescono proprio a capacitarsi delle bizzarre pretese della "giustizia degli uomini". Sarà un altro "peccato" di cui scusarsi tra qualche decennio.

All'attuale Papa non si può affatto riconoscere «il merito di aver fatto opera di trasparenza», come sostiene Ostellino, in quanto lui stesso uno dei maggiori responsabili, da capo della Congregazione per la dottrina della Fede per un ventennio, di quel sistema di "copertura" e insabbiamento del fenomeno degli abusi concepito e posto in essere dal Vaticano, qui a Roma. Se oggi si muove nella direzione opposta, distinguendo gli ambiti del diritto canonico da quelli del codice penale, si può legittimamente ritenere che agisca così perché vi è stato costretto dall'incalzare degli eventi e dal montare dello scandalo, e forse alla fine anche per convinzione - almeno speriamo - ma certo fuori tempo massimo.

Rischia giustamente, quindi a mio avviso, di «passare come il Papa che ha coperto la pedofilia dei sacerdoti». Semmai, a parziale attenuante, si può dire che la giusta critica nei confronti della Chiesa cattolica non si riduca alla demonizzazione dell'attuale Papa solo perché "antipatico", quando di tutta evidenza si tratta di un sistema e di una mentalità omertosa che coinvolge le gerarchie ecclesiastiche nel loro complesso, e che vede tra i responsabili anche i Papi precedenti. Insomma, non si può crocifiggere Ratzinger e salvare Wojtyla, solo perché più simpatico, sarei il primo a rifiutare questa logica.

Friday, April 09, 2010

Tremonti che aspettavamo

Alcune frasi tratte dall'intervento del ministro Tremonti, al convegno di Confindustria a Parma, che aspettavamo da molto, molto tempo:
«Per le riforme la crisi non è né un alibi per non farle, né di per sé solo una spinta a farle. Per l'Italia le riforme sono in assoluto una necessità storica. Una necessità che avremmo anche senza crisi. Il tempo è strategico ed è venuto il tempo delle riforme».
«La riforma delle riforme è la riforma fiscale. La nostra riforma fiscale non sarà una riforma platonica. Sarà una riforma ad alta intensità politica. Non sarà facile, ma è necessaria. Nel '94 con Silvio Berlusconi eravamo forse un po' avanti sul nostro tempo. Ora siamo stati raggiunti dal nostro tempo e non possiamo sfuggire all'appuntamento... le direttrici di movimento della riforma erano allora e sono ancora tre: dalle persone alle cose; dal complesso al semplice; dal centro alla periferia».
«Governare facendo debito pubblico è più facile che governare avendo debito pubblico. Ma non è più saggio. La storia insegna che il debito nazionale non fa lo sviluppo, ma divora lo sviluppo. Non fa la fortuna ma la sfortuna degli Stati. E' difficile essere primi sul Pil se si è primi sul debito».
«Non si può più andare avanti con un sistema in cui crescono molto le liti e poco il prodotto interno lordo».
«Alcide De Gasperi diceva: "Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista guarda alle prossime generazioni". Noi abbiamo dimostrato di cavarcela con le elezioni...».

E' l'ora delle scelte, ma niente pastrocchi

Di riforme istituzionali, di modelli da adottare (presidenzialismo americano, semipresidenzialismo francese, premierato inglese o cancellierato tedesco) si è parlato fin troppo, siamo sfiniti. Il dibattito, anche se a singhiozzo, è durato a sufficienza, è l'ora delle scelte definitive e sta alla maggioranza, che come dicevo alcuni giorni fa sta forse attraversando un irripetibile "momentum", scegliere la nuova forma di governo (o se tenersi questa apportando qualche ritocco) e portarla avanti in modo organico e coerente, cercando di convincere l'opposizione. Ma basta con i giri di valzer, che purtroppo invece sembrano già ripresi.

Ha ragione il presidente Napolitano, è l'ora delle «proposte concrete», e per una volta condivido anche l'approccio usato ieri da Fini nel discutere di riforme: il modello francese può essere una soluzione per l'Italia, ma non si tratta solo dei poteri e dell'elezione diretta del presidente della Repubblica. Ha giustamente sottolineato come quello francese sia anche un semi-parlamentarismo e come non si possa prescindere dalla legge elettorale.

