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Tuesday, June 23, 2009

La Repubblica islamica non sarà mai più la stessa

Le analisi di Amir Taheri e Reuel Marc Gerecht convergono nell'individuare negli ultimi sviluppi della crisi in Iran un salto di qualità tale da poter parlare di una vera «rivoluzione» in corso. Comunque andrà a finire, e qualsiasi siano le reali intenzioni di Mousavi e del cartello che lo sostiene, l'autorità della Guida Suprema, che è a fondamento dell'intero sistema khomeinista, è entrata in crisi, forse irreversibilmente. Gli iraniani, ma per la prima volta anche pezzi importanti dell'establishment come lo stesso Mousavi, sfidando la parola e gli ordini di Khamenei, hanno messo in dubbio la validità del principio del velayat-e faqih, su cui si fonda la Repubblica islamica. Hanno messo in dubbio, in definitiva, la natura divina della legittimazione del potere della Guida Suprema.

«Poco prima di mezzogiorno di venerdì 19 - scrive Amir Taheri - la Repubblica islamica è morta» e l'Iran si è «trasformato da una Repubblica islamica a un emirato islamico guidato da Khamenei». La sua decisione di «uccidere» la Repubblica islamica «può condurre l'Iran in acque inesplorate». L'establishment è «diviso come mai prima. Tutte le figure autorevoli dell'"opposizione leale", compresi gli ex presidenti Rafsanjani e Khatami, hanno boicottato il sermone di venerdì. Quasi metà dei membri del Parlamento, insieme alla maggior parte del Consiglio degli Esperti, erano assenti». Se Khamenei sperava di «intimidire» i manifestanti, ha dovuto presto ricredersi. «Ha cercato di dividere l'opposizione offrendo rassicurazioni a Rafsanjani», ma non c'è riuscito: Rafsanjani «ancora rifiuta di appoggiare la rielezione di Ahmadinejad». E Mousavi, nonostante l'aut-aut della Guida Suprema, e «virtualmente agli arresti domiciliari», continua a sostenere le proteste.

Khamenei ha ridotto a carta straccia l'autorità di cui è investito, posta dalla rivoluzione islamica al vertice del sistema. «Oggi ci sono due Iran», conclude Taheri:
«Uno pronto a sostenere il tentativo di Khamenei di trasformare la Repubblica in un emirato al servizio della causa islamica. Poi c'è un secondo Iran, desideroso di cessare di essere una causa e che aspira ad essere una nazione normale. Questo Iran non ha ancora trovato i suoi leader definitivi. Per ora, è pronto a scommettere su Mousavi. La lotta per il futuro dell'Iran è solo all'inizio».
Per Reuel Marc Gerecht «una cosa è chiara: siamo testimoni non solo di un'appassionante lotta di potere tra uomini che si sono frequentati intimimamente per 30 anni, ma anche del disfarsi della concezione religiosa che ha dato forma alla crescita del moderno fondamentalismo islamico... la volontà di Dio e la volontà popolare non sono più compatibili». Inoltre, aggiunge, «siamo testimoni» del «collasso delle fondamenta strutturali dell'intero approccio islamico» alla gestione del potere negli stati moderni.
«Dopo 9 anni da quando fu stroncato, il movimento riformista che sosteneva Khatami è diventato solo più forte. Ha portato tra le sue file Mousavi, una volta discepolo prediletto dell'ayatollah Khomeini, che oggi di tutta evidenza non ha alcun riguardo per Ahmadinejad, né per la Guida Suprema. Ciò che può sembrare più sorprendente è che così tanti preminenti rivoluzionari della prima ora si siano schierati con Mousavi. Ci sono molte ragioni, ma tra le principali c'è la crescente consapevolezza che la Repubblica islamica e la rivoluzione sono spacciate a meno che l'Iran non diventi più democratico. Può essere una speranza ingenua (come sembrava ai suoi inizi la glasnost), ma è una potente motivazione per coloro che hanno dato l'anima per rovesciare lo shah».
«Non è chiaro - ammette Gerecht - ciò che Mousavi pensa della democrazia, ma ci sono buone probabilità che voglia affidare al popolo più potere di quanto avesse intenzione Khatami, che malgrado alcune differenze non potrebbe né rompere davvero con i suoi confratelli del clero, né liberarsi della vecchia convinzione islamica secondo cui il fedele ha bisogno della supervisione da parte del clero. E anche se Mousavi non è il tipo ideale di riformatore, è circondato dai migliori e più brillanti iraniani... e anche presso il clero, le migliori menti, come il grande ayatollah Montazeri, hanno preso le distanze da Khamenei». Secondo Gerecht infatti, l'esperienza diretta della teocrazia ha convinto «brillanti chierici» della necessità della «separazione tra chiesa e stato come strumento per salvare la fede dal potere corruttore della politica».

