La Casa Bianca ha risposto agli eventi in corso con due giorni di imbarazzato silenzio, stretta tra due esigenze difficilmente componibili: non compromettere il tentativo di dialogo con dichiarazioni ostili alla leadership Khamenei-Ahmadinejad, ma al tempo stesso non tradire i valori democratici in cui l'America crede, per altro difesi di recente da Obama nel suo discorso al Cairo. Tra un semplice «stiamo monitorando» la situazione di sabato scorso, e i «dubbi» sulla regolarità delle elezioni espressi dal vicepresidente Biden domenica, solo lunedì il portavoce del Dipartimento di Stato ha ammesso che gli Usa sono «profondamente preoccupati». «Non ho usato la parola "condanna"», precisava, perché «dobbiamo prima vedere come si evolve la situazione». Emblematico però lo scambio di battute con un cronista di Fox News: «Avete bisogno di vedere più teste spaccate in mezzo alla strada?». «Abbiamo bisogno di un esame più approfondito di quanto sta accadendo», rispondeva il portavoce rivelando il dilemma dell'amministrazione: «Dobbiamo guardare anche al nostro interesse nazionale – la non proliferazione è una nostra priorità».
Nella conferenza stampa di ieri al termine dell'incontro con Berlusconi un riluttante Obama si è finalmente pronunciato, esprimendo una cauta e generica simpatia per i dimostranti:
«Sono profondamente preoccupato per la violenza che sto vedendo in tv. Il processo democratico, la libertà d'espressione, la possibilità della gente di dissentire pacificamente, sono tutti valori universali e devono essere rispettati. Ogni volta che vedo usare violenza su persone che dissentono pacificamente, e ogni volta la vedono gli americani, siamo preoccupati. E' importante che qualsiasi indagine abbia luogo non provochi spargimento di sangue, non si concluda con una repressione della gente che esprime le sue opinioni. Voglio dire loro – ha aggiunto Obama rivolgendosi al popolo iraniano – che il mondo sta guardando ed è ispirato dalla loro partecipazione, a prescindere dall'esito finale delle elezioni».Ma Obama ha anche precisato di non voler dare l'impressione che gli Stati Uniti si stanno intromettendo negli affari interni iraniani («Rispettiamo la sovranità iraniana e vogliamo evitare che gli Stati Uniti diventino oggetto di dibattito all'interno dell'Iran») e ha ribadito di voler perseguire una «diplomazia pragmatica» con qualsiasi tipo di regime iraniano. Da queste prime reazioni è evidente che Obama teme che se appoggia i dimostranti e i leader dell'opposizione, ma il regime non cade, diminuiranno le possibilità del dialogo. Non vale la pena quindi spendere l'appoggio morale dell'America, se sarà comunque con Ahmadinejad e Khamanei che dovrà avere a che fare.
Esprimendosi a favore dell'opposizione nella contesa elettorale, sostengono gli analisti vicini all'amministrazione, Obama si esporrebbe al rischio di offrire ad Ahmadinejad e a Khamenei il pretesto per derubricare le proteste di massa contro i brogli a un complotto ordito dai nemici della Repubblica islamica, giustificando così una repressione ancor più violenta. Sarebbero ben felici di «dipingere l'opposizione come il burattino dell'imperialismo americano», spiega Bruce Riedel, analista della Brookings Institution. «Possiamo condannare tutto ciò che vogliamo, ma questo non farà sentire gli iraniani molto meglio».
Cosa dovrebbe fare quindi Obama? Semplice per Kenneth M. Pollack, altro analista della Brookings Institution: «Niente». Intromettendosi Obama potrebbe solo «peggiorare la situazione» degli iraniani. «Niente di ciò che possiamo dire aiuterebbe la gente che vogliamo aiutare. E per di più, non sappiamo la verità – il governo Usa non può dire con certezza che le elezioni sono state truccate... Sarebbe un disastro se gli iraniani dovessero ratificare la vittoria di Ahmadinejad solo per dimostrare di resistere alle pressioni americane. L'unica cosa sensata da fare è aspettare».
Sono molte, invece, secondo il neoconservatore Bill Kristol, direttore del Weekly Standard, le cose che Obama potrebbe (e dovrebbe) fare. Per esempio, «dovrebbe sostenere i dimostranti, dire che rubare le elezioni è inaccettabile, che uccidere i manifestanti nelle strade di Teheran è inaccettabile. Potrebbe lavorare con gli europei per dire "mandiamo osservatori internazionali a controllare se sono state elezioni corrette. E se non lo sono state, pensiamo a nuove elezioni". Ci sono un milione di cose che gli Stati Uniti potrebbero fare simbolicamente per provare a rafforzare coloro che vogliono impedire alle Guardie rivoluzionarie e ad Ahmadinejad di conquistare completamente il potere nel paese». Jonah Goldberg, sul Los Angeles Times, ha definito quella di Obama una «non scelta». «Presidente, la prego. Prenda le parti della democrazia», ha supplicato. «Non dovremmo bombardare l'Iran, o invaderlo...», Goldberg si accontenterebbe se Obama «sollevasse almeno un dito per la democrazia».
