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Monday, November 29, 2010

La sbronza globale per Wikiflop

... e il solito assist alle dittature

I Paesi arabi che fremono per un attacco militare contro l'Iran per fermare il programma nucleare; il governo cinese dietro gli attacchi cibernetici; la corruzione in Afghanistan e l'ansia per il controllo delle testate nucleari pakistane; la Russia «virtualmente uno Stato della mafia» o «un'oligarchia nelle mani dei servizi di sicurezza»; le offerte in denaro per convincere alcuni Paesi ad ospitare i detenuti di Guantanamo; la rinuncia allo scudo antimissile servita a ottenere la collaborazione russa nel dossier iraniano; i missili passati dalla Corea del Nord all'Iran; le armi dalla Siria ad Hezbollah e i sauditi che finanziano al Qaeda. Questi i non-segreti, anzi le cose arcinote che emergono dai cables trafugati da Wikileaks e passati alle principali testate planetarie (snobbati Corriere e Repubblica!).

Anche sui leader una serie di non-notizie e di sentito dire. E allora ecco le bizzarrie di Gheddafi, ecco che Ahmadinejad, Chavez e Mugabe sono definiti «pazzi», la salute di Khamenei è compromessa, Assad e Netanyahu non mantengono le promesse, Erdogan è influenzato da collaboratori e media islamisti, Sarkozy è permaloso e Berlusconi festaiolo. Fonti di terz'ordine, diplomatici e funzionari la cui principale attività notoriamente è di leggere i giornali (e in Italia c'è di che leggere su Berlusconi, non c'è dubbio), giudizi poco qualificati, parziali, incompleti, non definitivi, che non rappresentano le valutazioni, e ancor meno le linee politiche di Washington, ma che vengono elevati di rango, presentati come chissà quali "segreti", con il rischio concreto di gettare nel caos i rapporti tra alleati e non.

Nulla che già non sapessimo, o non avessimo comunque intuito usando la logica, ma i media tutti a fare il gioco di quel furbetto di Assange. Ma se nei contenuti il danno è piuttosto limitato, e l'evento di Wikileaks da questo punto di vista somiglia a un flop, seria è invece la turbativa politico-diplomatica, che potrebbe vanificare gli sforzi per la stabilità in varie aree del mondo, e quindi minacciare la sicurezza; è di per sé dannosa e destabilizzante la sensazione di vulnerabilità degli Stati Uniti rispetto ai loro interlocutori e avversari autocratici; ma soprattutto è grave culturalmente il malinteso su cui si basa l'intera operazione Wikileaks, ovvero uno splendido esempio di come manipolare i principi della democrazia contro di essa, che culmina con l'accusa lanciata oggi da Assange all'amministrazione Obama di essere un «regime che non crede nella libertà di stampa».

Questa non è libertà di stampa, è puro e semplice spionaggio, da cui occorre difendersi, perché mette a repentaglio la nostra sicurezza. Un conto è denunciare una malefatta governativa come lo scandalo Watergate, altra cosa è violare la necessaria riservatezza in cui opera normalmente (e a cui ha diritto, come un individuo) qualsiasi istituzione - la diplomazia, ma anche un'azienda o una procura durante un'indagine - con il rischio (o l'intenzione?) di sabotarne l'azione. Nessuna istituzione - che sia uno Stato o una normalissima famiglia - può sopravvivere alla trasparenza totale (o, piuttosto, al suo mito) senza che il sospetto e le incomprensioni ne compromettano irremediabilmente il corretto funzionamento.

Se l'11 settembre ha dimostrato che nel mondo di oggi non solo gli Stati, ma anche organizzazioni non statuali hanno capacità distruttive di massa, così Wikileaks dimostra che lo spionaggio non è più prerogativa esclusiva degli Stati. Invece di celebrare la libertà di stampa, bisognerebbe chiedersi a chi giova questa immensa operazione di spionaggio, come mai coinvolge solo gli Stati Uniti, mentre non si pretende la medesima "apertura" da regimi come Cina, Russia e Iran, solo per citarne alcuni.