Berlusconi e il Pdl dovrebbero definitivamente scrollarsi di dosso il pregiudizio nei confronti dell'uninominale a doppio turno. A mio avviso non è vero che penalizzerebbe il centrodestra. Non è stato vero in passato, ma lo è ancor meno oggi, dopo che abbiamo visto come l'astensionismo può colpire in modo decisivo e inaspettato anche la sinistra. Per quanto riguarda la Lega, ormai è sufficientemente forte e radicata da poter o imporre suoi candidati alla coalizione, o in ogni caso sperare di portarne al ballottaggio un numero consistente. Si potrebbe inoltre studiare una clausola di salvaguardia in modo che non si possa vincere al ballottaggio grazie all'astensionismo, stabilendo per esempio che per vincere al secondo turno bisogna comunque prendere un voto in più di quanti ne aveva presi al primo turno il candidato piazzatosi primo.

Fermo restando che presidenzialismo (senza voto di fiducia delle Camere al governo) e uninominale ad un turno rimane per me il sistema più efficiente e rappresentativo, qualsiasi modello si scegliesse bisogna importarlo in modo organico, non a pezzi, snaturandolo in una versione "all'italiana". Niente pastrocchi.

UPDATE ore 18:57
Fini aveva già spiegato ieri come la pensa sulla necessità di guardare al modello francese non prescindendo dalla legge elettorale a doppio turno - cosa che tra l'altro condivido. Ma considerando che incontrerà Berlusconi la prossima settimana, non vedevo proprio la necessità di convocare un paio d'agenzie e portarsele a spasso per i vicoli di Roma, solo per dettare l'ennesima provocazione nei confronti del premier, come mettergli le dita negli occhi. Il distinguo a tutti i costi ancora una volta prevale sul confronto costruttivo.

Wednesday, April 07, 2010

Il "momentum" di Berlusconi: ora o mai più

Quando si parla di riforme bisogna sempre mettere in preventivo una perdita di tempo, nel senso che dati i precedenti non scommetterei un euro che dopo infinite discussioni e polemiche vengano finalmente realizzate. Premesso questo, al di là delle dispute sulla "regia" e della corsa a sedersi al posto migliore del tavolo, quello più "al sole", mi pare che la maggioranza si vada compattando e che si stia delineando una congiunzione astrale quanto mai propizia. Stando alle parole - e ripeto: senza troppo illuderci - piuttosto che il suo solito istrionico protagonismo, della Lega andrebbe a mio avviso registrata e sottolineata l'adesione convinta, nient'affatto scontata, sia ad una forma di presidenzialismo (da associare al federalismo) che ad una riforma della giustizia in senso liberale, con la separazione delle carriere e l'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale.

Capisco che possa infastidire il Pdl, ma facendo propria una proposta storica della destra (il presidenzalismo) e riconoscendo come necessarie quelle riforme dell'ordinamento giudiziario che stanno da sempre a cuore a Berlusconi, la Lega sta creando i presupposti per una compattezza del centrodestra sulle riforme mai vista prima. Sono consapevole di poter essere smentito dai fatti in poche settimane, se non in pochi giorni, appena per qualche oscuro motivo il volubile vento della politica dovesse cambiare direzione, ma per ora l'ennesima stagione delle riforme sembra partire all'insegna di una straordinaria congiunzione astrale.

Alla "quiete elettorale" dei prossimi tre anni di legislatura si somma, dopo che il presidente della Repubblica Napolitano ha firmato oggi la legge sul legittimo impedimento, un periodo di diciotto mesi di "quiete processuale" per il presidente del Consiglio e i suoi ministri. Il centrodestra dovrà approfittare di questo periodo non solo per "costituzionalizzare" il Lodo Alfano (la sospensione dei processi a carico delle più alte cariche dello Stato per tutta la durata del loro mandato) nel modo indicato dalla Consulta nella sentenza con cui ha bocciato la prima versione dello "scudo". Questo periodo di relativa serenità dovrà servire - non abbassando la guardia sui colpi di coda della crisi economica - a portare a termine il programma di governo e ad avviare e concludere il processo di riforma delle istituzioni, della giustizia e del fisco.

Dal voto di marzo il centrodestra è uscito vincitore e il mandato di Berlusconi rafforzato, mentre il Pd non è ancora riuscito ad imprimere quella «inversione di tendenza» in cui aveva sperato. Tutto ciò rende questa seconda parte di legislatura un momento particolarmente favorevole per avviare una "fase costituente", sperando in una maggiore disponibilità al confronto da parte del principale partito di opposizione. Al di là delle dispute sulla "regia", quindi, come dicevo, sull'agenda delle riforme la maggioranza sembra potersi compattare.

Ciascun leader e ciascuna componente del centrodestra può trovare le motivazioni per remare nella stessa direzione, e cioè verso il buon approdo del processo riformatore. Ciascuno ha in gioco obiettivi strategici, caratterizzanti, il cui raggiungimento potrà rivendicare come un successo di fronte al proprio elettorato al termine della legislatura: Berlusconi la riforma della giustizia e del fisco; la Lega il federalismo e il Senato federale; il presidenzialismo è senz’altro un obiettivo dello stesso Berlusconi e del Pdl, ma in particolare la proposta "storica" in cui possono riconoscersi, e che possono rivendicare come un successo, Fini e gli ex An.

