La scorsa settimana ho cercato di capire qualcosa di più su quanto sta avvenendo ed è in gioco in Iran soffermandomi sui «dilemmi» di tre personaggi (Khamenei, Obama, Mousavi). Tutti e tre negli ultimi giorni hanno mosso dei passi in una delle direzioni che indicavo, con alcune sorprese: Khamenei ha deciso di appoggiare Ahmadinejad e di appoggiarsi all'ala dura e militarista del regime; Mousavi, sorprendendoci, ha deciso di non piegarsi e di sfidare l'autorità della Guida Suprema; Obama di schierare esplicitamente l'America «al fianco di chi reclama giustizia in modo pacifico» (intervista alla CBS).
Il dato politico che mi pare emergere da questi ultimi due giorni di manifestazioni e scontri (è ragionevole sospettare che i morti siano dieci volte tanti quelli denunciati dal regime, quindi un centinaio), è che - contrariamente a quanto temevo dopo il discorso di Khamenei venerdì scorso - Mousavi oggi è un po' meno uguale ad Ahmadinejad, e che Obama sembra essersene accorto. La differenza tra Ahmadinejad e Mousavi, che pochi giorni fa il presidente Usa definiva «non tanto grande come appare», si va ingrandendo di giorno in giorno. Come ha ben spiegato Angelo Panebianco nel suo editoriale di domenica sul Corriere della Sera, l'equiparazione tra i due con la quale Obama ha inizialmente giustificato la sua cautela è superata dagli ultimi eventi: «Se, come allo stato degli atti sembra probabile... il regolamento di conti in atto mettesse completamente fuori gioco le componenti più moderate del regime, la politica estera iraniana diventerebbe ancora più pericolosa di come oggi è». Se una vittoria (ad oggi improbabile) di Mousavi non significherebbe automaticamente democrazia e abbandono del programma nucleare iraniano, il dominio assoluto di Khamenei e Ahmadinejad, in un contesto di instabilità interna e condanna internazionale, significherebbe quasi certamente una politica estera ancor più minacciosa ed aggressiva.
Ammesso che Ahmadinejad e Mousavi siano mai stati uguali, ciò non è più vero dopo le ultime prese di posizione di quest'ultimo. Sia pure mantenendo i piedi per terra, Mousavi mi ha sorpreso. Credevo che dopo il discorso di Khamenei di venerdì si preparasse a rientrare nei ranghi. E invece ha sfidato apertamente l'autorità della Guida Suprema, non accogliendo l'invito, o meglio l'ordine, impartito nel discorso di venerdì, di non appoggiare le manifestazioni; ha addirittura incoraggiato la popolazione a manifestare ed è sceso in piazza con i manifestanti; si è dichiarato «pronto al martirio» e ha continuato a chiedere l'annullamento delle elezioni, denunciando che «i brogli erano pianificati da mesi». L'arresto della figlia e di quattro suoi parenti farebbe pensare che neanche l'ex presidente Rafsanjani abbia raggiunto un compromesso con Khamenei, voltando le spalle a Mousavi, come temevo venerdì scorso.
La notizia è che nonostante tutto il peso dell'autorità di Khamenei, l'alleanza Mousavi-Rafsanjani-Khatami sembra ancora in piedi e intenzionata a lottare fino al punto di correre il rischio di assestare una ferita mortale alla legittimità dell'intero sistema. Non importa se la loro intenzione è quella di governare, e non rovesciare, la Repubblica islamica. Di fatto, insieme ai manifestanti, la stanno picconando.
Pur con tutti i dubbi sul suo passato da "duro" del regime, non si possono sottovalutare gli enormi, inaspettati e irreversibili passi compiuti da Mousavi negli ultimi giorni. Anche se da una sua eventuale (e ancora improbabile) vittoria nella prova di forza contro Khamenei e Ahmadinejad non possiamo certo aspettarci una rivoluzione democratica, sarebbe comunque realistico aspettarci l'apertura di una breccia consistente all'interno del sistema khomeinista, paragonabile alle brecce aperte da Gorbacev, che in pochi anni portarono alla caduta del Muro e alla fine dell'Urss anche al di là e contro le sue intenzioni.
Il presidente Obama sembra averlo intuito e pur sottolineando il ruolo da meri "osservatori" degli Stati Uniti e della comunità internazionale («the world is watching»; «we are bearing witness... and we will continue to bear witness»), è stato però esplicito nell'indicare da che parte sta l'America: «I diritti universali a riunirsi e la libertà d'espressione devono essere rispettati e gli Stati Uniti stanno al fianco di tutti coloro i quali cercano di esercitare questi diritti». Come prevedevamo, infatti, le pretese cautele di Obama (se davvero la preoccupazione del presidente era quella di non danneggiare le opposizioni) sono state ininfluenti. Nel senso che da giorni il regime fa ricorso al complotto internazionale per delegittimare le proteste, ma ciò non è servito a placare gli animi e a ricompattare l'establishment. L'ala "riformista" del regime, che conosce bene l'uso propagandistico del nemico esterno, non si è fatta irretire.
2 comments:
quello che mi spaventa di tutta la vicenda iraniana, è la sorte del popolo, di tutto ma principalmente di quella parte che lotta per la libertà di ciascuno e non per quella esclusiva della sua fazione.
noi italiani, queste cose...le conosciamo bene.
tant'è che pure noi abbiamo capito che non è una rivoluzione ma una resa dei conti all’interno del regime degli ayatollah.
quello che temo io, pertanto, è che il popolo iraniano potrebbe subire anche esso una guerra civile.
ancora più "inconsapevole" della nostra.
...
io ero tzunami
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