Senza girarci troppo intorno, non credo che Assange sia al soldo di qualche potente dittatura, ma certo il suo è un regalo enorme alle dittature, rivela un'idea distorta - complottistica e infantile al tempo stesso - del potere, che purtroppo sembra avere sempre più presa sui media e sull'opinione pubblica, e in nome della quale rischiamo di disarmare le nostre democrazie; nonché la solita preoccupante visione che vuole gli Stati Uniti, e le democrazie occidentali, sempre su una sorta di banco degli imputati planetario. Spinti dall'irresistibile fascino dell'ignoto che circonda il 'Potere', viene naturale andare a cercare nei meandri degli Stati - solo di quelli democratici ovviamente, approfittando delle libertà che solo le democrazie garantiscono, persino contro loro stesse - la prova delle magagne, salvo poi mostrare al mondo la banalità di un potere nient'affatto inaccessibile, e nient'affatto intento ad intessere chissà quali inconfessabili piani. Insomma, è tutto qui? Dov'è questa diabolica America?

Per quanto riguarda l'Italia, dai file di Wikileaks emergono la trasparenza dell'Eni sui suoi affari in Iran e i rapporti tra il nostro Paese e la Russia, e tra Berlusconi e Putin, che non sono certo un mistero. A prescindere dal giudizio di merito, da sempre, a dispetto di analisi e retroscena che si leggono sui giornali, ritengo che non rappresentino un serio motivo di tensione tra Roma e Washington. Ovvio che gli americani siano sensibili su questo punto e cerchino di "informarsi" su cosa combinano Berlusconi e Putin, o Berlusconi e Gheddafi, ma non è un tema che mette a rischio le buone relazioni tra i due Paesi (tutt'al più Berlusconi potrebbe essere chiamato a riferire alle commissioni affari esteri, non certo al Copasir).

Gli interessi italiani sono alla luce del sole e piuttosto, come ricorda oggi Edward Luttvak al Corriere della Sera, sono stati ben altri, e ben più gravi in passato i motivi di disaccordo e sospetto degli Usa nei nostri confronti: «In Medio Oriente e in Libia con Andreotti, con Craxi in Somalia e nella vicenda dell'Achille Lauro, con il rilascio clandestino del terrorista Abu Abbas. E poi, ancora, con Dini...», o in piena Guerra Fredda con gli investimenti della Fiat in Urss. «Berlusconi parla chiaro: l'alleanza con gli Stati Uniti è strategica per lui; Libia e Russia solo tattica, in difesa degli interessi nazionali, primo tra tutti l'approvvigionamento di gas con l'Eni». Gli alleati «non sono schiavi», osserva Luttvak, capita che per certi interessi nazionali si abbiano pareri diversi. «Gli Stati Uniti - ribadisce a Cnr Media - hanno i loro interessi, l'Italia i suoi, è normale. Possiamo non esserne contenti, e infatti non lo siamo, ma non ci sentiamo traditi. Perché sono cose che l'Italia fa apertamente. Una volta, invece, c'erano tanti sorrisi e poi di nascosto gli italiani facevano i furbi. Andreotti faceva il furbo con gli arabi, Craxi tradiva. Oggi questo non succede».

E comunque sono stati gli Usa e il Regno Unito a sdoganare Gheddafi; è stato proprio Obama a voler inaugurare con la Russia una nuova fase dopo le tensioni durante il secondo mandato di Bush; e comunque nella crisi più acuta dell'ultimo decennio, quella irachena, Berlusconi è stato al fianco dell'America quando sarebbe stato più comodo e politicamente corretto accodarsi al fronte anti-guerra Francia-Germania-Russia; e comunque in Afghanistan siamo tra i pochi alleati ad accrescere il nostro sforzo; e comunque in South Stream entreranno anche i francesi, in North Stream ci sono già tedeschi e francesi, mentre il progetto concorrente, il Nabucco, sponsorizzato da Usa e Ue è di più complessa realizzazione.