«Che lo volesse o meno, Mousavi ha probabilmente dato inizio al conto alla rovescia finale» per la Repubblica islamica e ciò pone al presidente americano Obama una serie di «complicati problemi», di cui «dovrebbe prendere nota»: «All'interno dell'Iran, la questione nucleare non è ciò per cui la gente sta lottando. Sta lottando per la libertà. Anche se l'ayatollah Khamenei dovesse vincere questo round, il presidente dovrebbe mettersi dalla parte giusta della storia. Non ha nulla da perdere: la Guida Suprema non concederà mai nulla sul nucleare. E più il regime clericale diventerà impresentabile al suo interno, più diventerà impresentabile all'estero. Mousavi è la sola speranza di Obama», conclude Gerecht.

Sul Weekly Standard, lo stesso Gerecht approfondisce il tema: «Ci si è sempre chiesti se l'istituto del velayat-e faqih sarebbe sopravvissuto a Khamenei. Egli stesso ora ha dato abbastanza garanzie che non sopravviverà». «Non importa cosa accade - è convinto Gerecht - la Repubblica islamica come l'abbiamo conosciuta probabilmente è finita». Tutti i regimi, spiega, «hanno bisogno di una qualche legittimazione per sopravvivere, e la Repubblica islamica si reggeva su due pilastri»: la convinzione che gli iraniani continuassero a sostenere la rivoluzione islamica e le basi essenziali del suo sistema politico; l'adozione del clero come strumento di legittimazione della Repubblica. «Se nelle prossime settimane - prevede Gerecht - Khamenei commette l'errore di dare luce verde al massacro dei giovani iraniani nelle strade, probabilmente perderà il sostegno del clero, tutto tranne il più retrogrado, che però non è rappresentativo dell'establishment. Un golpe da parte delle Guardie della Rivoluzione verrebbe visto come un assoluto disastro dalla maggior parte dei mullah, che hanno gelosamente custodito la loro posizione preminente nella società».

E allora, «il più importante esperimento di ideologia islamista dalla nascita della Fratellanza musulmana si rivelerà - agli occhi del suo stesso popolo, dei guardiani della fede, e del mondo intero - un fallimento». A meno che Mousavi non si ritiri e non riporti la calma tra i suoi sostenitori, la rivoluzione islamica, «che fu uno shock per il mondo musulmano 30 anni fa, diventerà o un vero laboratorio di democrazia, o una brutale e violenta dittatura paragonabile per la sua ferocia ai regimi baathisti in Iraq e in Siria». In entrambi i casi non sarà mai più la stessa e, soprattutto, perderà la sua legittimazione religiosa.

Ma perché ci sia «qualche possibilità» che l'Iran «desista» dal nucleare, avverte Gerecht, «Mousavi deve vincere questa battaglia. Se Ahmadinejad e Khamenei trionfano, non cederanno. Per loro, e per le Guardie rivoluzionarie dietro di loro, le armi nucleari sono il mezzo per diventare attori globali e la migliore garanzia di restare al potere», non potendo più sperare di restarci con il consenso del loro popolo. «Anche se Mousavi non è nostro amico - e si rivelasse essere in molti casi nostro nemico - dovremmo tutti augurarci che vinca» e Obama «farebbe bene ad essere più determinato nel difendere la democrazia per un popolo che si è guadagnato il suo rispetto. Gli iraniani - è convinto Gerecht - perdoneranno al presidente l'intromissione».

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