Affermando che «la differenza tra le politiche concrete di Ahmadinejad e di Mousavi non è tanto grande come appare», e che «in entrambi i casi siamo di fronte a un regime ostile agli Stati Uniti», il presidente Obama ha finalmente chiarito la linea dell'amministrazione sulla crisi post-elettorale in corso a Teheran. Una linea di esplicita non intromissione, che si premura di far sapere a Teheran che l'offerta del dialogo rimane valida con qualsiasi presidente e con qualsiasi regime, a prescindere dal modo in cui, non importa quanto sarà violento, Ahmadinejad e Khamenei riusciranno a far rientrare la protesta di massa.
E' una linea che fa scrivere a Robert Kagan, nella sua column sul Washington Post, che Obama è «schierato con il regime». Il presidente Usa, infatti, «non ha mai avuto alcuna intenzione di suscitare disordini politici in Iran, tanto meno di incoraggiare il popolo iraniano a scendere in strada». Ciò che sta accadendo «non è una buona notizia» per lui, ma una «sgradita complicazione» sulla strada del dialogo con l'Iran sul nucleare, che si basa necessariamente sul «riconoscimento deliberato della legittimità del regime», legittimità che ora però, per uno strano scherzo del destino, viene meno per cause interne al regime stesso: i brogli elettorali e le manifestazioni oceaniche ("rivoluzionarie", mai così dal 1979) contro la leadership con cui Obama domani dovrebbe avviare il dialogo.
Nel suo messaggio per il nuovo anno persiano, ricorda Kagan, Obama si era rivolto esplicitamente alla leadership iraniana – al contrario di Bush, che si rivolgeva al popolo iraniano – proprio allo scopo di dimostrare la sua accettazione della Repubblica islamica e del governo iraniano, presupposto per qualsiasi dialogo e "grande accordo". Difficilmente infatti il regime iraniano negozierà su temi che toccano la sicurezza nazionale, come il programma nucleare, senza esplicite garanzie da parte di Washington che non sostiene e non sosterrà in futuro l'opposizione, né cercherà in alcun modo di rovesciare il regime. «Obama doveva fare una scelta. E l'ha fatta. Sarebbe sorprendente se proprio ora avesse deviato da questa strategia realista, e infatti non l'ha fatto», osserva Kagan. Molti hanno equivocato la sua cautela, che non è stata dettata dal timore che un appoggio esplicito dell'America potesse danneggiare l'opposizione. «La sua strategia nei confronti dell'Iran lo pone obiettivamente dalla parte degli sforzi del governo per il ritorno alla normalità prima possibile, e non in combutta con l'opposizione per prolungare la crisi».
Non che Obama preferisca Ahmedinejad. Ed è vero che Mousavi non avrebbe seguito un approccio molto diverso sul nucleare. Il fatto è che una volta che Mousavi ha perso, brogli o meno, lui e i suoi non sono utili alla strategia della Casa Bianca. «Se Obama sembrasse prestare aiuto all'opposizione in qualsiasi modo, apparirebbe ostile al regime, il che è precisamente ciò che ha voluto evitare. La politica di Obama richiede adesso il rapido superamento delle controversie elettorali in modo da poter iniziare presto i negoziati con il governo rieletto di Ahmadinejad». E tutto questo, osserva Kagan, «sarà difficile fino a quando continueranno le proteste e il governo apparirà incerto o troppo brutale» per farci accordi. Ciò di cui Obama ha bisogno è quindi una rapida normalizzazione, «sgonfiare l'opposizione, non incoraggiarla. Ed è ciò che nel complesso sta facendo».
«Se trovate inquietante tutto questo – conclude Kagan – avete ragione». E «la cosa peggiore è che tale strategia non impedirà all'Iran di dotarsi di un'arma nucleare, ma il realismo è questo». Brent Scrowcroft che brindò con i leader cinesi dopo Piazza Tienanmen e Gerald Ford che non incontrò Solgenitsyn al culmine della distensione. «I repubblicani tradizionalmente hanno fatto meglio dei democratici, anche se raramente sono stati ricompensati dal popolo americano nelle urne. Vedremo se il presidente Obama dimostrerà sangue freddo nel perseguimento di migliori relazioni con un regime orribile, senza subire lo stesso destino politico».
In sintonia con la lettura di Kagan è anche uno degli editoriali del Wall Street Journal, che fa notare come «la democrazia interferisce con il copione della diplomazia nucleare di Obama». Ma ragionando in questo modo, osserva, «gli Stati Uniti non avrebbero mai dovuto sostenere i dissidenti sovietici perché avrebbe interferito con il controllo degli armamenti nucleari». Rincara la dose Bret Stephens: una presidenza che si pensava fosse tutta orientata verso la «speranza» si è subito ripiegata in un atteggiamento di «cinica realpolitik». E ora «l'unica speranza che insegue è tenere in vita» la possibilità di una "grande accordo" sul programma nucleare iraniano. Forse «un giorno un futuro presidente dovrà scusarsi con gli iraniani per il disinteresse di Obama, come Obama oggi si scusa per l'intromissione dell'amministrazione Eisenhower». «Raramente nella storia degli Stati Uniti - conclude Stephens - una politica estera è stata così radicalmente contraddetta dagli eventi come l'approccio di Obama con l'Iran nei primi mesi di mandato».
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