Wednesday, April 28, 2010

Flop di Floris (e di Luca Sofri)

C'era grande attesa per la partecipazione (preregistrata) di Fini ieri sera a Ballarò ma si può dire che abbia deluso le aspettative di molti. Evidentemente Floris non era stato molto attento alle ultime mosse del presidente della Camera, perché i suoi insistenti tentativi di metterlo frontalmente contro Berlusconi sono tutti andati a vuoto. A mio avviso per ragioni puramente tattiche, Fini è in una fase di ripiegamento, per ora si accontenta che passi il messaggio "un dissenso nel Pdl c'è ed è ammesso", anche rischiando - come ieri sera - di non far capire al pubblico i veri motivi che solo pochi giorni fa lo avevano portato vicino alla rottura e di avallare uno spettacolo squallido come le finte dimissioni di Bocchino.

Una mossa da correntismo in pieno stile Prima Repubblica: le dimissioni infatti sono "condizionate" a quelle del capogruppo Cicchitto, in pratica sono una richiesta di dimissioni di Cicchitto, in modo da portare il gruppo del Pdl a rivotare per il presidente e il suo vice, «per consentire alla minoranza di esercitare il suo ruolo, di verificare le sue forze e conseguentemente di rivendicare gli spazi corrispondenti al suo peso». In breve, una "conta" per poter reclamare "posti" in una quota 'finiana'.

Ma torniamo al Ballarò di ieri sera per annotare qualcosa a futura memoria.
Fini si è mostrato rassicurante e ragionevole, in fondo chiedendo solo che si discuta delle questioni che ritiene importanti e che in effetti lo sono. Niente, agli occhi dei telespettatori, che giustifichi le minacce di scissione dei giorni scorsi. Anche ieri sera sono rimaste nel cassetto le sue idee "avanzate" su bioetica, immigrazione e cittadinanza. Ha sollevato la questione dei costi del federalismo fiscale, l'esigenza di discutere dei decreti attuativi guardando alla coesione sociale e all'unità del Paese, e che le riforme della giustizia vadano nell'interesse della legalità. Quando Floris ha cercato di condurlo su qualche cosa di concreto, cose molto care al Cav. (come interessi di Mediaset e giustizia), sui cui magari potrebbe decidere di distinguersi in Parlamento, non c'è stato verso. Sul conflitto di interessi, ha detto che è stato risolto da una legge fatta dal centrodestra. E in studio la 'finiana' Flavia Perina, direttrice del Secolo d'Italia, ha argomentato più efficacemente di Bondi a favore del ddl intercettazioni: una questione di stato di diritto, ancor prima che di privacy.

E' sul federalismo che la Perina ha invece mostrato un'inquietante riserva mentale, un pregiudizio centralista. Perché mai un ente locale - regione, provincia o comune - non dovrebbe essere in grado di conservare e valorizzare un bene demaniale, culturale o artistico, sul suo territorio? Perché i provveditori nominati dal governo di Roma dovrebbero essere più saggi e responsabili delle autorità locali? E' ovvio che i grandi patrimoni museali e artistici rimarranno allo Stato centrale, ma in Italia opere d'arte sono disseminate su tutto il territorio e sono spesso trascurate. Chi avrebbe maggior interesse di un comune, una provincia o una regione a valorizzare quel sito archeologico o quel palazzo storico semi-sconosciuto? E i cittadini saprebbero con chi prendersela per la cattiva gestione di quel bene.

Non so se le riserve, a mio modo di vedere sostanziali, espresse ieri sera dalla Perina appartengano anche a Fini e ai 'finiani', ma certo se sono contro il federalismo non dovrebbero girarci intorno, dovrebbero dirlo chiaramente, anche se arrivano fuori tempo massimo.

Ultime osservazioni. Ieri sera Floris ha dato un po' di visibilità a Luca Sofri, a pochi giorni dall'avvio del suo "Il Post". Un paio di stronzate e antipaticissimo: gli altri sono demagogici e superficiali, ma al dunque anche lui non è andato oltre qualche battutina stupida. Ad un certo punto ha provato a sostenere che Bossi figlio era stato "raccomandato" dal padre non so dove. Sarà anche vero, ma proprio lui, Luca Sofri, che non ci venga a dire che non deve alla celebrità e alle relazioni politico-intellettuali del padre le attenzioni di cui è circondato. E nei suoi confronti - diciamolo - Cota è stato un signore: gli ha fatto capire dove si sarebbe andato a infilare se avesse insistito. Senza affondare. Lui ha capito e se ne è stato zitto per un po'. Superfluo.