Si apre, dunque, una fase che offre alla maggioranza, ma soprattutto a Berlusconi, un'occasione storica, da non dilapidare, per ammodernare il Paese. E quanto più si profilano condizioni favorevoli, tanto maggiore è la loro responsabilità per il buon esito del processo riformatore. Un motivo in più per esercitare il proprio potere nel modo migliore, guardando alle riforme con prospettiva lungimirante, escludendo miopi personalismi. «Ora o mai più», visto che «con la conquista della conferenza Stato-Regioni governiamo la maggioranza degli italiani e non siamo mai stati così forti», sembra consapevole anche il premier. «Abbiamo il dovere di fare le riforme. E' il mandato degli elettori a darci questa responsabilità». Il che non significa che ora certamente le farà, ma che almeno non ha più alibi per non farle e sarà giudicato su questo.

Tuesday, April 06, 2010

Calciopoli atto secondo, quello che tutti sanno

L'aspetto più sconcertante di quanto sta emergendo dal processo Moggi è come al solito l'uso criminale che è stato fatto delle intercettazioni telefoniche. Come è possibile, infatti, che non siano state trascritte le intercettazioni dello stesso tenore di quelle imputate a Moggi ma che riguardano i rapporti, nello stesso identico periodo, tra il designatore degli arbitri Bergamo e i dirigenti di Inter, tra cui il presidente Moratti in persona, e Milan? Come ebbi modo di osservare quando scoppiò Calciopoli, la giustizia sportiva deve per forza seguire criteri diversi, più severi e meno garantisti, rispetto a quella penale, se vuole preservare la regolarità di una competizione. Non è quindi necessario che si provi che una partita, e un campionato, siano stati "truccati" (anche se certo non ci si può illudere che milioni di sportivi siano degli babbei, tutti vediamo le "stranezze" che accadono sui campi di calcio), ma basta che si configuri un comportamento sleale per portare alla squalifica di una squadra. Ed è questo ciò che è accaduto alla Juventus, riconosciuta colpevole per un comportamento non singolo, ma definito «illecito strutturale», una vera e propria organizzazione volta a influenzare i risultati potenzialmente di tutte le partite. Colpa ammessa e pena patteggiata.

Ma Moggi si è sempre difeso sostenendo che non era solo la Juve a fare parte e ad avvantaggiarsi del cosiddetto "sistema Moggi". Quanto sta emergendo dalle intercettazioni riportate alla luce dai suoi legali sembra dargli ragione. Il "sistema" coinvolgeva almeno - e dico almeno - anche Inter e Milan. Che si tratti anche per loro di un «illecito strutturale» e di una organizzazione non si può dire per ora, ma certo si tratta pur sempre di violazioni dell'articolo 1 (dovere di lealtà) della giustizia sportiva. Il massimo della confidenza accettabile nei rapporti tra un designatore e i dirigenti di una società è che questi si raccomandino per ricevere arbitraggi capaci, com'è comprensibile chiamare per protestare dopo una partita arbitrata male. Questo sì, è umano, ma scegliersi gli arbitri per la partita successiva e frasi del tipo «è una sfida che vedrai la vinciamo insieme», «vediamo di fare dieci risultati utili di fila, eh!» (Bergamo all'Inter), «però gli fai un bel discorsetto, se no gli tagliamo la testa noi» (Meani del Milan a Bergamo), presidenti che vanno a trovare gli arbitri prima della partita, ecco tutto questo crea quel clima di sudditanza psicologica, se non peggio, di cui si è sempre parlato e la cui esistenza da tempo ormai nessuno nega più. Una sudditanza tale da falsare i campionati? Secondo me indubbiamente sì.

Ed è legittimo ritenere che se queste intercettazioni «fossero state trasmesse all'Ufficio Indagini della Federcalcio nel 2006», più lieve sarebbe stata la sanzione nei confronti della Juve e dei suoi dirigenti e l'Inter non solo non avrebbe vinto lo scudetto a tavolino, ma quasi certamente non avrebbe vinto neanche quelli successivi. Insomma, si sarebbe scritta un'altra storia. Che fare ora? Nessuno intellettualmente onesto dovrebbe avere dubbi: revocare tutti gli scudetti almeno dal 2005 al 2007, quando cioè, oltre a quello a tavolino, l'Inter ha vinto con Juve e Milan fuori dai giochi, e non assegnargli ad alcuno. Speriamo di non dover vedere Moggi passare alla storia del calcio come un Craxi.