Ex malo bonum. In questi casi c'è sempre una buona notizia nella cattiva. Ed è che la Repubblica islamica dell'Iran si presenta al mondo e ai suoi interlocutori con il suo vero volto, cioè il peggiore. Non c'è trucco non c'è inganno da questo punto di vista: quelli sono. E ciò renderà più difficile a Washington e in Europa illudersi sull'esito del dialogo sul nucleare e sul ruolo di Teheran in tutto il Medio Oriente, un ruolo ad oggi e per i prossimi anni destabilizzante e di sponsor del terrorismo. Un gattopardesco ricambio alla presidenza, impersonato da un leader che oggi si presenta come moderato e riformista, avrebbe rischiato invece di alimentare illusioni come negli anni di Khatami.
Evidentemente Khamenei non ha voluto concedere neanche questo al popolo iraniano e all'Occidente. La rielezione di Ahmadinejad non è di per sé un "no" alle aperture al dialogo avanzate da Obama. E' comunque probabile che il regime veda una convenienza in un dialogo senza condizioni, che quindi gli permette di progredire senza costi politici nel suo programma nucleare. E' probabile che in qualche modo Teheran risponda a quelle aperture e che parta un negoziato, sia pure non pubblicamente. Gli Stati Uniti avrebbero invece tutto l'interesse ad avviare negoziati il più possibile pubblici e trasparenti. Ma il messaggio chiaro, inequivocabile, della rielezione di Ahmadinejad, è che l'Iran vuole l'atomica e l'egemonia nel mondo musulmano, che il nucleare non è negoziabile e che non rinuncerà ad esportare la rivoluzione islamica, e che la leadership iraniana vede nella mano tesa della nuova amministrazione Usa un segno di debolezza di cui approfittare.
Le aperture di Obama, dopo le reiterate provocazioni di Ahmadinejad nella regione e nei confronti dell'Onu, sono state presentate dal presidente uscente come un riconoscimento della potenza iraniana. Perché mollare la presa proprio ora, quando il nemico sembra alle corde?
Ciò che è accaduto venerdì è abbastanza chiaro. Abbiamo assistito ad una farsa, ad una messa in scena sotto l'abilissima regia di Khamenei, che ha fornito un candidato battuto in partenza per far sfogare l'opposizione interna e per illudere l'Occidente di una possibilità di cambiamento alle porte, guadagnandosi così una copertura mediatica che ha dato credibilità alle "elezioni" che si stavano per svolgere.
Tutti abbiamo letto nell'alta affluenza un dato favorevole allo sfidante: Mousavi. E invece era parte del piano per far trionfare Ahmadinejad e avremmo dovuto sospettarlo. Fin dal mattino del voto le autorità hanno cominciato a celebrare un'eccezionale affluenza, addirittura superiore all'80% (fin troppo sospetta per un regime che considerava un trionfo già il 60% delle passate elezioni), che in realtà dev'essere servita a giustificare le enormi quantità di schede precompilate dagli scribacchini di regime che sarebbero affluite nelle urne per garantire ad Ahmadinejad una maggioranza schiacciante.
Qualcosa però potrebbe essere andato storto. Forse questa volta la popolazione si è davvero entusiasmata per un possibile cambiamento. In queste ore il governo ha vietato le manifestazioni e la Guida Suprema ha invitato Mousavi a seguire le vie legali e a calmare gli animi dei suoi. Mousavi da parte sua sembra intenzionato a partecipare alla marcia di protesta contro i brogli vietata dal Ministero degli Interni. E' ancora da vedere, quindi, se Mousavi deciderà di mettersi ufficialmente alla testa dell'opposizione, attraversando quindi il confine tra candidato-fantoccio del regime e dissidente, o se invece deciderà di rientrare nei ranghi e deludere quei settori della popolazione che hanno creduto in lui.
Consentitemi infine una piccola polemica. Viene da ridere (verrebbe anzi da piangere) quando si leggono le lezioncine del professorino di turno, che alla vigilia del voto ci suggeriva di non essere troppo duri con Teheran, perché in definitiva, a ben guardare, pur non essendo certamente «un gioiello di democrazia», tuttavia la Repubblica islamica ha «importanti elementi democratici al suo interno». «Il Presidente e il Parlamento si rinnovano regolarmente», per esempio, e le elezioni - le ultime parole famose! - «non sembrano soggette a brogli o violenze simili a quelle dell'Iraq saddamita». Persino il titolo del post ("La dittatura dei dibattiti presidenziali in televisione") era stato pensato come scherno nei confronti di quei poveri ingenui che ancora credono l'Iran una dittatura.
Se solo i candidati approvati dal regime possono concorrere; se prima, durante e dopo il voto sono sospese tutte le comunicazioni nel paese (sms, siti internet, e-mail) e censurati i giornali; se l'esito viene deciso gonfiando l'affluenza per poter giustificare le grandi quantità di schede precompilate inserite abusivamente; se è vietato qualsiasi raduno, se vengono picchiati (e persino uccisi) i dimostranti e arrestati centinaia di oppositori (tra cui uno dei candidati alla presidenza, il principale sfidante), a chiunque riuscirebbe difficile parlare di «importanti elementi democratici» in Iran, se non a un poveretto, rimasto vittima della propaganda del regime, che tenta di far passare per dotte analisi geopolitiche una resa totale dell'Occidente rispetto alle ambizioni iraniane che nessun realista si è mai sognato di sostenere.
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