«Anche elezioni-farsa possono a volte produrre risultati reali», osservava ieri il Wall Street Journal. «Hanno infatti rivelato la vera natura del potere dei mullah - sia agli iraniani che hanno votato nella speranza di contare, che al mondo che ha visto andare in pezzi le sue illusioni sulla democrazia in Iran». I manifestanti quindi «meritano il sostegno occidentale, non solo quello dei media». «Il minimo che dobbiamo ai dimostranti è non guardare altrove» e questo «obbligo morale», per il WSJ, «riguarda soprattutto l'amministrazione Obama». La vittoria di Ahmadinejad «dovrebbe spingere Obama a riconsiderare la ricerca di un grande accordo con l'Iran». Obama, sottolinea il WSJ, «ha l'occasione di offrire ai dimostranti iraniani il considerevole peso del sostegno morale degli Stati Uniti e di dimostrare al regime che ci sono delle conseguenze se si truccano le elezioni».
Anche a sinistra, pur ritenendo opportuna la cautela di Obama, tuttavia alcuni vorrebbero che dimostrasse una simpatia più esplicita per il popolo iraniano, se non per i leader dell'opposizione. Tra questi il senatore democratico Joe Lieberman, da sempre un "falco" sulle questioni di sicurezza nazionale, ma anche George Packer, del New Yorker, che avverte: «Il realismo non dovrebbe essere un feticcio ideologico sotto Obama più di quanto lo è stata la "libertà" sotto Bush».
L'amministrazione è stata colta di sorpresa, è impreparata, confusa, non sa con certezza cosa sta realmente accadendo a Teheran. Ed è un problema grave. Non si aspettava che emergesse una tale frattura all'interno del regime iraniano, che in qualche modo conferma le tesi di quanti - come Michael Ledeen - da tempo sostengono inascoltati la sua fragilità, la pressoché totale disaffezione, e voglia di libertà, degli iraniani, nonché la stanchezza di una parte consistente del clero stesso per la militarizzazione progressiva della Repubblica islamica.
A complicare la situazione, proprio mentre l'amministrazione fatica ad elaborare una linea sulla crisi post-elettorale in Iran, le voci del passaggio di Dennis Ross, il consigliere per la politica iraniana, dal Dipartimento di Stato alla Casa Bianca, al Consiglio per la sicurezza nazionale. Secondo fonti interne all'amministrazione, perché nei prossimi mesi la Casa Bianca assumerà sempre più la funzione di vera e propria cabina di regia nel dialogo con l'Iran ed è lì che più torneranno utili le competenze di Ross. Oppure, Dennis Ross sta (o stava, alla luce di quanto accaduto a Teheran) per essere messo da parte in quanto fa parte di coloro che sostengono il dialogo con l'Iran senza illusioni, ma contando sul fatto che è comunque in grado di creare un contesto favorevole all'uso della forza nel caso in cui dovesse fallire. C'è chi, come il direttore di The New Republic, Martin Peretz, si è convinto che ormai l'amministrazione sia disposta a rassegnarsi all'Iran nucleare e già pensa a una dottrina di deterrenza e contenimento.
Tendere la mano, ha scritto Ross sul suo ultimo libro, «non vuol dire escludere l'uso della forza, ma metterci in una posizione migliore per usarla se avremo mostrato di aver esaurito prima tutte le opzioni alternative».
«Le politiche più dure - sia militari sia di contenimento intelligente - saranno più facili da vendere internazionalmente e internamente se avremo provato di risolvere diplomaticamente le nostre differenze con l'Iran in un modo serio e credibile».Obama sta affrontando la sua prima crisi ufficiale di politica estera, che sta mettendo in luce tutti i limiti, le ambiguità e le contraddizioni della sua politica nei confronti dell'Iran in particolare, e del Medio Oriente in generale. Una politica che pretende di tenere insieme realismo e difesa dei valori democratici, finendo puntualmente per sacrificare i secondi e, in definitiva, per legare le mani agli Usa di fronte a crisi come questa.
Mousavi sarebbe stato il tipo di "moderato" ideale con il quale convolare felicemente a un dialogo senza scadenze, che probabilmente non avrebbe portato a nulla se non l'Iran a guadagnare tempo prezioso per dotarsi dell'atomica. Adesso invece per Obama sarà più difficile far digerire il negoziato con Ahmadinejad, soprattutto dopo che queste elezioni-farsa e le manifestazioni di massa hanno definitivamente raso al suolo la sua credibilità e delegittimato il regime degli ayatollah, dimostrando al mondo intero che gli iraniani lo detestano e vorrebbero liberarsene. Obama tenterà comunque, ma la pazienza che gli sarà concesso di avere dall'opinione pubblica americana e da Israele sarà molto minore. A prescindere da come andrà a finire a Teheran, da oggi è per chiunque (persino per Obama) più difficile negare il vero volto e la minaccia del regime iraniano.
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