Grandioso invece Edward Luttwak. Sulle intercettazioni telefoniche ha ricordato che in America, se vengono pubblicati atti coperti da segreto, si indaga sul colpevole della fuga di notizie e c'è la prigione (anche per i procuratori, mentre da noi non gli si può neanche togliere il caso); sull'oppressione fiscale che c'è in Italia ha incalzato sugli stipendi di giudici e politici, enormemente superiori a quelli Usa. Di Pietro e Sofri hanno rosicato non poco.

Wednesday, June 24, 2009

La Repubblica islamica non sarà mai più la stessa/2

E' bene intendersi sulle aspettative che è realistico nutrire riguardo la crisi in corso in Iran, soprattutto alla luce delle ultime tragiche notizie che ci giungono da Teheran. Se è l'immagine romantica della piazza che in una notte rovescia la dittatura degli ayatollah che aspettiamo, prima di chiamarla rivoluzione democratica, o prima di riconoscere qualche possibilità di un cambiamento effettivo, rimarremo sempre delusi. Il regime ha la forza per reprimere i manifestanti e lo sta facendo. Il movimento popolare deve spingere, accompagnare, ma si deve aprire una breccia dall'interno, nell'elite. Una breccia simile a quella aperta da Gorbacev, che con le sue riforme voleva conservare il regime comunista e di certo non far crollarel'Urss, ma proprio quello è stato l'inevitabile esito della sua glasnost. Solo in questo modo un regime spietato come quello degli ayatollah può cadere, e non dall'oggi al domani.

Bisogna ammettere che in una sola settimana Mousavi (personaggio dal curriculum nient'affatto democratico) ha fatto molto di più di Khatami in quattro anni. Ha sfidato in modo inaudito e impensabile l'autorità della Guida Suprema e del Consiglio dei Guardiani. Ha offerto per dieci giorni uno sbocco politico alla frustrazione e alle istanze di libertà popolari. E questo rimarrà nella memoria degli iraniani. La mia impressione è che sì, magari Mousavi e Rafsanjani usciranno battuti oggi, e saranno costretti ad abbassare il livello dello scontro, ma che la fronda interna continuerà. Bisognerà vedere se il regime avrà la forza di compiere una repressione, e un'epurazione al suo interno, pari a quelle di cui fu capace il Partito comunista cinese dopo Tienanmen, ma ho i miei dubbi.

Dopo Taheri e Gerecht nei giorni scorsi, oggi altri due autorevoli analisti che difficilmente rientrano nella categoria degli illusi, vedono una spaccatura reale e non facilmente ricomponibile nell'elite che ha gestito il potere in Iran fino ad oggi in modo compatto. Anche secondo Edward Luttwak, comunque si concluderà questa crisi, «il regime iraniano non sarà mai più lo stesso».

«A questo punto, solo il futuro di breve termine del regime è in dubbio. Le attuali proteste potrebbero essere represse, ma le istituzioni non elette del regime clericale sono state fatalmente minate». In ogni caso, «non è un regime che può durare per molti anni ancora», secondo Luttwak. Le forze di sicurezza possono controllare e reprimere la piazza, ma «ciò che ha minato la struttura stessa della Repubblica islamica è la frattura nella sua elite dirigente. Le stesse persone che crearono le istituzioni del regime clericale stanno distruggendo la loro autorità». Anche per Luttwak è molto significativo che per la prima volta importanti esponenti del regime abbiano sfidato apertamente l'autorità di Khamenei e del Consiglio dei Guardiani, le due istituzioni su cui si regge tutta l'impalcatura di potere khomeinista e senza le quali l'Iran «sarebbe una normale democrazia».

