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Wednesday, June 24, 2009

La Repubblica islamica non sarà mai più la stessa/2

E' bene intendersi sulle aspettative che è realistico nutrire riguardo la crisi in corso in Iran, soprattutto alla luce delle ultime tragiche notizie che ci giungono da Teheran. Se è l'immagine romantica della piazza che in una notte rovescia la dittatura degli ayatollah che aspettiamo, prima di chiamarla rivoluzione democratica, o prima di riconoscere qualche possibilità di un cambiamento effettivo, rimarremo sempre delusi. Il regime ha la forza per reprimere i manifestanti e lo sta facendo. Il movimento popolare deve spingere, accompagnare, ma si deve aprire una breccia dall'interno, nell'elite. Una breccia simile a quella aperta da Gorbacev, che con le sue riforme voleva conservare il regime comunista e di certo non far crollarel'Urss, ma proprio quello è stato l'inevitabile esito della sua glasnost. Solo in questo modo un regime spietato come quello degli ayatollah può cadere, e non dall'oggi al domani.

Bisogna ammettere che in una sola settimana Mousavi (personaggio dal curriculum nient'affatto democratico) ha fatto molto di più di Khatami in quattro anni. Ha sfidato in modo inaudito e impensabile l'autorità della Guida Suprema e del Consiglio dei Guardiani. Ha offerto per dieci giorni uno sbocco politico alla frustrazione e alle istanze di libertà popolari. E questo rimarrà nella memoria degli iraniani. La mia impressione è che sì, magari Mousavi e Rafsanjani usciranno battuti oggi, e saranno costretti ad abbassare il livello dello scontro, ma che la fronda interna continuerà. Bisognerà vedere se il regime avrà la forza di compiere una repressione, e un'epurazione al suo interno, pari a quelle di cui fu capace il Partito comunista cinese dopo Tienanmen, ma ho i miei dubbi.

Dopo Taheri e Gerecht nei giorni scorsi, oggi altri due autorevoli analisti che difficilmente rientrano nella categoria degli illusi, vedono una spaccatura reale e non facilmente ricomponibile nell'elite che ha gestito il potere in Iran fino ad oggi in modo compatto. Anche secondo Edward Luttwak, comunque si concluderà questa crisi, «il regime iraniano non sarà mai più lo stesso».

«A questo punto, solo il futuro di breve termine del regime è in dubbio. Le attuali proteste potrebbero essere represse, ma le istituzioni non elette del regime clericale sono state fatalmente minate». In ogni caso, «non è un regime che può durare per molti anni ancora», secondo Luttwak. Le forze di sicurezza possono controllare e reprimere la piazza, ma «ciò che ha minato la struttura stessa della Repubblica islamica è la frattura nella sua elite dirigente. Le stesse persone che crearono le istituzioni del regime clericale stanno distruggendo la loro autorità». Anche per Luttwak è molto significativo che per la prima volta importanti esponenti del regime abbiano sfidato apertamente l'autorità di Khamenei e del Consiglio dei Guardiani, le due istituzioni su cui si regge tutta l'impalcatura di potere khomeinista e senza le quali l'Iran «sarebbe una normale democrazia».

«E' evidente che dopo anni di umiliante repressione sociale e cattiva gestione dell'economia, i settori più istruiti e produttivi della popolazione hanno voltato le spalle al regime». Ciò che però ancora manca a questo movimento è un leader carismatico. Se il suo «coraggio» nel resistere alle pressioni «ha certamente accresciuto la sua popolarità, tuttavia Mousavi è ancora niente di più che il simbolo involontario di una rivoluzione politica emergente». Nonostante questo, dice Luttwak, «se Mousavi avesse vinto», anche modeste aperture avrebbero «innescato richieste di un maggiore cambiamento, alla fine facendo cadere l'intero sistema del regime clericale». Quindi, per Luttwak, anche se uomo interno all'establishment, Mousavi avrebbe potuto svolgere (e potrebbe in un futuro prossimo svolgere) un ruolo simile a quello svolto, suo malgrado, da Gorbacev, le cui riforme «molto caute, pensate per perpetuare il regime comunista, finirono per distruggerlo in meno di cinque anni». In Iran, osserva Luttwak, «il sistema è molto più giovane e il processo sarebbe stato probabilmente più rapido».

Per il momento, come dimostrano anche gli ultimi sviluppi, Khamenei sembra avere saldamente in mano il potere, ma è anche «nella posizione insostenibile a lungo di dover sostenere un presidente la cui autorità non è accettata da molte delle istituzioni di governo. Quindi, anche se rimane in carica, Ahmadinejad non può funzionare come presidente». Per esempio, Luttwak ipotizza ostruzionismo parlamentare da parte degli oppositori: non è detto, per prima cosa, che il Parlamento ratifichi le sue nomine ministeriali. Insomma, «anche se Khamenei non viene rimosso dal Consiglio degli Esperti e Ahmadinejad non viene rimosso da Khamenei, il governo continuerà ad essere paralizzato», sempre che la frattura all'interno dell'elite persista. «La buona notizia - conclude Luttwak - è che sotto il meccanismo di erosione del regime clericale, le istituzioni essenzialmente democratiche in Iran sono vive e vegete e necessitano solo di nuove elezioni».

Un altro che non fa certo parte dei sognatori democratici è Robert Kaplan, che sul Washington Post addirittura si spinge oltre l'Iran: «Le manifestazioni a Teheran e in altre città hanno la capacità di preludere a una nuova era politica in Medio Oriente e in Asia centrale». Kaplan ricorda la storica capacità dell'Iran (e della Persia) di influenzare tutta la regione, che risale nei secoli a molto prima della rivoluzione khomeinista; inoltre, per molti aspetti la società iraniana è più evoluta di quelle dei suoi vicini arabi:
«Il movimento democratico in Iran è sorprendentemente occidentale nella sua organizzazione e nel sofisticato uso della tecnologia. In termini di sviluppo, l'Iran è più vicino alla Turchia che non alla Siria o all'Iraq. Mentre questi ultimi vivono nella possibilità dell'implosione, l'Iran ha una coerenza interna che gli permette di esercitare una forte pressione sui suoi vicini. Nel futuro, un Iran democratico potrebbe esercitare su Baghdad un'influenza tanto positiva quanto è stata negativa quella delle squadracce assassine dell'Iran teocratico».
Dunque, osserva Kaplan, «l'Iran è così centrale per le sorti del Medio Oriente che anche un cambiamento parziale nel comportamento del regime - e un maggior grado di sfumature nel suo approccio nei confronti dell'Iraq, del Libano, di Israele e degli Stati Uniti - potrebbe avere un effetto drammatico sulla regione. Proprio come un leader radicale iraniano può fomentare le Arab streets, un riformatore può stimolare l'emergente, ma stranamente opaca, borghesia araba». Per questo Kaplan non è d'accordo con Obama quando dice che tra Mousavi e Ahmadinejad in fondo non c'è tutta questa gran differenza. Questa «rappresentazione» di Mousavi come di «un radicale, sebbene all'apparenza più gentile e affabile di Ahmadinejad, non coglie il punto». Anche Kaplan ricorre al paragone con la ex Unione sovietica. Come nell'Urss, anche in Iran infatti «il cambiamento può arrivare solo dall'interno; solo da un insider, sia un Mousavi o un Gorbacev».

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