«E' evidente che dopo anni di umiliante repressione sociale e cattiva gestione dell'economia, i settori più istruiti e produttivi della popolazione hanno voltato le spalle al regime». Ciò che però ancora manca a questo movimento è un leader carismatico. Se il suo «coraggio» nel resistere alle pressioni «ha certamente accresciuto la sua popolarità, tuttavia Mousavi è ancora niente di più che il simbolo involontario di una rivoluzione politica emergente». Nonostante questo, dice Luttwak, «se Mousavi avesse vinto», anche modeste aperture avrebbero «innescato richieste di un maggiore cambiamento, alla fine facendo cadere l'intero sistema del regime clericale». Quindi, per Luttwak, anche se uomo interno all'establishment, Mousavi avrebbe potuto svolgere (e potrebbe in un futuro prossimo svolgere) un ruolo simile a quello svolto, suo malgrado, da Gorbacev, le cui riforme «molto caute, pensate per perpetuare il regime comunista, finirono per distruggerlo in meno di cinque anni». In Iran, osserva Luttwak, «il sistema è molto più giovane e il processo sarebbe stato probabilmente più rapido».

Per il momento, come dimostrano anche gli ultimi sviluppi, Khamenei sembra avere saldamente in mano il potere, ma è anche «nella posizione insostenibile a lungo di dover sostenere un presidente la cui autorità non è accettata da molte delle istituzioni di governo. Quindi, anche se rimane in carica, Ahmadinejad non può funzionare come presidente». Per esempio, Luttwak ipotizza ostruzionismo parlamentare da parte degli oppositori: non è detto, per prima cosa, che il Parlamento ratifichi le sue nomine ministeriali. Insomma, «anche se Khamenei non viene rimosso dal Consiglio degli Esperti e Ahmadinejad non viene rimosso da Khamenei, il governo continuerà ad essere paralizzato», sempre che la frattura all'interno dell'elite persista. «La buona notizia - conclude Luttwak - è che sotto il meccanismo di erosione del regime clericale, le istituzioni essenzialmente democratiche in Iran sono vive e vegete e necessitano solo di nuove elezioni».

Un altro che non fa certo parte dei sognatori democratici è Robert Kaplan, che sul Washington Post addirittura si spinge oltre l'Iran: «Le manifestazioni a Teheran e in altre città hanno la capacità di preludere a una nuova era politica in Medio Oriente e in Asia centrale». Kaplan ricorda la storica capacità dell'Iran (e della Persia) di influenzare tutta la regione, che risale nei secoli a molto prima della rivoluzione khomeinista; inoltre, per molti aspetti la società iraniana è più evoluta di quelle dei suoi vicini arabi:
«Il movimento democratico in Iran è sorprendentemente occidentale nella sua organizzazione e nel sofisticato uso della tecnologia. In termini di sviluppo, l'Iran è più vicino alla Turchia che non alla Siria o all'Iraq. Mentre questi ultimi vivono nella possibilità dell'implosione, l'Iran ha una coerenza interna che gli permette di esercitare una forte pressione sui suoi vicini. Nel futuro, un Iran democratico potrebbe esercitare su Baghdad un'influenza tanto positiva quanto è stata negativa quella delle squadracce assassine dell'Iran teocratico».
Dunque, osserva Kaplan, «l'Iran è così centrale per le sorti del Medio Oriente che anche un cambiamento parziale nel comportamento del regime - e un maggior grado di sfumature nel suo approccio nei confronti dell'Iraq, del Libano, di Israele e degli Stati Uniti - potrebbe avere un effetto drammatico sulla regione. Proprio come un leader radicale iraniano può fomentare le Arab streets, un riformatore può stimolare l'emergente, ma stranamente opaca, borghesia araba». Per questo Kaplan non è d'accordo con Obama quando dice che tra Mousavi e Ahmadinejad in fondo non c'è tutta questa gran differenza. Questa «rappresentazione» di Mousavi come di «un radicale, sebbene all'apparenza più gentile e affabile di Ahmadinejad, non coglie il punto». Anche Kaplan ricorre al paragone con la ex Unione sovietica. Come nell'Urss, anche in Iran infatti «il cambiamento può arrivare solo dall'interno; solo da un insider, sia un Mousavi o un Gorbacev».

Friday, January 09, 2009

Il mito della vittoria impossibile

C'è un falso mito che negli ultimi anni è stato diffuso da editorialisti e commentatori: che Israele usando la forza non possa conseguire una completa vittoria militare e politica contro gruppi terroristici come Hezbollah e Hamas.

Ma questa volta, a Gaza, riconosce il realista Robert Kaplan, l'attacco israeliano sembra meglio pianificato rispetto a quello di due anni fa contro Hezbollah in Libano, che è sembrato confermare il mito della vittoria impossibile.

Certo, Israele ha un problema fondamentale con quell'«animale postmoderno» che è l'Impero iraniano, di cui Gaza è «l'avamposto occidentale». Innanzitutto, Hamas non ha bisogno di vincere la guerra. Può perderla eppure in un certo senso vincerla. Finché nessun altro gruppo lo sostituirà al potere nella Striscia di Gaza, e qualche suo fanatico potrà continuare a lanciare missili su Israele, potrà rivendicare «una sorta di vittoria morale». Inoltre, se al Fatah provasse a prendere il suo posto a Gaza, verrebbe per sempre etichettato come «servo» di Israele. Il «dilemma» di Israele, osserva Kaplan, è che «non sta combattendo contro uno stato, ma contro un'ideologia, il collante postmoderno che tiene unita la grande sfera d'influenza iraniana». Che siano le entità parastatali di Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, o del Mahdi in Iraq; o «le speranze, i sogni, le illusioni» di milioni di arabi sunniti che, soprattutto in Egitto, si sentono più vicini ai mullah radicali sciiti che alla loro autocrazia sunnita, l'Iran ha costruito il suo "impero" combinando sapientemente ideologia antioccidentale e antisemita con operazioni dei servizi segreti.

Dunque, «si possono combattere eserciti non convenzionali, parastatali, animati dall'ideologia?» si chiede Kaplan. Sì. «Erodendoli sottilmente nel tempo, oppure schiacciandoli completamente, brutalmente. Israele, non potendo tollerare il continuo lancio di razzi sulla sua gente, ha deciso per la seconda via», scrive Kaplan, che quindi ammette che un successo di Israele è possibile - oltre che desiderabile per aumentare le chance diplomatiche occidentali con l'Iran - e che il principale ostacolo a una vittoria di Israele è l'ennesima tregua che permetta ad Hamas di riorganizzarsi, compromettendo i risultati conseguiti sul campo.

Anche un altro realista di ferro, molto noto in Italia per le sue apparizioni televisive, Edward Luttwack, sul Wall Street Journal, ha smentito il mito della vittoria impossibile di Israele. Gruppi come Hamas e Hezbollah rivendicano la vittoria a prescindere dalle perdite umane e materiali che subiscono. Ma se con tutto ciò che sta accadendo a Gaza, Hezbollah rimane immobile e il confine con il Libano tranquillo, vuol dire che nel 2006, al di là della propaganda islamista, l'operazione di Israele ha avuto successo. Oggi Hezbollah ha paura di correre in soccorso di Hamas. Quindi, pur con tutti gli errori commessi in Libano, se Israele si limitasse anche solo a ripetersi contro Hamas a Gaza, sarebbe già una vittoria significativa.

Secondo il neoconservatore Bill Kristol, il luogo comune secondo cui Israele non può vincere contro Hamas come non poteva vincere due anni fa in Libano contro Hezbollah, si dimostrerà sbagliato. Gaza è una striscia di terra stretta e piatta, confinante con Israele a est e a nord, il mare a ovest e l'Egitto a sud. Hamas non ha amici intorno. Tagliando in due la striscia Israele ha praticamente circondato la parte nord, creando una situazione completamente diversa dal punto di vista militare rispetto a quella in Libano nel 2006. Inoltre, la leadership israeliana sembra aver imparato dagli errori - politici, strategici, militari - commessi due anni fa. L'operazione a Gaza sembra essere stata ben pianificata ed eseguita.

In una lunga analisi sul Weekly Standard, anche gli esperti Thomas Donnelly e Danielle Pletka, dell'American Enterprise Institute, avvertono che «Gaza non è il Libano» e spiegano «perché la campagna di Israele contro Hamas può avere successo». L'opinione diffusa che «i leader israeliani con l'offensiva di terra a Gaza corrono il rischio di ripetere la disastrosa esperienza della guerra in Libano nel 2006» non tiene conto del fatto che «Gaza non è il Libano, Hamas non è Hezbollah e, soprattutto, che Israele oggi non è lo stesso Israele del 2006».